Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Ahmadinejad il bravo ragazzo e Khamenei il vecchio saggio il ruolo dei cattivi spetta agli americani
Testata:La Repubblica - Europa - Il Manifesto - Corriere della Sera Autore: Diane Sawyer - Siavush Randjbar-Daemi - Franco Pantarelli - Cecilia Zecchinelli Titolo: «Ahmadinejad: "Non ho paura di un attacco ci stanno accusando con prove inesistenti" - Ahmadinejad regista del caos in Iraq. Teheran cerca di smontare il teorema - Ahmadinejad : se gli Usa attaccano saranno puniti - Ahmadinejad ormai isolato e Khamenei vu»
La REPUBBLICA del 13 febbraio 2007 pubblica l'intervista rilasciata da Mahmud Ahmadinejad alla ABC. Il presidente iraniano minaccia, risponde evasivamente e provocatoriamente alla domande sulla destabilizzazione dell'Iraq, non smentisce l'appoggio alle milizie sciite e nemmeno l'esistenza di prove delle forniture di armi. Nonostante ciò REPUBBLICA presenta l'intervista come una credibile replica alle accuse americane. Se il titolo è "Ahmadinejad: "Non ho paura di un attacco ci stanno accusando con prove inesistenti" , l'occhielo recita "Il presidente iraniano alla rete tv Usa Abc: "Noi non vogliamo il conflitto, il caos iracheno è contro il nostro interesse" " Due sommari in evidenza : "la via alla pace Non siamo noi ad aiutare gli insorti iracheni." (Ahmadinejad non lo dice affatto, ndr) "La pace si raggiunge solo con il ritiro americano", "errori e sconfitte Gli americani hanno sbagliato e stanno perdendo Per questo puntano il dito sugli altri"
TEHERAN - In un´intervista esclusiva con la Abc, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad si è rifiutato di rispondere alle accuse di fornire armi ai ribelli iracheni, puntando invece sul concetto che l´Iran desidera la pace ed è contrario a ogni genere di conflitti. Si dice che 170 militari e circa 600 civili siano stati colpiti da armi iraniane. Lei sta mandando in Iraq armi per uccidere gli americani? «Noi ci teniamo alla larga da ogni sorta di conflitti e spargimenti di sangue, che ci rattristano. I problemi del mondo possono essere risolto con il dialogo, con l´uso della logica. Non c´è bisogno della forza. Noi abbiamo denunciato la mancanza di sicurezza in Iraq, che è anche contraria ai nostri interessi, e agli interessi di tutta la regione. La nostra posizione sull´Iraq è chiarissima: chiediamo pace, sicurezza, e ci rattrista l´uccisione di chiunque». Ma come facciamo a crederci? Gli americani hanno le prove, hanno le fotografie... «Be´, è molto facile giungere a conclusioni quando non si ha un buon apparato difensivo o si traggono giudizi parziali. In Iraq gli americani hanno commesso un errore, e purtroppo stanno perdendo. Se ne vergognano, ed è per questo che cercano di dare la colpa agli altri, ma questo non risolverà il problema». Ma si dice che le armi abbiano numeri di matricola iraniani? «Non abbiamo bisogno di queste cose. Posso fornirle dati e cifre: in Iraq si trovano oltre 160.000 soldati americani. Hanno aerei e elicotteri. A cosa servono? Sono loro a rendere l´Iraq insicuro». Siete pronti a processare chiunque sia trovato ad aver tentato di portare in Iraq armi iraniane? «Il fatto che voi ci mostriate dei pezzi di carta e li chiamiate documenti non risolve alcun problema. Il caso andrebbe dimostrato e sostenuto in un tribunale». L´Iran è forse autorizzato a mandare in Iraq degli iraniani? Gli americani hanno detto che avevano documenti falsi e cercavano di radersi la testa nel tentativo di distruggere le prove... «Non credo che nel sistema legale negli Stati Uniti si postuli che arrestare qualcuno significhi automaticamente accusarlo. Solo chi ha infranto la legge può essere portato in tribunale. Credo che sia infantile, da parte del governo degli Stati Uniti, arrestare persone indifese senza permettere loro di rivolgere la parola a nessuno e pubblicare informazioni faziose. Credo che questa non sia una soluzione per il problema dell´Iraq; la soluzione è altrove. Adesso i nostri diplomatici sono in Iraq; gli americani cosa stanno facendo lì? Cosa dovrebbero fare i diplomatici, e qual è il ruolo del consolato, dell´ambasciata? Noi con l´Iraq abbiamo rapporti diplomatici, oltre che politici e culturali. Perché gli americani sono lì e perché, a dispetto dei rapporti internazionali, attaccano una sede consolare?». Dunque lei potrebbe mandare altri iraniani. Stanno addestrando delle milizie? «Cosa intende per milizie?». Parlo delle forze sciite. «Mi permetta una domanda: quelli che stanno uccidendo gli sciiti sono organizzati dagli americani?». I sunniti? I baathisti? «Chiunque, chiunque. I baathisti vengono organizzati in Kuwait dagli americani? Perché dice di no? No, le sto solo rivolgendo una domanda: chi li organizza? Secondo le norme internazionali le forze di occupazione sono responsabili della sicurezza. Gli americani hanno fallito, ed è per questo che accusano gli altri. Vede, non siamo noi a controllare il conflitto in Iraq. Sono gli americani. L´Iraq ha una sua Costituzione, un suo Parlamento, un presidente eletto democraticamente, e credo che dovrebbe avere il controllo. Se il governo iracheno ci chiede assistenza, noi gli forniamo un appoggio intellettuale e siamo pronti ad offrirlo anche agli americani, così che si ritirino». Sarebbe disponibile a risolvere il problema che il governo americano ha in Iraq? «Si tratta di temi che vanno discussi a livello diplomatico, e lei non è che una giornalista. Il governo iracheno ha chiesto agli Usa che gli trasferissero la sicurezza. Questo aiuterà a risolvere il problema». Lei teme, a livello personale, un attacco da parte nostra? E attacchi aerei contro l´Iran da parte degli Stati Uniti? «Temere? Perché dovremmo avere paura? Prima di tutto, si tratta di una possibilità molto remota, e pensiamo che negli Stati Uniti ci siano persone sagge che fermerebbero simili azioni illegali, ma la nostra posizione è chiara: chiunque voglia attaccare il nostro paese sarà severamente punito». (Copyright ABC News/Good Morning America Exclusive)
Se sulla REPUBBLICA c'è almeno la possibilità di confrontare le effettive parole di Ahmadinejad conla fraudolenta presentazione del quotidiano, ai lettori di EUROPA tocca fidarsi di Siavush Randjbar-Daemi, che dedica tutto il suo articolo a scovare gli analisti americani che discolpano Teheran per il commercio d'armi (provato) che avviene attraverso i suoi confini. Il titolo scelto dal quotidiano della Margherita è da antologia: "Ahmadinejad regista del caos in Iraq. Teheran cerca di smontare il teorema ".
Ecco il testo: Dopo mesi di accuse indirette e recriminazioni, gli Stati Uniti hanno finalmente presentato il primo dossier che raccoglie, con dovizia di particolari, le prove che dimostrerebbero un sostanziale sostegno dell’Iran alla lotta armata contro le forze armate americane in Iraq. Nel corso corso di una conferenza stampa senza telecamere a Bagdad, domenica scorsa, il generale William Caldwelly, del comando americano in Mesopotamia, ha affermato che Teheran «è coinvolta nella fornitura di ordigni, proiettili, esplosivo ad alta penetrazione (Efp) e altro materiale a gruppi estremistici in Iraq». Gli Efp (Esplosively formed projectiles), che dal giugno del 2004 a oggi hanno ucciso oltre 170 militari americani, sono ordigni in grado di distruggere i tank Abrams. Secondo l’indagine americana, gli arresti di operativi iraniani effettuati a Erbil e Bagdad nelle settimane scorse sono riconducibili al tentativo di fornire gli Efp a milizie sciite come quella condotta da Moqtada al-Sadr. La presenza tra i catturati di un membro di rango del reparto al-Quds dei Pasdaran – una unità di fedelissimi del Leader Supremo Ali Khamenei a cui è solitamente assegnato il compito di addestrare i miliziani dell’Hezbollah libanese – ha quindi condotto all’accusa mossa da parte dell’amministrazione Bush di un coinvolgimento diretto dei massimi vertici del regime islamico - incluso Khamenei - nel rifornimento degli insorti iracheni. Gli stessi americani ammettono però che, come nel caso delle armi di distruzioni di massa attribuite al regime baathista di Saddam Hussein prima dell’invasione del 2003, non vi sia tuttora alcuna “pistola fumante” che possa stabilire la colpevolezza della dirigenza di Teheran. Sia il capo-negoziatore Ali Larijani – intervenuto domenica alla Conferenza per la sicurezza a Monaco di Baviera – sia lo stesso presidente Ahmadinejad, in una intervista alla Abc, hanno negato qualsiasi coinvolgimento del governo iraniano. Larijani - che è nato in Iraq e ha forti legami familiari con il clero sciita iracheno - in particolare ha spiegato la presenza delle armi iraniane con la permeabilità del confine tra i due paesi, che da decenni favorisce un sostenuto contrabbando di generi di ogni tipo. Dalla fine del con- flitto tra Iran e Iraq nel 1988, il lungo confi- ne comune tra i due paesi è inoltre pieno di residuati bellici di ambedue gli eserciti. Il forte interscambio economico e soprattutto il flusso ininterrotto di pellegrini iraniani diretti ai santuari di Najaf e Karbala rafforzano inoltre i traffici clandestini. Secondo alcune ipotesi il traffico è diretto da unità semi-autonome dei Pasdaran e delle fondazioni parastatali che gestiscono enormi volumi di affari all’interno e all’esterno dell’Iran. Uno studio recente di Ken Pollack, un esperto di questioni iracheno-iraniane presso la Brookings Institution, indica la possibilità di un intreccio affaristico tra elementi “deviati” di un ganglio dell’esteso ramo paramilitare del regime islamico e ambienti del contrabbando iracheno. Pollack non esclude inoltre che gli insorti abbiano acquisito gli Efp tramite il fiorente mercato nero iracheno. Gary Sick, professore presso la Columbia University nonché capo dell’Iran desk al Dipartimento di Stato durante la Rivoluzione del 1979, ritiene che gli attacchi subiti dall’esercito Usa all’interno di regioni a maggioranza sciita siano trascurabili e, al pari di Pollack, sostiene che gli sciiti non hanno l’esercito Usa come obiettivo. A prescindere dal reale livello del coinvolgimento degli apparati statali iraniani nelle violenze irachene, una intesa diplomatica tra Teheran e Washington avrebbe in primis l’effetto di calmare le acque nel paese mesopotamico. Un allentamento delle pressioni americane sul programma nucleare iraniano potrebbe venir corrisposto da un impegno iraniano a monitorare il proprio confine e ridurre l’operato dei servizi deviati, per poi passare a quel ruolo distensivo all’interno del paese vicino invocato recentemente da vari esponenti della dirigenza iraniana. Resta da vedere se l’ultima iniziativa diplomatica per sbrogliare la matassa atomica, lanciata in maniera assai discreta dalla Svizzera, potrà finalmente condurre i due acerrimi nemici a parlarsi direttamente dopo quasi tre decenni di astio.
Per il MANIFESTO, ovviamente l'Iran è innocente e le uniche trame sono quelle dei falchi di Washington. Ecco l'articolo di Franco Pantarelli:
«Non abbiamo paura di un attacco militare, saranno severamente puniti», ha detto Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano, rispondendo proprio su una tv americana all'accusa di fornire armi agli insurgent iracheni. E il suo ministro degli esteri, Ali Hosseini, ha soggiunto: «Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di prove fabbricate». È questo l'ultimo sviluppo di una vicenda che a Washington sta montando (o meglio che l'amministrazione Bush sta cercando di far crescere) i cui possibili sbocchi sono allarmanti. Di sicuro c'è un evidente sforzo dell'amministrazione Bush di «sbattere in prima pagina» l'Iran. Dopo gli accenni sempre più «mirati» delle ultime settimane, domenica è stata convocata una conferenza stampa a Baghdad in cui alcuni signori che non hanno voluto identificarsi (il che rendeva la cosa alquanto surreale, ma anche debitamente misteriosa) hanno ufficializzato la nascita di una nuova sigla per indicare gli ordigni che ammazzano: non più la generica Ied, che sta per improvised explosives devices, ma la più specifica Efp, explosively formed penetrators, cioè le bombe - cosiddette «a carica cava» - che quando esplodono non inviano le loro biglie tutto attorno per colpire il maggior numero di presenti, ma le concentrano tutte nella stessa direzione, il che consente loro di sfondare i blindati americani e di uccidere quelli che all'interno si sentivano al sicuro. Di fronte ai perplessi giornalisti emebedded, i signori senza nome mostravano esemplari di quegli ordigni, spiegavano (dimostrandolo) che erano di fabbricazione iraniana, affermavano (in questo caso senza dimostrarlo) che era stato direttamente il governo di Tehran a ordinare il loro trasferimento in territorio iracheno e fornivano anche il numero dei soldati americani che erano morti a causa di quegli ordigni, cioè «oltre 170 negli ultimi tre anni». Insomma la loro sembrava una preparazione in piena regole del casus belli. E data l'esperienza del fantomatico «pericolo imminente» che Saddam Hussein presentava, tutti hanno cominciato a chiedersi se la disperazione di George Bush per il suo fallimento in Iraq non lo stesse spingendo verso un allargamento del conflitto, come fece Richard Nixon quando decise di attaccare la Cambogia per chiudere il sentiero Ho Chi Minh. È stato questo a scatenare le tv ieri mattina (quella che è riuscita a intervistare Ahmadinejad è stata la Abc) e i giornalisti tutti nel quotidiano briefing con Tony Snow, il portavoce ufficiale della Casa bianca. Lui ha negato ogni intenzione del suo capo di «alzare il livello» della disputa con l'Iran, ma non ha spiegato perché, se i soldati americani sono stati uccisi dagli ordigni iraniani «negli ultimi tre anni», la denuncia di quegli ordigni arriva soltanto adesso, né perché si denunci l'Iran (il cui eventuale aiuto va ovviamente agli sciiti) e non l'Arabia saudita per il suo aiuto ai sunniti che di soldati americani ne hanno uccisi molti di più. I democratici, scornati per non essere ancora riusciti a varare l'ormai quasi ridicola risoluzione «non vincolante» contro la guerra in Iraq, hanno immediatamente fatto sapere a Bush di non pensarci neppure a «chiedere l'autorizzazione» di attaccare l'Iran. Ma il problema - fanno notare gli esperti, anche loro subito mobilitati - è che Bush sostenendo che gli iraniani stanno «partecipando» alla guerra in Iraq potrebbe non avere bisogno di nessuna autorizzazione. I più ottimisti, poi, si aggrappano all'ipotesi che Bush stia solo cercando di scaricare sugli iraniani il suo fallimento in Iraq, ma i pessimisti indicano due ragioni, anzi due nomi, per temere l'attacco. Il primo nome è Abram Shulsky, cioè l'uomo che su incarico di Donald Rumsfeld fabbricò le «prove» dei rapporti fra Saddam Hussein e Al Qaeda e adesso si sta occupando dell'Iran. Il secondo è il solito Dick Cheney, impegnato a quanto pare a coordinare il lavoro per «vendere» l'attacco all'Iran. «Sappiamo tutti - dice il columnist Paul Krugman - che un attacco all'Iran è una ricetta sicura per un maggiore disastro. Ma Cheney, come si sa, sostiene ancora che in Iraq si stanno ottenendo enormi successi».
Il CORRIERE della SERA pubblica un'intervista di Cecilia Zecchinelli a un analista iraniano "indipendente". La qualifica serve a dar più rilievo alle sue rassicurazioni: Ahmadinejad è politicamente finito, Khamenei è un saggio e accorto politico. E alle sue accuse: sono gli Stati Uniti che non vogliono trattare. Ma che cosa vuol dire indipendente? Vuol dire che può dire tutto ciò che vuole? Che potrebbe occupare il prestigioso posto che occupa se dicesse qualcosa di veramente sgradito al regime? Ci permettiamo di dubitarne. Ecco il testo:
TEHERAN — «Ahmadinejad è sempre più debole, il suo discorso così modesto di domenica non mi ha sorpreso e conferma che gli equilibri interni alla Repubblica islamica stanno cambiando. Anzi sono già cambiati: Khamenei sa bene che il momento è estremamente delicato, ha preso le redini del Paese con decisione». Saeed Leylaz, uno dei più rispettati analisti politici indipendenti in Iran, economista, riformatore, sempre molto esplicito, conosce bene le stanze del potere iraniano. E il presidente. «Ero capo di gabinetto quando il nuovo governo Khatami, nel 1997, decise di rimuovere Ahmadinejad da governatore della provincia di Ardabil per il suo estremismo e da allora lui mi odia. Poi sono stato direttore generale di aziende pubbliche quando era sindaco di Teheran, abbiamo lavorato insieme. Appena diventato presidente ha ordinato di licenziarmi. Ma io continuo a scrivere, a fare il consulente. L'Iran checché se ne dica non è una dittatura, non è l'Arabia saudita. Ahmadinejad non ha il potere che si pensa». Lei dice che è finito. Perché? «La sua politica economica si è rivelata catastrofica. Per mantenere il consenso ha versato fiumi di denaro pubblico nelle amministrazioni, alimentato la corruzione, creato finti posti di lavoro, concesso crediti a tassi bassissimi ai fedeli tanto che i crediti inesigibili sono aumentati del 50% in un anno. L'inflazione in gennaio era al 17,3%, la disoccupazione poco meno. Ma lui dice che inflazione e scienza dell'economia sono invenzioni occidentali in cui non crede, affermazione ancora più assurda di quelle sull'Olocausto, visto che gestisce lui la nostra economia. Sta portando il Paese alla catastrofe e la gente se n'è accorta. Alle ultime elezioni municipali i suoi uomini hanno preso il 4%, per questi motivi e perché erano meno truccate delle presidenziali». In gennaio 150 deputati hanno chiesto il suo impeachment se non cambierà politica economica. Succederà? «No, resterà fino al 2009 ma sotto controllo: ha già presentato un nuovo budget restrittivo, tagliato molte spese, anche se ciò causerà una crescita inferiore e lo scontento ulteriore della gente. E poi per deporre i presidenti ci vuole il consenso della Guida Suprema, che preferisce fare pressione perché cambino strada. È successo con Rafsanjani, ritenuto troppo liberale in economia, e con Khatami, troppo liberale in politica». Ma non è solo l'economia il problema di Ahmadinejad, no? «Infatti, l'élite e molti parlamentari ritengono che le sanzioni dell'Onu siano state causate dalle sue assurde dichiarazioni sull'Olocausto. Anche sul nucleare ha detto molte stupidaggini: Khamenei ha messo in chiaro che il progetto è troppo sensibile per lanciarsi in affermazioni avventate, gli ha detto in sostanza di tacere. Come ha fatto». Sul nucleare chi decide, la Guida Suprema? «Sì, come per la politica estera, le forze armate, Pasdaran compresi, il sistema giudiziario. E si sta comportando con intelligenza, attuando un equilibrio tra le varie forze politiche in modo che ognuna controlli le altre. Un metodo di governo tradizionale da secoli in Iran, che solo lo Scià Mohammad Reza Pahlavi negli ultimi anni, per megalomania, ha ignorato. Rafsanjani in politica ha così riottenuto potere, quello perso da Ahmadinejad. E anche sul nucleare Khamenei punta su più persone ora, su Larijani ma da pochissimo pure su Velajati, motivo per cui il primo sembrava non volesse andare a Monaco per il summit sulla sicurezza». Ma è vero che volete trattare? Molti pensano sia un bluff. «I segnali sono stati molti e chiari anche in passato, comprese le lettere di Ahmadinejad a Bush e altri leader. Ma sono gli Usa, e lo dico da indipendente, i responsabili di quanto sta accadendo. Ci vogliono umiliare, distruggere. Da 20 anni c'impongono sanzioni che ci escludono da un terzo dell'economia mondiale, dalla metà per tecnologia e finanza. Banche straniere e investimenti esteri sono scomparsi. Le nuove sanzioni hanno peggiorato le cose, le prossime, se ci saranno, daranno un ulteriore colpo. E siamo isolati politicamente: quasi tutti i nostri confini sono occupati dagli americani o dai loro alleati, solo quello con l'ex Urss è libero. Siamo accerchiati e c'è il pericolo di una guerra, anche se non penso prima del 2008». Ma in questa situazione di debolezza perché insistere sul nucleare? Perché le interferenze nella regione, dal Libano alla Palestina, all'Iraq? «L'Iran non ha scelta, sta cercando di guadagnare tempo e resistere all'accerchiamento. Così si spiegano le attività nella regione, anche se vengono molto esagerate: l'Iraq ad esempio è un boccone troppo grosso perfino per gli Stati Uniti, figuriamoci per l'Iran che ha considerato la caduta di Saddam come la migliore delle notizie e ha collaborato con gli Usa in quel Paese, così come in Afghanistan, prima di essere incluso nell'Asse del male. E Khamenei sa che il nucleare è il nostro unico scudo strategico, vuole trattare, ma non accettare il diktat di Bush, che ci ordina di rinunciare al nucleare e poi si vedrà. L'abbiamo fatto in passato, non è servito a niente. Non abbiamo scelta fino a quando si arriverà a un accordo come quello proposto ad esempio da El Baradei: fine nello stesso giorno del nostro programma e delle sanzioni, negoziati che durino al massimo due o tre mesi». Pensa sia possibile una soluzione? «Sì, c'è una via d'uscita. Per l'Iran l'imperativo è la sicurezza nazionale, non il nucleare. Per gli Stati Uniti, e questo vale anche per un futuro governo democratico, l'imperativo è evitare un Iran atomico, a cui presto si aggiungerebbero altri Paesi atomici, dall'Egitto all'Arabia saudita, creando un mondo molto complicato e inaccettabile tra l'altro da Israele. Ma se ci garantissero davvero la sicurezza nazionale si potrebbe arrivare a un accordo».
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