Dal CORRIERE della SERA del 5 febbraio 2007:
Un tempo gli irregolari e gli eretici conoscevano un luogo ospitale e tollerante che si chiamava Europa. Invece oggi chi coltiva pensieri fastidiosi e anticonformisti dall'Europa scappa per raggiungere rifugi più sicuri. Sarà una coincidenza, però è significativo che lo scrittore Orhan Pamuk si dice abbia intenzione di chiedere asilo all'America per fuggire da quella stessa Turchia che oggi reclama il suo ingresso in Europa. Del resto, perché la Turchia dovrebbe adeguarsi a un modello di tolleranza ormai smarrito? Quali rigidi standard in tema di libertà intellettuale può ormai vantare un'Europa che reagisce con il silenzio e con l'indifferenza se alcuni cittadini europei vengono ridotti al silenzio, braccati, costretti ad emigrare in un altro continente per far perdere le proprie tracce?
Indifferenza e silenzio che sono ancora un privilegio, visto che il destino ha regalato addirittura il sovrappiù del dileggio per i nuovi perseguitati. Proprio sul Corriere Stefano Montefiori ha raccontato il duello a distanza che sta impegnando ormai da tempo intellettuali del calibro di Mario Vargas Uosa, Ian Buruma, Timothy Garton Ash e Pascal Bruckner. Oggetto del contendere è la sorte amara di Ayaan Hirsi Ali, la sceneggiatrice di Submission di Theo Van Gogh. Nell'Olanda libera e tollerante la Hirsi Ali è stata minacciata della stessa fine capitata al suo regista, assassinato da un commando jihadista secondo le regole di un omicidio rituale e il cui nome è stato eliminato da tutti i festival cinematografici (europei). È stata invitata ad andarsene dai vicini di casa impauriti. La sua battaglia contro il fanatismo islamista è stata accolta con fastidio. E alla fine, per respirare un po' di libertà, ha deciso di andarsene in America, come Luigi Sturzo e Gaetano Salvemini costretti a lasciare l'Italia fascista. E qual è il pensiero dominante di Timothy Garton Ash di fronte a una vicenda di cui tutti noi europei dovremmo vergognarci? Per attaccare il «fondamentalismo dell'Illuminismo» Garton Ash solleva un dubbio decisivo per giudicare la Hirsi Ali: «Alta, attraente, esotica, per i giornalisti è irresistibile. Non le manchiamo di rispetto se notiamo che, fosse stata bassa, brutta e strabica, le sue vicende e i suoi punti di vista avrebbero ricevuto minore attenzione».
Davvero? «Minore attenzione» di quella pressoché nulla che le si riserva, malgrado l'avvenenza della sua esotica figura (la foto in copertina sull’Observer di ieri non cambia la situazione)? Nulla come quella dedicata al professor Robert Redeker: forse se l'Europa assiste con imperturbabilità al caso di un signore costretto a nascondersi in Francia per aver scritto ciò che pensava è perché il protagonista non è uomo dotato di irresistibile fascino. O forse, molto più realisticamente, perché ci stiamo abituando a considerare normale che una fatwa possa essere lanciata «nel Paese di Voltaire», come recita il titolo di un nuovo libro in cui Redeker racconta la sua terribile storia, senza che qualcuno si indigni. Per aver scritto un articolo sul Figaro in cui paragonava l'islamismo a «una ideologia totalitaria», Redeker è stato pubblicamente minacciato di morte, ha perso il suo posto di lavoro, ha dovuto cambiare casa, nascondersi, perdersi nella morte civile. Nessuno parla più del suo caso, l'intimidazione ha sortito esattamente l'effetto voluto. Scapperà anche lui in America, Redeker? Troverà un nascondiglio assieme alla Hirsi Ali e a Pamuk? Penserà all'Europa come alla terra più feroce e inospitale, la versione sfigurata e deforme dell'Europa tollerante di un tempo? E agli intellettuali europei che cercheranno di troncare, sopire, e schernire i nuovi perseguitati?
Dalla REPUBBLICA, un articolo di Timothy Garton Ash che in modo piuttosto discutibile e in contrasto con la realtà della persecuzione dei dissidenti dell'islam equipara come "opposti cliché" la critica al multiculturalismo e quella alla supposta "islamofobia" di parte dell'Occidente.
In Gran Bretagna il multiculturalismo è sotto attacco. Il Daily Mail, influente quotidiano conservatore pubblica in prima pagina un articolo secondo cui la dottrina del multiculturalismo ha alienato un'intera generazione di giovani musulmani. Il leader del partito conservatore, David Cameron definisce in un intervento il multiculturalismo uno dei cinque «muri di Berlino» che dobbiamo far crollare, assieme all'estremismo, alla povertà, all'immigrazione incontrollata e all'apartheid nell'istruzione. A giudizio di Cameron, con questo spaventoso «ismo» il sindaco di sinistra di Londra, Ken Livingstone, ha gettato la capitale britannica nel caos. Un centro studi conservatore, Policy Exchange, e un gruppo di lavoro del partito conservatore affermano nei loro rapporti che il multiculturalismo è parte del problema che pretende di risolvere.
In parole povere il multiculturalismo è un male della sinistra che la destra si impegna a combattere. Ma a parte essere un male, che cos'è? In un intervento dell'autunno scorso Cameron ha dato questa risposta: «Facciamo totale chiarezza su cosa intendo quando parlo di multiculturalismo. Non mi riferisco alla realtà della nostra società eterogenea sotto il profilo etnico, una diversità che noi tutti onoriamo e che trova contrari solo reazionari rabbiosi come il Bnp, British National Party, partito di estrema destra. Intendo la dottrina che mira a balcanizzare individui e comunità in base alla razza e al background». Bene, evviva la chiarezza. I multiculturalisti sono persone devote a una dottrina che li porta a voler balcanizzare la Gran Bretagna, il che presumibilmente significa dividere il Paese in comunità su base etnica, in violenta ostilità l'una con l'altra.
Ken Livingstone è lo Slobodan Milosevic della Grande Londra. I lettori riconosceranno immediatamente nella«chiarissima» definizione di Cameron il caro vecchio amico dei politici, l'uomo di paglia. Crea un fantoccio per poterlo distruggere.
Ogni volta che sento la parola multiculturalismo prendo il dizionario. Se non mi è d'aiuto, ricorro alla mia biblioteca e al web, e la gran confusione di definizioni imprecise che trovo mi porta a concludere che si tratta di un termine ormai in pratica obsoleto. I critici del multiculturalismo sostengono che dobbiamo condividere un più forte senso comune di britannicità. Concordo. Inoltre costruire accese polemiche attorno a «ismi» astratti di incerto significato è un esercizio profondamente non britannico. Niente giri di parole. Diciamo pane al pane e vino al vino, o, come vuole l'espressione idiomatica inglese, vanga alla vanga, invece di considerare quell'attrezzo una manifestazione della pericolosa ideologia del giardinaggismo.
Dietro termini disperatamente vaghi come multiculturalismo (condannato dalla destra) e islamofobia (condannata dalla sinistra) c'è una realtà molto preoccupante, che questi ultimi rapporti conservatori al pari di altri provenienti dai think tank di sinistra, hanno l'utile compito di sondare. È una realtà di alienazione ampiamente diffusa tra i musulmani britannici più giovani. Un sondaggio Nop (National Opinion Poll) dello scorso anno rivela che meno della metà dei musulmani britannici intervistati identificava la Gran Bretagna come «il mio Paese». Da un sondaggio internazionale Pew risulta che i musulmani britannici più giovani in stragrande maggioranza antepongono la propria identità religiosa a quella nazionale, a differenza dei musulmani francesi. Un sondaggio Populus commissionato per il rapporto Policy Exchange, indagine accurata e stimolante, mostra che la maggioranza dei musulmani britannici sostiene di avere più cose in comune con i musulmani di altri Paesi che con i non musulmani in Gran Bretagna.
Lascia esterrefatti che più di un intervistato su tre, nel gruppo di età compresa tra i 16 e i 24 anni, concordi con una formulazione della legge della Sharia che afferma «che la conversione dei musulmani è vietata e punibile con la morte». L'alienazione dei giovani musulmani rispetto al Paese in cui vivono è stata espressa in forma estrema dagli attentatori suicidi degli attacchi del 7 luglio 2005 a Londra, e dagli arrestati accusati di progettare un altro attentato In estate. Forse scopriremo elementi biografici analoghi in alcuni dei sospetti terroristi arrestati il 31 gennaio a Birmingham. Attorno al piccolo nucleo di estremisti attivi esiste quello che Shamit Saggar, nell'ultimo numero della rispettata rivista Political Quarterly, ha definito «un cerchio di tacito sostegno» che include decine di migliaia di giovani musulmani britannici. La loro alienazione è esacerbata dalla stereotipizzazione negativa dei musulmani sui media e dalle quotidiane esperienze di pregiudizio.
Il multiculturalismo contestato dalla destra è rozza banalizzazione di una preoccupante realtà di separazione. Sono le «vite parallele» identificate già nel 2001 dal rapporto di una commissione presieduta da un amministratore locale, Ted Cantle, che citò la frase famosa di un musulmano britannico di origine pakistana: «Al termine di questo incontro con lei, me ne andrò a casa e non vedrò una faccia bianca finché non tornerò qui la settimana prossima». Significa, In termini meno eufemistici, ghetto. Questa separazione che è culturale e psicologica quanto fisica, non è stata creata in origine dalla politica del multiculturalismo ma da ciò che è andato sotto il nome di multiculturalismo in alcune città britanniche negli anni '80 e '90 e ha rafforzato la separazione. Qualcosa di analogo è accaduto in Olanda. Questo multiculturalismo ha privilegiato le Identità di gruppo, definite in base alle origini o alla religione, rispetto all'identità britannica e all'identità individuale. Non ha portato ai figli degli immigrati musulmani un più forte senso comune di britannicità. E talvolta ha consentito che le donne continuassero a essere oppresse sotto il velo del rispetto culturale.
Se la Francia si è spinta troppo verso l'integrazione monoculturale, noi in Gran Bretagna abbiamo ecceduto nell'altra direzione. David Cameron e Gordon Brown sono entrambi del parere che bisogna correggere la rotta. Quanto meno la lingua inglese, la storia britannica e i valori fondamentali di cittadinanza vanno trasmessi con più efficacia. Ma su alcune questioni spinose i due glissano. Prendiamo per esempio il contributo che le scuole di ispirazione religiosa, siano esse cristiane, ebree o musulmane, hanno dato alla separazione culturale. Il rapporto Cantle raccomandava di riservare almeno il 25 per cento dei posti nelle scuole di ispirazione religiosa, sia private che pubbliche, a ragazzi provenienti da contesti alternativi. Come mai, mi domando, né Cameron né Brown chiedono che si dia seguito a quella raccomandazione? È facile immaginare come reagirebbero i loro elettori della classe media alla prospettiva di veder arrivare in scuolabus bambini musulmani alla London Oratory school, una delle scuola cristiane statali di spicco, frequentata a suo tempo dai figli di Tony Blair.
L'islamofobia contestata dalla sinistra è rozza banalizzazione di una preoccupante realtà di pregiudizio e stereotipizzazione, che la destra ignora a suo rischio e pericolo. Esistono prove schiaccianti, riconosciute dai servizi di intelligence nonché dalla maggior parte degli analisti indipendenti, che la guerra in Iraq e la mancata soluzione del conflitto israelo-palestinese hanno contribuito alla radicalizzazione della gioventù britannica musulmana.
Esistono poi elementi che combaciano a fatica coni cliché sia della destra che della sinistra. Il rapporto Policy Exchange, per esempio, evidenzia come i giovani musulmani britannici reagiscono alla cultura edonistica fatta di promiscuità sessuale, grandi bevute e scarsi valori che vedono diffusa tra i loro coetanei. «Ho deciso di indossare l’hijab perché non mi piace l'immagine di oggetto sessuale che si da della donna» (ragazza musulmana, 21 anni, Oxford). «La cosa brutta, e non saprei come si può risolvere, è che loro [i britannici] in realtà non sanno quali sono i loro valori. Sembra quasi che se li inventino nel momento in cui vengono attaccati» (ragazza musulmana, 22 anni, Leeds). Sono voci che meritano ascolto.
Se i leader della destra si limitano a sbraitare «no al multiculturalismo!», tra i lettori del Daily Mail qualcuno lo interpreterà nel senso che «o questa gente si adatta ai nostri costumi o se ne torna da dove è venuta». Se i leader della sinistra si limitano a rispondere inveendo contro l'islamofobia e la guerra in Iraq, i musulmani e le amministrazioni comunali non saranno costretti a porsi, come dovrebbero, difficili interrogativi su certi rappresentanti e su certe politiche della loro comunità. E sia i conservatori che i laburisti saranno tentati di alimentare questi equivoci nella corsa alle elezioni politiche, per timore che quei voti vadano altrove. Ma è un problema troppo serio per ridurlo a una battaglia tra uomini di paglia. In ballo c'è nientepopodimeno che il futuro della Gran Bretagna come paese libero e tollerante.
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