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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
05.02.2007 I nuovi perseguitati: i dissidenti dell'islam
la denuncia di Pierluigi Battista e le dubbie equivalenze di Timothy Garton Ash

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Pierluigi Battista - Timothy Garton Ash
Titolo: «Se l'Europa abbandona Hirsi Ali e Pamuk, i suoi figli «irregolari» - Gli opposti cliché sull'Islam di casa nostra»
 Dal CORRIERE della SERA del 5 febbraio 2007:

Un tempo gli irregolari e gli eretici conoscevano un luogo ospitale e tollerante che si chiamava Europa. Invece oggi chi coltiva pensieri fastidiosi e anticon­formisti dall'Europa scappa per raggiungere rifugi più si­curi. Sarà una coincidenza, però è significativo che lo scrit­tore Orhan Pamuk si dice abbia intenzione di chiedere asilo all'America per fuggire da quella stessa Turchia che oggi reclama il suo ingresso in Europa. Del resto, perché la Turchia dovrebbe adeguarsi a un modello di tolleranza ormai smarrito? Quali rigidi standard in tema di libertà intellettuale può ormai vantare un'Europa che reagisce con il silenzio e con l'indifferenza se alcuni cittadini euro­pei vengono ridotti al silenzio, braccati, costretti ad emi­grare in un altro continente per far perdere le proprie trac­ce?

Indifferenza e silenzio che sono ancora un privilegio, visto che il destino ha regalato addirittura il sovrappiù del dileggio per i nuovi perseguitati. Proprio sul Corriere Ste­fano Montefiori ha raccontato il duello a distanza che sta impegnando ormai da tempo intellettuali del calibro di Mario Vargas Uosa, Ian Buruma, Timothy Garton Ash e Pascal Bruckner. Oggetto del contendere è la sorte amara di Ayaan Hirsi Ali, la sceneggiatrice di Submission di Theo Van Gogh. Nell'Olanda libera e tollerante la Hirsi Ali è stata minacciata della stessa fine capitata al suo regi­sta, assassinato da un commando jihadista secondo le regole di un omi­cidio rituale e il cui nome è stato elimi­nato da tutti i festival cinematografi­ci (europei). È stata invitata ad andar­sene dai vicini di casa impauriti. La sua battaglia contro il fanatismo isla­mista è stata accolta con fastidio. E alla fine, per respirare un po' di liber­tà, ha deciso di andarsene in America, come Luigi Sturzo e Gaetano Salvemini costretti a lasciare l'Italia fa­scista. E qual è il pensiero dominante di Timothy Garton Ash di fronte a una vicenda di cui tutti noi europei dovremmo vergognarci? Per attaccare il «fondamentalismo dell'Illuminismo» Garton Ash solleva un dubbio decisivo per giudicare la Hirsi Ali: «Alta, attraente, esotica, per i giornalisti è irresistibile. Non le manchiamo di rispetto se notiamo che, fosse stata bassa, brutta e strabica, le sue vicende e i suoi punti di vista avrebbero ricevuto minore attenzione».

Davvero? «Minore attenzione» di quella pressoché nul­la che le si riserva, malgrado l'avvenenza della sua esotica figura (la foto in copertina sull’Observer di ieri non cam­bia la situazione)? Nulla come quella dedicata al professor Robert Redeker: forse se l'Europa assiste con imperturbabilità al caso di un signore costretto a nascondersi in Francia per aver scritto ciò che pensava è perché il prota­gonista non è uomo dotato di irresistibile fascino. O forse, molto più realisticamente, perché ci stiamo abituando a considerare normale che una fatwa possa essere lanciata «nel Paese di Voltaire», come recita il titolo di un nuovo libro in cui Redeker racconta la sua terribile storia, senza che qualcuno si indigni. Per aver scritto un articolo sul Figaro in cui paragonava l'islamismo a «una ideologia to­talitaria», Redeker è stato pubblicamente minacciato di morte, ha perso il suo posto di lavoro, ha dovuto cambia­re casa, nascondersi, perdersi nella morte civile. Nessuno parla più del suo caso, l'intimidazione ha sortito esattamente l'effetto voluto. Scapperà anche lui in America, Re­deker? Troverà un nascondiglio assieme alla Hirsi Ali e a Pamuk? Penserà all'Europa come alla terra più feroce e inospitale, la versione sfigurata e deforme dell'Europa tol­lerante di un tempo? E agli intellettuali europei che cerche­ranno di troncare, sopire, e schernire i nuovi perseguitati? 

Dalla REPUBBLICA, un articolo di Timothy Garton Ash che in modo piuttosto discutibile e in contrasto con la realtà della persecuzione dei dissidenti dell'islam equipara come "opposti cliché" la critica al multiculturalismo e quella alla supposta "islamofobia" di parte dell'Occidente.

In Gran Bretagna il multiculturalismo è sotto attacco. Il Daily Mail, influente quoti­diano conservatore pubblica in prima pagina un articolo secon­do cui la dottrina del multiculturalismo ha alienato un'intera ge­nerazione di giovani musulmani. Il leader del partito conservatore, David Cameron definisce in un intervento il multiculturalismo uno dei cinque «muri di Berlino» che dobbiamo far crollare, assie­me all'estremismo, alla povertà, all'immigrazione incontrollata e all'apartheid nell'istruzione. A giudizio di Cameron, con questo spaventoso «ismo» il sindaco di sinistra di Londra, Ken Livingstone, ha gettato la capitale britan­nica nel caos. Un centro studi conservatore, Policy Exchange, e un gruppo di lavoro del partito conservatore affermano nei loro rapporti che il multiculturalismo è parte del problema che preten­de di risolvere.

In parole povere il multicultu­ralismo è un male della sinistra che la destra si impegna a combattere. Ma a parte essere un ma­le, che cos'è? In un intervento dell'autunno scorso Cameron ha dato questa risposta: «Facciamo totale chiarezza su cosa intendo quando parlo di multiculturali­smo. Non mi riferisco alla realtà della nostra società eterogenea sotto il profilo etnico, una diver­sità che noi tutti onoriamo e che trova contrari solo reazionari rabbiosi come il Bnp, British National Party, partito di estrema destra. Intendo la dottrina che mira a balcanizzare individui e comunità in base alla razza e al background». Bene, evviva la chiarezza. I multiculturalisti sono persone devote a una dottrina che li porta a voler balcanizzare la Gran Bretagna, il che presumibil­mente significa dividere il Paese in comunità su base etnica, in violenta ostilità l'una con l'altra.

Ken Livingstone è lo Slobodan Milosevic della Grande Londra. I let­tori riconosceranno immediata­mente nella«chiarissima» definizione di Cameron il caro vecchio amico dei poli­tici, l'uomo di paglia. Crea un fantoccio per poterlo distruggere.

Ogni volta che sento la parola multi­culturalismo prendo il dizionario. Se non mi è d'aiuto, ricorro alla mia biblio­teca e al web, e la gran confusione di de­finizioni imprecise che trovo mi porta a concludere che si tratta di un termine ormai in pratica obsoleto. I critici del multiculturalismo sostengono che dob­biamo condividere un più forte senso comune di britannicità. Concordo. Inol­tre costruire accese polemiche attorno a «ismi» astratti di incerto significato è un esercizio profondamente non britanni­co. Niente giri di parole. Diciamo pane al pane e vino al vino, o, come vuole l'e­spressione idiomatica inglese, vanga al­la vanga, invece di considerare quell'at­trezzo una manifestazione della perico­losa ideologia del giardinaggismo.

Dietro termini disperatamente vaghi come multiculturalismo (condannato dalla destra) e islamofobia (condannata dalla sinistra) c'è una realtà molto preoccupante, che questi ultimi rappor­ti conservatori al pari di altri provenien­ti dai think tank di sinistra, hanno l'utile compito di sondare. È una realtà di alie­nazione ampiamente diffusa tra i mu­sulmani britannici più giovani. Un son­daggio Nop (National Opinion Poll) del­lo scorso anno rivela che meno della metà dei musulmani britannici intervi­stati identificava la Gran Bretagna come «il mio Paese». Da un sondaggio interna­zionale Pew risulta che i musulmani bri­tannici più giovani in stragrande mag­gioranza antepongono la propria iden­tità religiosa a quella nazionale, a differenza dei musulmani francesi. Un son­daggio Populus commissionato per il rapporto Policy Exchange, indagine ac­curata e stimolante, mostra che la mag­gioranza dei musulmani britannici so­stiene di avere più cose in comune con i musulmani di altri Paesi che con i non musulmani in Gran Bretagna.

Lascia esterrefatti che più di un inter­vistato su tre, nel gruppo di età compre­sa tra i 16 e i 24 anni, concordi con una formulazione della legge della Sharia che afferma «che la conversione dei mu­sulmani è vietata e punibile con la mor­te». L'alienazione dei giovani musulma­ni rispetto al Paese in cui vivono è stata espressa in forma estrema dagli attenta­tori suicidi degli attacchi del 7 luglio 2005 a Londra, e dagli arrestati accusati di progettare un altro attentato In estate. Forse scopriremo elementi biografici analoghi in alcuni dei sospetti terroristi arrestati il 31 gennaio a Birmingham. At­torno al piccolo nucleo di estremisti atti­vi esiste quello che Shamit Saggar, nel­l'ultimo numero della rispettata rivista Political Quarterly, ha definito «un cer­chio di tacito sostegno» che include de­cine di migliaia di giovani musulmani britannici. La loro alienazione è esacer­bata dalla stereotipizzazione negativa dei musulmani sui media e dalle quoti­diane esperienze di pregiudizio.

Il multiculturalismo contestato dalla destra è rozza banalizzazione di una preoccupante realtà di separazione. So­no le «vite parallele» identificate già nel 2001 dal rapporto di una commissione presieduta da un amministratore locale, Ted Cantle, che citò la frase famosa di un musulmano britannico di origine paki­stana: «Al termine di questo incontro con lei, me ne andrò a casa e non vedrò una faccia bianca finché non tornerò qui la settimana prossima». Significa, In ter­mini meno eufemistici, ghetto. Questa separazione che è culturale e psicologi­ca quanto fisica, non è stata creata in ori­gine dalla politica del multiculturalismo ma da ciò che è andato sotto il nome di multiculturalismo in alcune città britanniche negli anni '80 e '90 e ha rafforzato la separazione. Qualcosa di analogo è accaduto in Olanda. Questo multicultu­ralismo ha privilegiato le Identità di gruppo, definite in base alle origini o al­la religione, rispetto all'identità britan­nica e all'identità individuale. Non ha portato ai figli degli immigrati musulmani un più forte senso comune di bri­tannicità. E talvolta ha consentito che le donne continuassero a essere oppresse sotto il velo del rispetto culturale.

Se la Francia si è spinta troppo verso l'integrazione monoculturale, noi in Gran Bretagna abbiamo ecceduto nel­l'altra direzione. David Cameron e Gordon Brown sono entrambi del parere che bisogna correggere la rotta. Quanto me­no la lingua inglese, la storia britannica e i valori fondamentali di cittadinanza vanno trasmessi con più efficacia. Ma su alcune questioni spinose i due glissano. Prendiamo per esempio il contributo che le scuole di ispirazione religiosa, sia­no esse cristiane, ebree o musulmane, hanno dato alla separazione culturale. Il rapporto Cantle raccomandava di riser­vare almeno il 25 per cento dei posti nel­le scuole di ispirazione religiosa, sia pri­vate che pubbliche, a ragazzi provenien­ti da contesti alternativi. Come mai, mi domando, né Cameron né Brown chie­dono che si dia seguito a quella raccomandazione? È facile immaginare come reagirebbero i loro elettori della classe media alla prospettiva di veder arrivare in scuolabus bambini musulmani alla London Oratory school, una delle scuo­la cristiane statali di spicco, frequentata a suo tempo dai figli di Tony Blair.

L'islamofobia contestata dalla sinistra è rozza banalizzazione di una preoccu­pante realtà di pregiudizio e stereotipizzazione, che la destra ignora a suo ri­schio e pericolo. Esistono prove schiac­cianti, riconosciute dai servizi di intelligence nonché dalla maggior parte degli analisti indipendenti, che la guerra in Iraq e la mancata soluzione del conflitto israelo-palestinese hanno contribuito alla radicalizzazione della gioventù bri­tannica musulmana.

Esistono poi elementi che combacia­no a fatica coni cliché sia della destra che della sinistra. Il rapporto Policy Exchange, per esempio, evidenzia come i giova­ni musulmani britannici reagiscono alla cultura edonistica fatta di promiscuità sessuale, grandi bevute e scarsi valori che vedono diffusa tra i loro coetanei. «Ho deciso di indossare l’hijab perché non mi piace l'immagine di oggetto ses­suale che si da della donna» (ragazza musulmana, 21 anni, Oxford). «La cosa brutta, e non saprei come si può risolve­re, è che loro [i britannici] in realtà non sanno quali sono i loro valori. Sembra quasi che se li inventino nel momento in cui vengono attaccati» (ragazza musul­mana, 22 anni, Leeds). Sono voci che meritano ascolto.

Se i leader della destra si limitano a sbraitare «no al multiculturalismo!», tra i lettori del Daily Mail qualcuno lo interpreterà nel senso che «o questa gente si adatta ai nostri costumi o se ne torna da dove è venuta». Se i leader della sinistra si limitano a rispondere inveendo con­tro l'islamofobia e la guerra in Iraq, i mu­sulmani e le amministrazioni comunali non saranno costretti a porsi, come do­vrebbero, difficili interrogativi su certi rappresentanti e su certe politiche della loro comunità. E sia i conservatori che i laburisti saranno tentati di alimentare questi equivoci nella corsa alle elezioni politiche, per timore che quei voti vada­no altrove. Ma è un problema troppo se­rio per ridurlo a una battaglia tra uomini di paglia. In ballo c'è nientepopodimeno che il futuro della Gran Bretagna come paese libero e tollerante.

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