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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Libero - La Stampa Rassegna Stampa
06.02.2007 L'appello dei 130 contro Israele non va preso sul serio
ecco perché

Testata:Il Foglio - Libero - La Stampa
Autore: Giorgio Israel - Angelo Pezzana - Flavia Amabile
Titolo: «La lettera dei 130 - Quegli ebrei anti-Israele Quando l'antisemitismo è roba da psicanalista -»
Dal FOGLIO del 6 febbraio 2007, riportiamo un articolo di Giorgio Israel sull'appello contro Israele pubblicato dal Guardian (vedi la cronaca di Davide Frattini a questo link)

Ecco il testo:

Dunque, centotrenta “ebrei” inglesi hanno pubblicato sul “Guardian” un manifesto per commemorare i 40 anni di occupazione della Cisgiordania e di Gaza da parte di Israele. È una “dichiarazione d’indipendenza” che critica le posizioni ufficiali dell’ebraismo britannico solidali nei confronti di Israele e, in particolare quelle del rabbino capo Jonathan Sacks – che, peraltro, aveva anche espresso critiche per il “trattamento riservato ai palestinesi”. I nostri vogliono portare alla ribalta un’opinione presente nel mondo ebraico e non rappresentata dalle sue istituzioni: «l’appoggio a una potenza occupante è contrario ai principi ebraici di giustizia e compassione».
Se non fosse anche una faccenda seria, ci sarebbe da morire dalle risate. Immaginate che Piergiorgio Odifreddi, in quanto battezzato, criticasse il Papa in nome dei veri  principi cristiani di carità e di perdono di cui lui è vero esponente, a differenza del Papa…
Francamente non sapevo che Eric Hobsbawm fosse ebreo. Di certo non ha mai fatto nulla per farlo sapere. Farà il giro del mondo la notizia che egli è un esperto di etica ebraica, oltre ad avere un lungo e onorato passato di mediocre storico portato sugli altari per il suo lungo e onorato passato di trombone stalinista. Ricordiamo quando esaltava le virtù del compagno Stalin e affermava che la storiografia si fa su basi di “simpatia”; per il comunismo, ovviamente. Ma non ricordiamo le sue battaglie per difendere il diritto del “suo popolo” a non essere perseguitato e detenuto a forza in Unione Sovietica. Non ricordiamo neppure che abbia mai detto una parola in difesa delle minoranze oppresse nell’ultimo mezzo secolo: per esempio, dei “suoi correligionari” privati di ogni diritto, perseguitati e scacciati da tanti paesi arabi. Ricordiamo invece la sua “lezione” in occasione del conferimento della laurea honoris causa all’Università di Torino nel 2000, in cui diede credito alle tesi del negazionista David Irving, lamentando che l’unica critica della carenza di standard storiografici professionali venisse da un ammiratore di Hitler. Difatti, secondo Hobsbawm era ora di demolire la rappresentazione hollywoodiana della Shoah in modo da impedire che diventi un «mito legittimante dello stato d’Israele».
Poiché di un altro Hobsbawm non v’è traccia, è evidente la credibilità dell’appello di un signore che ha dimestichezza con l’ebraismo quanto chi scrive con la danza classica (e di certo nutre per esso molto minore simpatia) e il cui unico interesse è demolire la legittimità di Israele, anche a costo di prendersela col “mito” della Shoah e trafficare col negazionismo.
Ma – si dirà – non c’è soltanto Hobsbawm. Certo. Se continuiamo nell’elenco verrà da credere che sia in atto un’ondata di riscoperta dell’ebraismo che ne infoltirà le fila. C’è il regista Mike Leigh, il cui profondo legame con l’ebraismo è riconducibile al primitivo cognome dei suoi genitori, Lieberman. C’è poi il noto letterato Harold Pinter: confessiamo di ignorarne i profondi studi talmudici. Non abbiamo però dimenticato il grottesco appello dell’estate scorsa – firmato da Pinter con altri noti ebrei e giudaizzanti come John Berger, Noam Chomsky, Gore Vidal e José Saramago (quello che definì Jenin la nuova Auschwitz) –  in cui si spiegava il conflitto tra Israele e Palestina come dovuto al rapimento da parte degli israeliani di un “quidam”, un innominato medico di Gaza di cui non ci è stata data la grazia di conoscere alcunché, e si dipingeva il patetico quadro dell’incrociarsi in cielo dei poveri “razzi artigianali” con terribili “missili sofisticati”.
La figura dell’“ebreo di corte” nelle sue infinite varianti – inclusa quella dell’ebreo che si riscopre tale per poter meglio dare una mano agli antisemiti – è vecchia quanto la storia dell’Occidente. Negli anni 1930, un gruppo di ebrei fascisti torinesi, raccolti attorno al giornale “La nostra bandiera” riuscì quasi a spaccare l’ebraismo italiano per il servile atto di attaccare il sionismo nel pieno delle campagne antisemite dei vari Farinacci e Preziosi. La storia si ripete su altri versanti e questo non sorprende più di tanto. A condizione che figure come queste non vengano prese sul serio e vengano ricollocate nel loro “luogo naturale”, in senso aristotelico. Se invece si da loro credito per imbastire argomentazioni contro la legittimità di Israele o per creare spaccature artificiose e strumentali nell’ebraismo, allora la faccenda si fa seria. Perché vi è una evidente tentazione – illustrata da Emanuele Ottolenghi nel suo recente libro – di delegittimare gli ebrei che difendono il diritto di Israele all’esistenza e rigettano le critiche “a Israele” in quanto tale, anziché ai suoi governi, catalogandoli come “ebrei cattivi”, in contrapposizione a quelli “buoni”, magari inventati di sana pianta come i nostri centotrenta inglesi. È una tentazione da cui non ha saputo trattenersi neppure il nostro ministro degli esteri, speriamo per l’ultima volta.

Da LIBERO, il commento alla vicenda di Angelo Pezzana
  

Ieri, giornali e agenzie di stampa, davano per certa la mano del Mossad nella morte dello scienziato iraniano che lavorava alla realizzazione della bomba atomica per conto di Ahmadinejad. Sembra che sia morto per avvelenamento, scriviamo sembra, perché notizie sicure non ce ne sono. Malgrado ciò,  le titolazioni riportavano tutte la parola magica "Mossad”, il colpevole per eccellenza. Se fosse vero saremmo i primi a rallegrarcene, un colpo messo a segno dopo alcuni tentativi andati a vuoto,  perchè prevenire è sempre meglio che intervenire in ritardo. Ma la notizia sorprendente è un’altra, coinvolge sempre Israele, ma è meno lieta, in quanto riguarda quel lato oscuro che è dentro noi, poveri esseri umani, e ogni tanto deve manifestarsi. Sul sito internet del Guardian, quotidiano inglese noto per essere alla testa di tutte le prese di posizione antiamericane, antisraeliane e antioccidentali in genere, ben 130 ebrei inglesi (non molti, se pensiamo che il loro numero è di circa quattrocentomila) hanno pensato bene di comunicare al prossimo che la loro intenzione non è quella di festeggiare i (quasi) sessant’anni dello Stato di Israele, ma bensì di ricordare i “ 40 anni di occupazione di Gaza e della Cisgiordania”. Preoccupati come sono nel vedere la pagliuzza nell’occhio di Israele, non hanno fatto caso alla trave che giganteggia nel loro, avendo messo anche Gaza fra i territori occupati, dimentichi che Israele l’ha consegnato ai palestinesi nell’agosto del 2005, con scarsi risultati a giudicare dal comportamento di Hamas, ma questo non gli può essere attribuito. Hanno fatto notizia per via di alcuni nomi noti al grosso pubblico, il drammaturgo Harlod Pinter, premio Nobel per la letteratura, Stephen Fry, attore e regista di chiara fama, Eric Hobsbawm, storico marxista, famoso quest’ultimo soprattutto per essere l’autore del “ Secolo breve” un libro nel quale racconta tutto il ‘900. Ma alla Shoah , quindi alla distruzione dei sei milioni di ebrei, dedica solo tre righe tre. Chi ha poca dimestichezza con la teoria psicoanalitica dell’auto-odio, non potrà fare a meno di  chiedersi come sia possibile, mentre Israele è sotto minaccia di distruzione da parte del nuovo Hitler di Teheran, un numero, anche se esiguo ma pur sempre significativo, possa scatenarsi contro lo Stato ebraico. Intanto diciamo che non è una novità, un bel gruppetto, anche se non proprio odiatori di Israele, ci fu in Palestina mentre all’Onu stava per essere votata la spartizione alla fine del 1947. Yehuda Magnes, illustre fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme nel 1925, fu tra quelli che premette con più forza sul Presidente americano Truman perché gli Usa non votassero a favore.  Era, con altri, per lo Stato binazionale, preso com’era dal sacro fuoco pacifista ed egalitarista, il che vuol dire in termini politici essere ciechi e masochisti. Fortuna volle che Truman si dimostrasse poi quel gran presidente che è stato con il voto affermativo per la divisione in due stati, permettendo così la nascita di Israele. Se quello arabo non è nato anche lui in contemporanea a quello ebraico, è stato uno dei grandi errori che i palestinesi pagano ancora oggi.

Di ebrei così ce ne sono un po’ dappertutto, non ne mancano mai negli appelli universitari, nei convegni dove si condanna Israele per il solo fatto di esistere,  e vengono esibiti come dei trofei per dire, “ vedete, anche degli ebrei concordano con le nostre tesi”. Il gioco a volte riesce. Perché lo fanno ? La comune militanza politica non è sufficiente a giustificarli. Stanno male nella propria pelle, vivono una perenne crisi di identità, sono gli ebrei-non ebrei, che vorrebbero essere altro ma non ce l’hanno fatta a diventarlo. Screditare Israele li fa star meglio in mezzo agli antisemiti mascherati da antisionisti. Poveretti.

Dalla STAMPA, un'intervista di Flavia Amabile a Riccardo Pacifici, vicepresidente e portavoce della Comunità ebraica di Roma:

Anche in Italia arriva l’eco della polemica suscitata dalla lettera aperta pubblicato sul Guardian. Abbiamo sentito Riccardo Pacifici, vicepresidente e portavoce della Comunità ebraica di Roma. «Nulla di nuovo, - dice - mi sembra. E’ la classica sindrome che colpisce molti ebrei della diaspora che, nonostante Berlino, continuano ad avere il problema di non considerarsi bene accetti».
Sotto accusa c’è l’etichetta di antisemita rivolta a chiunque critichi il governo israeliano...
«Sotto accusa c’è, a quanto ho capito, il rabbino capo Jonathan Sacks che a una manifestazione aveva affermato: “Israele, siamo orgogliosi di te”. Al rabbino Sacks va tutta la nostra solidarietà e la cosa che mi sembra più incredibile è che a essere oggetto di critiche sia proprio uno come lui, un moderato, un fautore dell’apertura nel dibattito. Ma è anche vero che a firmar l’appello sono i soliti nomi, un’assoluta minoranza rispetto al totale della comunità in Gran Bretagna».
Un’accusa da intellettuali?
«Il tipico atteggiamento radical-chic di una certa minoranza di intellettuali che può esistere anche in Italia ed è rispettabilissima ma che non va confusa con le rappresentanze istituzionali che infatti non hanno avvertito la necessità di assumere questa posizione».
Orgogliosi di Israele, allora, anche voi?
«Usiamo la stessa frase del rabbino Sacks, siamo felici che esista lo Stato di Israele, siamo certi che per ogni ebreo che viva fuori rappresenti un sentimento, un fatto emotivo al di là delle posizioni di ognuno di noi. Ne siamo orgogliosi tanto più in un momento così delicato in cui è uno Stato assediato da più minacce, che arrivano dall’esterno e dall’interno».
Orgogliosi su tutta la linea oppure capita anche a voi di criticare Israele?
«Questo appello riapre una classica ferita all’interno del mondo ebraico tra chi pensa di far emergere i cosiddetti ebrei buoni e democratici e quelli che invece sono appiattiti e tollerano tutto per la sopravvivenza dello Stato ebraico. È chiaro che il diritto di critica a un governo è legittimo, e un conto è il nostro sostegno alla democrazia israeliana un conto criticare al nostro interno questo o quel governo perché ci si sente più vicini al Likud o a Kadima. Siamo convinti che bisognerebbe vivere in Israele per avere diritto di critica».

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