Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Testata:L'Unità - La Stampa Autore: Gabriele Bertinetto - Farian Sabahi Titolo: «Iran, cresce la fronda contro Ahmadinejad - “In Iraq il vero nemico»
Isolato, privo di consenso e semza reale possibilità di prendere decisioni. Così una certa stampa presenta Ahmadinejad. Dimenticando che il vero problema non è tanto l'attuale presidente iraniano, quanto il regime che lo ha voluto a quella carica. Va infatti ricordato: Ahmadinejad non ha mai avuto un vero consenso democratico, gli iraniani non possono scegliere liberamente i loro rappresentanti, perché gli aytollah bocciano le candidature non "islamiche". E pure va ricordato che uomini come Khamenei (Guida suprema) Rafsanjani (rivale di Ahmadinejad alle ultime elezioni) non sono da mano dell'attuale leader in quanto a odio per Israele, antisemitismo e volontà di sostenere il terrorismo.
Ecco il testo di un articolo di Gabriele Bertinetto pubblicato dall'UNITA'
Ai vertici del regime iraniano è in corso un’ intricata lotta tra fazioni. Il presidente Ahmadinejad, sconfitto nelle elezioni amministrative di dicembre, abbandonato da gran parte dei suoi seguaci in Parlamento, criticato ormai anche dalla stampa conservatrice, è apparentemente il bersaglio di un fuoco concentrico di critiche che arrivano da ogni parte dello schieramento politico: per la sua disastrosa gestione dell’economia e per la sua politica estera sconsiderata. Le visite guidate per diplomatici e giornalisti stranieri nei siti nucleari iraniani, inaugurate sabato a Isfahan, potrebbero inserirsi nel contesto di questo scontro di potere.LA SECONDA TAPPA dell’itinerario atomico coinciderà probabilmente con l’anniversario della rivoluzione khomeinista, domenica 11 febbraio. Si apriranno le porte dello stabilimento di Natanz, proprio quello destinato alle attività che l’Onu ha intimato a Tehe- ran di sospendere: l’arricchimento dell’uranio. Sarà quasi certamente l’occasione per annunciare quelle «buone notizie nucleari», che il capo dell’Ente nazionale per l’energia atomica, Gholamreza Aghazadeh, ha dato ieri per imminenti. Si riferiva forse all’installazione delle tremila centrifughe, su cui negli ultimi giorni le autorità della Repubblica islamica si sono prodotte in un guazzabuglio di dichiarazioni contraddittorie? Non è chiaro. Ma si ha l’impressione che diverse tendenze dell’establishment stiano cercando di qualificare in maniera diversa le esibizioni atomiche di questi giorni. Gli uni per sottolinearne il significato di sfida al mondo, gli altri al contrario per evidenziare la sincerità delle pacifiche finalità del programma nucleare. A Isfahan, vestendo i panni di cicerone atomico, l’ambasciatore iraniano all’Aiea (l’agenzia dell’Onu per l’energia nucleare) Ali Ashgar Soltanieh si è rivolto agli ospiti stranieri per rimarcare quanto «il governo della Repubblica islamica presti attenzione all’opinione pubblica internazionale» ed assicurare che tutto si svolge sotto il controllo degli ispettori dell’Aiea. Affermazioni non verificabili dai visitatori, consapevoli di essere testimoni soprattutto di un’operazione propagandistica. Ma il messaggio era chiaro: vogliamo dialogare. Il problema è se questa volontà negoziale coinvolga l’intera dirigenza di Teheran. Probabilmente no. I media locali hanno ripetutamente citato Ahmadinejad per l’annuncio che l’11 febbraio sarà il giorno per «provare l’ovvio diritto del nostro popolo» alla tecnologia nucleare. Benché come capo di Stato abbia il controllo dell’esecutivo, Ahmadinejad ha un ruolo istituzionale subalterno rispetto alla Guida suprema, l’ayatollah Khamenei. Per questo, quando vinse le presidenziali nel 2005, i riformatori delusi predissero che avrebbe funto da semplice «segretario» di Khamenei. Sarebbe venuto meno insomma il dualismo fra le due massime cariche della Repubblica islamica, sperimentato negli otto anni della presidenza di Khatami, leader degli innovatori. Predizione fallace. Lo schieramento integralista si è clamorosamente spaccato fra i «tradizionalisti» fedeli a Khamenei e i «neo-conservatori» guidati da Ahmadinejad. Quest’ultimo, espressione degli ambienti militari e ultramilitanti, ha tentato di imporre ovunque i propri uomini e la propria linea oltranzista nei rapporti con gli Usa, l’Occidente, Israele. E ha attirato a sé una fetta minoritaria del clero sciita estremista che si riconosce nel magistero dell’ayatollah Mesbah-Yazdi. Il grosso dell’establishment clericale è rimasto invece sulle posizioni tradizionali, e di fronte alla minaccia posta da questa estrema destra aggressiva, ha riallacciato i rapporti con l’ala moderata pragmatista che ha il suo leader in Rafsanjani. Quest’ultimo a dicembre nelle elezioni per i consigli municipali e per l’Assemblea degli esperti (un organismo cui spetterà tra l’altro scegliere presto la nuova Guida suprema al posto di Khamenei, malato) si è alleato in molte circoscrizioni con lo stesso movimento riformatore. L’unico rimasto isolato, un po’ per scelta un po’ perché nessuno voleva accordarsi con lui, è stato Ahmadinejad. Ed ha clamorosamente perso. Particolarmente significativo l’esito delle elezioni per l’Assembea degli esperti, dove Rafsanjani ha ottenuto il doppio dei voti di Mesbah-Yazdi. Preceduto da un sondaggio che dava la popolarità di Ahmadinejad crollata al 35%, il voto ha innescato una sorta di reazione a catena. A metà gennaio la maggioranza dei deputati ha firmato un documento di severa critica agli errori economici del governo. Uno smacco per Ahmadinejad che vinse le presidenziali del 2005 promettendo più lavoro e meno inflazione. Un gruppo più ristretto di parlamentari ha censurato la sua retorica anti-imperialista e anti-sionista come causa delle sanzioni Onu contro l’Iran. Ed a chiarire in maniera lampante quanto Ahmadinejad oggi sia solo, pochi giorni fa il Jomhouri Eslami, giornale megafono di Khamenei, lo ha accusato di usare la questione nucleare per distrarre i cittadini dal fallimento delle sue politiche.
Dopo che ci era stata assicurata la possibilità di separare la Siria dall'Iran, portando la prima ad allearsi con l'Occidente, ecco che analisti e media, almeno per ciò che riguarda lo scenario iracheno, sostengono il contrario: Damasco è più pericolosa di Teheran. L'obiettivo, in un caso come nell'altro, è difendere una dittatura terrorista. Ecco il testo di un'intervista di Farian Sabahi all'analista Vali Nasr, dalla STAMPA
«Gli Stati Uniti credono che il nemico sia l'Iran mentre gli iracheni, più accorti, hanno capito che è Damasco ad avere maggiore interesse nella destabilizzazione dell'Iraq. E infatti, dalla Siria transitano i terroristi provenienti dai Paesi arabi», spiega Vali Nasr. Americano di origine iraniana, insegna Politica del Medio Oriente in California, è membro del prestigioso Council on Foreign Relations e qualche mese fa è stato chiamato dal presidente George W. Bush per un briefing sulla violenza settaria in Iraq. A marzo la casa editrice Egea dell'Università Bocconi pubblicherà il suo saggio «La rinascita sciita». Ieri un alto funzionario iracheno ha accusato Damasco di essere il mandante di metà degli attentati che hanno luogo in Iraq. Al tempo stesso, la Comunità internazionale ritiene la Siria colpevole di interferire nelle questioni libanesi attraverso Hezbollah: cosa c'è dietro queste accuse? «Dopo il successo militare dell'estate scorsa contro Israele, ora Hezbollah vuole il potere e in questo non si comporta diversamente dagli altri protagonisti della politica mediorientale. Occorre però tenere presente che le pressioni di Hezbollah sul governo libanese fanno il gioco di Damasco, da anni alleato del Partito di Dio. La Siria ed Hezbollah considerano il governo di Beirut filo-americano e quindi, finché i rapporti tra Damasco e Washington non migliorano, non permetteranno la stabilizzazione della politica libanese. Infine, seppur eletto dal popolo, il governo di Beirut non è democratico fino in fondo perché non rappresenta in modo corretto gli sciiti che, grazie a una notevole crescita demografica, costituiscono ormai il 40-45% della popolazione». Cosa lega Beirut, Damasco e Teheran? «Le relazioni Teheran-Hezbollah sono di vecchia data e hanno radici non solo politiche e militari ma anche religiose e culturali. I rapporti tra Hezbollah e Damasco si basano su posizioni comuni nel contesto libanese e sulla rivalità regionale tra siriani e israeliani». Bush accusa l'esercito del Mahdi, guidato da Moqtada al-Sadr, di essere coinvolto nella violenza settaria. Nel lungo periodo Sadr si rivelerà un alleato o un nemico del governo Maliki? «L'Iraq non è più una dittatura e il premier Maliki ha bisogno di un governo di coalizione e, in questa chiave, anche dell'appoggio di Sadr che è un potenziale alleato. Maliki non può nemmeno ignorare le milizie, ovvero i 50-60 mila paramilitari che rispondono a comandanti diversi i quali, a loro volta, non necessariamente obbediscono a Moqtada al-Sadr. In Iraq l'opinione pubblica sciita non è preoccupata per l'esercito del Mahdi, che anzi li difende, ma piuttosto per gli attacchi dei terroristi». Gli Stati Uniti stanno cercando una soluzione alla guerra in Iraq ma intanto il conflitto tra sciiti e sunniti contagia il Michigan, lo Stato americano dov'è maggiore l'incidenza della popolazione di fede islamica. «Il conflitto tra sunniti e sciiti dilaga in tutto il mondo, basti pensare che la settimana scorsa, durante la commemorazione di Ashura, sono stati cinque gli attentati contro la minoranza sciita. L'esportazione del conflitto tra sunniti e sciiti ha travalicato i conflitti dell'Iraq, estendendosi a tutto il Medio Oriente e il mondo arabo. E’ stato evidente in occasione dell'impiccagione di Saddam: i sunniti erano in lutto, gli sciiti festeggiavano. La tensione è già approdata negli Stati Uniti, potrebbe arrivare in Europa». Lo sciismo è una minaccia per il mondo? «La minaccia terroristica viene dai sunniti, non dagli sciiti. In Europa, in Asia e in Medio Oriente sono i gruppi sunniti salafiti e di al Qaeda a reclutare militanti. Questo non vuol dire che, in futuro, gli sciiti non possano rappresentare una sfida per l'Occidente, soprattutto se i rapporti si deteriorano. Gli sciiti vogliono il controllo delle loro arene politiche, combattono nei loro quartieri, per salvare le case e le terre. E non si avventurano certo sugli autobus e nelle stazioni ferroviarie d'Europa. La rivoluzione iraniana aveva prodotto ideologie adicali ma negli Anni Novanta queste fiamme si sono spente e il testimone del radicalismo è passato ai sunniti salafiti»
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione dell'Unità e della Stampa