Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Ahmadinejad al crepuscolo ? un articolo di Bernard-Henry Levy
Testata: Corriere della Sera Data: 23 febbraio 2007 Pagina: 1 Autore: Bernard-Henry Levy Titolo: «Ahmadinejad: il (possibile) crepuscolo»
Dal CORRIERE della SERA del 23 febbraio 2007:
Sul teatro d'ombre che è la scena politica iraniana si è appena verificata una serie di eventi di cui non sempre si è misurata la portata. Uno di questi sono le parole di Khamenei. Secondo il leader spirituale della Repubblica islamica, le ripetute provocazioni del presidente Ahmadinejad vanno «contro l'interesse nazionale iraniano». Ed è lo stesso Khamenei che raccomanda al suo protetto — bisogna già dire il suo ex protetto? — di «non sfidare più le grandi potenze» e di «concentrarsi» sui «problemi quotidiani del popolo iraniano». Un altro evento è la perdita d'influenza, in seno all'onnipotente Assemblea degli esperti e a vantaggio dell'ex presidente Rafsandjani, dell' ayatollah più duro del regime, capo della fazione «mahdista» e, in questa qualità, mentore, guru, ayatollah personale di Ahmadinejad: l'ayatollah Mesbah Yazdi. Infine, ci sono le dichiarazioni di Ali Akbar Velayati, considerato il portavoce di Khamenei, il quale insiste pesantemente sul fatto di non aver «preso parte» alla pseudo «Conferenza internazionale» sulla Shoah e disapprova le parole negazioniste del presidente. Allora, è bene essere prudenti, naturalmente. Dobbiamo ricordare che i regimi totalitari sono stati sempre maestri nel fare il bello e il cattivo tempo; nell'inventare fazioni cosiddette moderate che dessero il cambio alle fazioni radicali discreditate; dobbiamo ricordare che il meccanismo di produzione di un capro espiatorio all'improvviso accusato di tutti i crimini commessi in comune, e che così discolpa il resto della setta, è un grande classico; e ricordo gli anni bui in cui io e qualcun altro ritenevamo la soppressione della fatwa che condannava a morte Salman Rushdie — esattamente come oggi la rinuncia al nucleare militare — una condizione assoluta per avere una qualsiasi discussione normale con l'Iran. Ricordo tutte le gioie vane, le buone notizie infondate, i cosiddetti cambiamenti di linea di cui si riempivano la bocca i sedicenti esperti e che, come risultato concreto, avevano quello di stringere, ogni giorno di più, la morsa attorno al nostro amico. Ma insomma… Non è nemmeno irragionevole pensare che, come appunto nella vicenda di Rushdie, la fermezza, la minaccia di sanzioni e una pressione che, stavolta, ha avuto il merito d'essere una pressione finanziaria e militare al tempo stesso, comincino nonostante tutto a dare risultati. Non è irragionevole né assurdo riconoscere di avere a che fare con un regime che, diversamente dall'Iraq di Saddam Hussein, non è un regime autistico, chiuso nel proprio delirio, sordo e cieco di fronte all'evoluzione di un rapporto di forze che gli diventa sfavorevole. Soprattutto, stiamo scoprendo che non avevano del tutto torto gli strateghi — europei e americani — che puntavano sulle capacità di ripresa di una popolazione civile troppo occidentalizzata, troppo moderna e, semplicemente, troppo avida di esistere per accettare il Viva la muerte che nel corso dei mesi, nel più puro stile totalitario, è divenuto l'unico programma del suo presidente. Allora, totalitarismo per totalitarismo, e visto che il regime iraniano è — non lo si ripeterà mai abbastanza — l'erede dei totalitarismi del XX secolo, spingiamo il paragone fino in fondo. E se quel che si trama a Teheran, nella cerchia più ristretta di Ahmadinejad, fosse un equivalente lontano del complotto contro Hitler del 20 luglio 1944? E se in gioco ci fosse, nei vari organismi che dovrebbero indicare la rotta al regime, la possibile apparizione di una sorta di Gorbaciov che, da una glasnost obbligata a una perestroika tattica, cominciasse a prenderci gusto e a dar voce, così, a quella gioventù che l'anno scorso manifestava a viso scoperto, in piazza e poi nelle urne, la sua opposizione al fascio-islamismo? E se Ahmadinejad, Yazdi e la loro cricca si ritrovassero nella posizione della famosa «Banda dei quattro», il cui regno coincise con i peggiori crimini della rivoluzione culturale cinese e la cui caduta segnò, com'era logico, la fine della tirannide? E se l'America fosse matura per un remake, non della guerra in Iraq, ma del Nixon in China, l'opera (di John Adams, Alice Goodman e Peter Sellars) ispirata dal viaggio (di Nixon e, poco prima, di Kissinger) presso il Nemico previamente sfinito da anni di guerra fredda all'esterno e dalla dissidenza all'interno? Non bisogna disarmare, naturalmente. E meno che mai abbassare la guardia. Ma forse il momento è giunto di riprendere in considerazione l'altra via: quella di un dialogo che, se portato avanti senza debolezze e sulla base dei nuovi segnali che Teheran sembra emettere, sarà veramente, stavolta, la continuazione della guerra con altri mezzi. traduzione di Daniela Maggioni
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