Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Ahmadinejad: "l'Iran è un treno senza freni" qualcuno lo fermerà prima della catastrofe ?
Testata:La Stampa - Corriere della Sera Autore: Maurizio Molinari - Davide Frattini - Cecilia Zecchinelli Titolo: «Ahmadinejad, siamo un treno senza freni - E Bush scommette sul golpe a Teheran - Contro gli ayatollah prove di un'alleanza sunnita - Il leader studentesco: «La sfida è un'altra Combattiamo per la libertà e il benessere»»
Da La STAMPA del 26 febbraio 2007, la cronaca di Maurizio Molinari:
«Il programma nucleare è una locomotiva senza freni, impossibile da fermare». E’ questo il monito al quale il presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, si affida per fare sapere alla comunità internazionale che nessuna risoluzione o decisione dell’Onu potrà impedire a Teheran di arrivare all’energia nucleare. La scelta di tempo dell’uscita di Ahmadinejad non è casuale perché proprio oggi a Londra si riuniscono gli alti diplomatici delle Sei potenze - Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania - che a fine dicembre fecero approvare al Consiglio di Sicurezza la risoluzione 1737 sulle sanzioni, ed ora si avviano ad esaminare un testo che propone misure più rigide. «Il treno è senza freni - ha detto Ahmadinejad ad un gruppo di esponenti del clero iraniano - perché abbiamo smantellato i freni e lo abbiamo lanciato in avanti qualche tempo fa». Come dire: il programma nucleare ha superato il punto di non ritorno. La risposta di Washington non si è fatta attendere ed il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha affidato alla tv Fox una contro-battuta: «Se il treno è in corsa, allora è arrivato il momento di spingere il bottone dello stop». Ma di fronte al duello verbale con l’amministrazione Bush gli ayatollah non si tirano indietro: se 48 ore prima il vicepresidente Dick Cheney aveva ammonito che «nessuna opzione è esclusa», a rispondergli è il viceministro degli Esteri iraniano, Manuchehr Mohammadi, secondo cui «siamo pronti anche alla guerra». Ad avvalorare lo scenario dell’incombente conflitto è l’articolo del «New Yorker» firmato da Seymour Hersh - in genere ben informato sulle questioni di intelligence - secondo cui il Pentagono sta pianificando un «attacco da lanciare in meno di 24 ore», oltre ad aver inviato in territorio iraniano unità di intelligence «molto aggressive», al di là del confine iracheno. A questo bisogna aggiungere l’avvenuto lancio del primo «razzo spaziale» iraniano. Il capo del programma spaziale, Mohsen Bahrami, ha spiegato alla tv locale che il test è stato «coronato da successo» rendendo possibile la prossima messa in orbita di satelliti per telecomunicazioni. In realtà il test ha un valore militare in quanto testimonia che lo sviluppo della tecnologia missilistica iraniana è a tal punto avanzato da rendere possibile la costruzione di un vettore intercontinentale - forse simile a quello lanciato senza successo dai nordcoreani questa estate - capace potenzialmente di minacciare il territorio degli Stati Uniti. L’ipotesi di un confronto militare fra Usa ed Iran è avvalorata da altri segnali: dall’addestramento da parte della Us Navy di delfini e leoni marini da impiegare a protezione delle unità militari da attacchi terroristici fino all’inizio dell’arrivo dei primi missili Patriot americani in Qatar, Bahrein ed Emirati Arabi per proteggerli dal rischio di lanci balistici da parte di Teheran. Non tutti a Washington sarebbero però d’accordo con l’escalation - nella quale rientra anche lo spostamento dal Pacifico all’Oceano Indiano della portaerei Reagan - ed almeno cinque alti ufficiali del Pentagono avrebbero minacciato di dimettersi in caso di guerra. A rivelarlo è stato il britannico «Sunday Times» spiegando che si tratta di «generali ed ammiragli», secondo i quali vi sarebbero molti dubbi fra i comandi militari sull’«efficacia ed anche sull’opportunità» di un’azione militare contro gli impianti nucleari iraniani. «Per molti di loro si tratta di una questione di coscienza», scrive il quotidiano londinese.
Le differenti opzioni prese in considerazione dall'amministrazione Bush per far fronte alla minaccia iraniana:
George W. Bush si «occuperà dell’Iran prima di lasciare la Casa Bianca». Dietro le parole di Seymour Hersh, reporter investigativo del «New Yorker», vi sono due constatazioni. La prima è di intelligence: c’è una convergenza di massima fra i servizi occidentali sul fatto che Teheran entro tre anni, nel 2009-2010, potrebbe avere l’arma nucleare e dunque se Bush, che lascerà la Casa Bianca a fine 2008, non agirà ciò obbligherà il successore a farlo in tempi molto rapidi, quasi incompatibili con quelli necessari per assumere la guida dell’amministrazione. La seconda è politica: un presidente che ha definito la propria missione nella difesa dell’America da nuovi 11 settembre non può lasciare al successore la minaccia di un’arma atomica che Teheran potrebbe dare ai terroristi per colpire gli Usa. Da qui il consenso a Washington, negli ambienti diplomatici come militari, sul fatto che l’inquilino della Casa Bianca ha deciso di disinnescare il pericolo iraniano entro fine 2008, una data che alcuni anticipato a fine 2007 a causa della campagna presidenziale che inizia con le primarie dell’Iowa del 14 gennaio. Mettendo assieme indiscrezioni filtrate dall’amministrazione, articoli su soffiate mirate e i gossip che rimbalzano sulle rive del Potomac, le opzioni che Bush ha a disposizione sono quattro. La prima è quella dei neocon dell’American Enterprise Institute, favorevoli a fornire più aiuti agli oppositori interni per scommettere su una rivoluzione pacifica di piazza simile a quelle in Ucraina, Georgia, Libano e Kyrghizistan e capace di mettere in fuga Ahmadinejad facendo leva sul desiderio di libertà degli iraniani e la forza di impatto di studenti e associazioni sindacali. Sarebbe lo scenario migliore per la Casa Bianca ma, come ha scritto Ken Pollack nel suo «Persian Puzzle», l’interrogativo è se «la rivoluzione arriverà prima della bomba atomica o viceversa». La seconda opzione è quella diplomatica, affidata a Condoleezza Rice già riuscita ad ottenere dal Consiglio di Sicurezza l’unanimità sulla risoluzione 1737: i nuovi negoziati sulla seconda risoluzione potrebbero irrigidire le sanzioni ma il positivo risultato di rafforzare la voce della comunità internazionale si annuncia già vanificato dalla determinazione con cui Teheran si fa beffa dell’Onu, definendola delegittimato perché «non rispetta i trattati internazionali in vigore». Impossibilitato a scommettere sulla rivoluzione in tempi rapidi e dubbioso sul successo della diplomazia, il presidente ha la terza opzione nella ripetizone dell’«Operazione Ajax» che nel 1953 portò al rovesciamento di Mohammed Mossadegh - che puntava ad un neutralismo molto vicino a Mosca - sostituito da Reza Phalavi, lo Shah di Persia poi diventato alleato di ferro di Washington. Fu rovesciato grazie ad un’operazione congiunta dei servizi americani e britannici da manuale della Guerra Fredda e quanto sta avvenendo in questi giorni dentro ed attorno all’Iran suggerisce che una nuova operazione clandestina in grande stile sia iniziata. Dagli arresti di pasdaran a Irbil, alle tensioni fra corvette americane e iraniane nel Golfo, fino agli attentati sunniti nel Beluchistan si moltiplicano occasioni di pressione militare che ricordano le guerre sporche, non dichiarate che Usa ed Urss combattevano per procura in America Latina, Africa o Asia. D’altra parte attorno a Bush sono molti oggi gli uomini che vengono dalla vecchia Cia: il capo del Pentagono Bob Gates, il capo della Cia Michael Hayden ed il Direttore nazionale dell’Intelligence John Michal McConnell ma anche John Negroponte, da poco numero due della Rice, e James Baker, che nel rapporto sull’Iraq consigliò proprio di rifarsi ai precedenti sovietici per affrontare le nuove crisi del Medio Oriente. Ciò che tutti questi uomini hanno in comune è non solo un Dna di guerra e realpolitik ma anche il legame con l’ex capo della Cia, George H. Walker Bush, padre del presidente. Questa terza opzione punta a sfiancare Ahmadinejad, facendolo apparire vulnerabile e pericoloso al punto da spingere un possibile rivale - come Rafsanjani - a rompere gli indugi e spodestarlo. Solo se anche questa strada dovesse risultare infruttuosa Bush potrebbe ricorrere alla quarta opzione, l’attacco aeronavale contro gli impianti per rimandare indietro il programma nucleare di 5-10 anni, consentendo così al successore di occuparsene con la calma necessaria. Lo schieramento militare Usa nel Golfo ha dunque un doppio fine: aumentare la pressione per favorire il golpe a Teheran e, se dovesse fallire, rendere possibile un blitz nel giro di 24 ore, proprio come suggerisce l’articolo di Hersh sul «New Yorker».
Sul CORRIERE della SERA Davide Frattini scrive dell'alleanza sunnita interessata a contenere l'egemonia iraniana:
GERUSALEMME — Un vertice ristretto, dove sono stati invitati sette Paesi musulmani. Tutti a maggioranza sunnita. È la Guerra Fredda alla mediorientale. C'è il blocco delle nazioni che si sono ritrovate ieri in Pakistan. E ci sono quelli rimasti fuori dalla porta: Iran e Siria. Recep Tayyip Erdogan, premier turco, si è affrettato a spiegare che la riunione di Islamabad non vuole creare un'alleanza contro gli sciiti e per contrastare l'influenza di Teheran. «L'obiettivo non è isolare qualcuno», ha commentato in un'intervista alla televisione Al Jazeera. Eppure i giornali arabi hanno descritto il summit come il primo passo concreto per la nascita di un'asse sunnita. L'incontro è stato organizzato da Pervez Musharraf. Il presidente pachistano teme che le tensioni in Libano e Iraq possano infiammare il suo Paese, dove gli sciiti sono la minoranza, ma con 30 milioni di persone rappresentano la seconda comunità più numerosa al mondo dopo quella iraniana. Erdogan ha precisato che Iran e Siria verranno invitate in una seconda fase. Il vertice a Islamabad è servito anche per organizzare un'altra riunione alla Mecca. «Pakistan, Malaysia, Indonesia, Egitto, Giordania, Turchia e Arabia Saudita non sono qui perché sunniti. Siamo tutti musulmani», ha precisato Tasnim Aslan, ministro degli Esteri di Islamabad. Per ora, i sette Paesi parlano di «solidarietà tra le nazioni islamiche per fermare il deteriorarsi della situazione in Medio Oriente». Chiedono «il rilancio del processo di pace» e sono convinte che «la regione non possa permettersi un altro conflitto». La paura è che un eventuale attacco americano all'Iran mobiliti gli sciiti nei Paesi dell'area. Il presidente egiziano Hosni Mubarak ripete che «sono più fedeli a Teheran che alle nazioni dove vivono». E il sovrano saudita Abdullah ha usato una rara intervista, concessa qualche settimana fa, per accusarli di voler convertire i sunniti. «Ma la maggioranza non è disposta a cambiare la fede», ha detto ad Al-Siyassah. Lo stesso giornale kuwaitiano ieri ha rivelato che tre Stati del Golfo — Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti — sarebbero disposti a concedere il sorvolo del loro spazio aereo ai jet israeliani, nel caso di una operazione contro i siti nucleari iraniani. In novembre, il primo ministro Ehud Olmert aveva annunciato a Gerusalemme di voler creare legami con alcuni Paesi islamici, che non hanno rapporti con lo Stato ebraico. Per gli analisti, la mossa diplomatica servirebbe a costituire un blocco anti-ayatollah. «La minaccia iraniana può far qualcosa per unire le nazioni arabe. Ma l'alleanza potrà solo essere difensiva — ha spiegato Eyal Zisser dell'università di Tel Aviv al Washington Post —. Non saranno in grado di cambiare significativamente la faccia del Medio Oriente». Il timore dell'influenza iraniana è accompagnato dal sospetto per le intenzioni degli Stati Uniti. «Gli americani avevano bisogno di creare un nemico — scrive Talal Salman, direttore del giornale libanese as-Safir — per coprire il fallimento in Iraq. Così hanno trovato Teheran e noi arabi, per proteggerci dal lupo, accettiamo le truppe straniere nei nostri cieli, nei nostri mari, nella nostra terra».
Cecilia Zecchinelli firma un reportage sul mondo politico iraniano (di regime e di opposizione) di fronte alla prospettiva di una guerra:
TEHERAN — «Una guerra? E' l'ultimo dei nostri pensieri. Certo, ogni tanto ne parliamo tra noi. Ma nessuno ci crede, è una cosa lontana. E non pensate che qui sia come in Italia, dove gli studenti del '68 protestavano per il Vietnam o quelli di oggi per l'Iraq, cose lontane appunto. Qui abbiamo ben altri problemi, tutti interni al Paese». Ali Nikoo Nesbati, dottorando in economia, è tra i capi del più importante movimento studentesco iraniano, quel Tahkim Vahdat fondato ai tempi della Rivoluzione per sostenere Khomeini, divenuto con gli anni pro-secolarismo, pro-diritti umani e, dall'avvento di Ahmadinejad, anti-governativo. Protagonista in dicembre di una plateale contestazione contro il presidente ultraconservatore, le cui foto hanno fatto il giro del mondo, il Tahkim continua tra mille ostacoli a battersi per la democrazia. E Ali Nikoo, che alla protesta non ha partecipato perché arrestato preventivamente, e che oggi studia in un'università privata perché bandito da quelle pubbliche, ci parla a lungo dei problemi dei giovani nella Repubblica Islamica. Economici, sociali, culturali, politici. Ma che tra questi ci sia l'incubo di un'imminente guerra proprio no. Le forze di governo evitano di parlare di possibili attacchi, insistendo sul «diritto al nucleare pacifico», e anche tv, radio (solo governative) e stampa (pesantemente controllata) danno spazio alle dichiarazioni rassicuranti della Rice o di Bush («non vogliamo un conflitto»), piuttosto che alle rivelazioni su piani di attacco Usa. «E comunque non vedo perché dovrebbero colpirci, sarebbe più dannoso per loro che per noi. Bush non può fare un altro colossale sbaglio come in Iraq e Afghanistan», dice Hamid Reza Taraghi, dirigente del partito di governo Motalefeh. Anche nell'opposizione il parere è lo stesso. Con la sola differenza che tra le sue file l'ipotesi di rinunciare al nucleare pur di evitare l'inasprirsi dello scontro internazionale (ma il timore sono le sanzioni) sta prendendo sempre più spazio. Lo ribadisce Ali Nikoo: «Come studenti ci siamo pronunciati apertamente su questo punto: non solo per rompere l'isolamento del Paese, ma perché prima del nucleare ci sono altre battaglie da portare avanti, libertà e diritti umani». E nella città santa di Qom, Yusef Saneii, uno dei Grandi Ayatollah più impegnati sul fronte della democrazia (aveva fatto campagna elettorale contro Ahmadinejad nel 2005), dichiara che «anche se fosse per salvare una sola vita umana, direi no al nostro pur legittimo programma atomico. Ma sono ottimista, spero nel dialogo: gli americani non possono voler imporci una nuova guerra». La memoria della guerra terminata nel 1988, di quegli otto anni di conflitto con l'Iraq di Saddam (sostenuto da Washington), è ancora molto viva in Iran. «Sono un reduce, e odio tutte le guerre», dice Ali Reza. Sul suo taxi collettivo, che gli ingorghi infernali ed eterni di Teheran trasformano in un luogo di chiacchiere (una donna in chador, una ragazzina bene e naso rifatto, un impiegato, un giovane disoccupato), l'opinione è unanime. «Non ci attaccheranno, è escluso nonostante le stupidaggini di Ahmadinejad. Ma se proprio succederà — rispondono alle nostre insistenze — reagiremo. Siamo una nazione antica, ben diversa da Iraq o Afghanistan. Difenderemo l'Iran». Perfino nella folta (25 mila persone) e benestante comunità ebraica, che ha scuole, sinagoghe e un deputato in Parlamento, i deliri negazionisti di Ahmadinejad sull'Olocausto lasciano il tempo che trovano. E il desiderio di conciliare nazionalismo e buoni rapporti con il mondo prevale. «Siamo in Iran dai tempi di Ciro e Dario. Non vogliamo certo una guerra con Israele e gli Usa, contro cui non abbiamo niente, ma amiamo il nostro Paese», ci dice Lili, una simpatica impiegata incontrata in sinagoga per Shabbat, che si sente discriminata dal governo «come donna, non come ebrea». Combattereste per l'Iran? «Non sarà necessario, Bush non può farci questo torto». E comunque c'è un altro elemento che emerge da molte conversazioni. Come dice Mashallah Shamsol- Vaezin, capo della grande associazione dei giornalisti, ex direttore di quattro giornali chiusi dal governo e bandito dallo scrivere in patria, «questo Paese è il contrario del mondo arabo: da noi la leadership è antiamericana ma la gente no. E' vero che in tutte le crisi il nostro popolo si unisce intorno al governo per odiato che sia, lo ha fatto anche sotto lo Scià nell'ultima guerra mondiale. Ma è anche vero che oggi riesce a trasmettere più di un tempo la sua volontà alla leadership. E oggi non vuole combattere. Vuole pace, diritti e benessere». Ebrahim Yazdi, ex ministro degli Esteri, leader del partito Libertà e notissimo oppositore aggiunge: «Specie i giovani non sono più quelli dei tempi della Rivoluzione. Oggi, e il 70% degli iraniani è sotto i 30 anni, sono individualisti e concreti, non ideologizzati. E non sono affatto pronti a combattere in nome dell'Islam, contro un nemico straniero». E' davvero così? chiediamo ad Ali Nikoo. Come associazione che rappresenta decine di migliaia di studenti cosa fareste in caso di guerra? «Ogni iraniano vorrebbe difendere il suo Paese, è ovvio, ma un attacco oggi sarebbe un disastro, servirebbe solo a rafforzare gli integralisti. E comunque non abbiamo ancora preso una posizione ufficiale. E' ancora presto, forse inutile».