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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Repubblica - Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.01.2007 La legge Mastella, il negazionismo e l'antisemitismo
rassegna di opinioni

Testata:Il Foglio - La Repubblica - Corriere della Sera
Autore: Giorgio Israel - Agostino Giovagnoli - Bernard Henry Levy
Titolo: «La legge Mastella non sfiora Ahmadinejad ma condannerebbe Lévi-Strauss - Ma Negazionismo e antisemitismo sono alla pari - GENOCIDIO ARMENO DIFENDO LA MEMORIA CONTRO I NEGAZIONISTI»
Dal FOGLIO del 30 gennaio 2007, un articolo di Giorgio Israel sulla legge Mastella.
Israel spiega come, venuta a cadere la finalità antinegazionista della legge, nella sua ultima forma essa si presterà ad essere utilizzata per imporre un conformismo politicamente corretto.

Ecco il testo:

La vicenda del disegno di legge cosiddetto Mastella sul negazionismo e il razzismo fornisce alcuni insegnamenti basilari.
Il primo è che meno appelli si fanno e si firmano, meglio è. Una parte dei firmatari dell’appello dei 200 storici era certamente ispirata all’idea che combattere il negazionismo per via legislativa (più di quanto sia già possibile) sia controproducente e apra la via alla pratica disgraziata della storiografia di stato. È assai probabile che altri firmatari, di notori sentimenti anti-israeliani e anti-americani, fossero animati da intenzioni meno commendevoli. Basta navigare in rete per rendersi conto di quanto certi circoli di estrema sinistra abbiano paventato il “rischio” che la legge sul negazionismo impedisse di “condannare i crimini israeliani”.
Ma questa preoccupazione è stata prontamente placata. La versione finale della legge, approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri, non contiene più alcun riferimento al negazionismo e se la prende genericamente con la “diffusione di idee sulla superiorità razziale” o gli atti discriminatori per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi, sessuali o di genere. Del negazionismo, a volerlo cercare col lanternino, è rimasto soltanto l’accenno fumoso a un aumento di pena per chi istighi a commettere quei delitti “negando in tutto o in parte l’esistenza di genocidi o di crimini contro l’umanità per i quali vi sia stata una sentenza definitiva di condanna da parte dell’autorità giudiziaria italiana e internazionale”. Si noti, di passaggio, che la maggior parte dei crimini – ad esempio, il Gulag staliniano o la persecuzione degli ebrei nei paesi arabi, per i quali non vi è mai stata alcuna sentenza definitiva di condanna – passa in cavalleria.
Da questa solenne scornata, presa da coloro che speravano di mettere al bando il negazionismo della Shoah, discende il secondo insegnamento: mai scendere sul terreno minato dei reati d’opinione e della loro proscrizione per legge. Si sa dove si comincia e si sa anche dove si finisce: in una condizione peggiore di quella di partenza e con la vittoria delle posizioni più liberticide.
Quale sarà il risultato di questa legge, se verrà approvata e applicata? Per esempio, che sarà più difficile di prima attaccare il negazionismo alla Ahmadinejad. Difatti, a chi se la prendesse con le campagne antisioniste-antisemite e negazioniste che dilagano nel mondo dell’estremismo islamico e tentasse di trascinare di fronte alla legge coloro che le sostengono o le giustificano, si opporrà che i veri atti discriminatori per motivi razziali, etnici e nazionali sono quelli compiuti da Israele contro i palestinesi e che dovrebbe essere punito chi li avvalla, e non chi – sia pure con qualche eccesso di difesa – combatte il “razzismo sionista”.
Il Foglio ha ampiamente illustrato i reati di opinione che potrebbero essere puniti con questa legge. Mi limiterò ad aggiungere un esempio.
Circa mezzo secolo fa l’Unesco invitò il celebre antropologo Claude Lévi-Strauss a tenere due conferenze su “razza e storia” e “razza e cultura” come contributo alla lotta contro i pregiudizi razziali. In conclusione, Lévi-Strauss denunciava i pericoli del multiculturalismo e dell’idea secondo cui è illecito affermare la preferenza, se non addirittura la superiorità della propria cultura. Sosteneva (con quale preveggenza!) che per tale via si sarebbero accumulate «tensioni tali che gli odî razziali avrebbero offerto una misera immagine del regime di intolleranza esacerbata che rischia di instaurarsi domani». Ed ecco un saggio della sua prosa: «Se l’umanità non si rassegna a diventare la sterile consumatrice dei soli valori che ha saputo creare nel passato, capace soltanto di dare alla luce opere bastarde e invenzioni grossolane e puerili, occorre apprendere di nuovo che ogni vera creazione implica una certa sordità all’appello dei valori altrui, fino al loro rifiuto, se non addirittura alla loro negazione».
Lévi-Strauss è vivo e vegeto e gli consigliamo vivamente di non affacciarsi nella penisola dopo la promulgazione della legge Mastella. Qualche buontempone potrebbe celebrare il suo centenario tentando di sbatterlo in galera per aver istigato alla superiorità razziale o etnica con le sue conferenze Unesco contro il razzismo…
La lezione finale è che battaglie come queste si conducono sul terreno politico, culturale e dell’educazione, come hanno rilevato le voci più sagge della maggioranza (valga per tutti Piero Fassino). Se chi costruisce questo tipo di tagliole fosse il solo a finirvi dentro con tutti e due i piedi, peggio per lui. Il guaio è che rischiamo di farci male tutti.

Da REPUBBLICA , un articolo di Agostino Giovagnoli, sul significato antisemita della negazione della Shoah:

«Ciò che è accaduto può ritornare». Le parole di Primo Levi incombono su ogni discorso che tocca la Shoah. Forse per questo, il dibattito sulla condanna del negazionismo per legge non riesce a trovare un approdo definitivo. Nei giorni scorsi ben 150 storici sono stati d´accordo nel respingere una sanzione giuridica del "negazionismo", che non ora non compare più nel testo contro il razzismo approvato all´unanimità dall´ultimo Consiglio dei ministri. Eppure, continuano a persistere dubbi, in particolare tra esponenti della comunità ebraica, che - come ha scritto Emanuele Fiano - pur condividendo la preoccupazione di evitare provvedimenti illiberali, hanno avvertito un eccesso di "illuminismo" e di astrattezza nelle posizioni degli storici.
I 150 hanno respinto la sanzione legale del negazionismo in nome della libertà di opinione; tale sanzione, hanno aggiunto, avrebbe la conseguenza di affermare una "verità di Stato". Sono argomenti forti: un´eventuale pretesa dello Stato di sancire quale sia la verità storica, limitando di fatto la libertà di ricerca, è inaccettabile. Ma il negazionismo è un´opinione storica, da contrastare - come suggeriscono i 150 - con gli strumenti propri della storia? Come ha spiegato Valentina Pisanty qualche anno fa ne L´irritante questione delle camere a gas, il negazionista non sostiene posizioni storiche controcorrente, ma applica alla ricostruzione del passato le tecniche decostruzionistiche della letteratura. Davanti a questo tipo di "opinioni" gli storici sono dunque impotenti: non si può contestare i negazionisti con gli strumenti della scienza storica perché questi non ne rispettano le regole. Più che difendere un´opinione o confrontarla con altri, a molti di loro interessa usare il falso e indurre l´odio verso gli ebrei. Insomma, la distinzione tra negazionismo e antisemitismo, difficile in teoria, è quasi impossibile in pratica.
La questione, così, non riguarda più la libertà di opinione ma il modo più adatto per contrastare l´antisemitismo. E´ di molti l´opinione che - come ha sottolinea Michele Sarfatti - per raggiungere questo obiettivo occorra un´ampia azione culturale ed educativa: una mentalità sbagliata non si cambia per legge. Ci si chiede però se una legge può coadiuvare questo sforzo culturale ed educativo o se sia, invece, controproducente. Come ha spiegato Repubblica, "vietare è spesso dannoso", ma - in questo campo - anche non vietare comporta rischi. In realtà, la polemica sulla legge Mastella dovrebbe investire un´ampia produzione legislativa, a partire dall´art. 3 della Costituzione, che va dalla legge Reale del 1975, con cui fu recepita la Convenzione di New York del 1965 contro il razzismo, alla legge Mancino del 1993, che colpiva esplicitamente anche la "violenza antisemita". (Sembra, tra l´altro, che quest´ultimo provvedimento abbia avuto un certo effetto pratico). Ma alla fine della scorsa legislatura, la legge del 1975 è stata modificata in extremis, non solo alleggerendo le pene ma anche restringendo i comportamenti da sanzionare. Ripristinando la legge precedente, dunque, il nuovo provvedimento si propone anzitutto di lanciare un segnale morale e politico: lo Stato italiano contrasta il razzismo e l´antisemitismo. E´ ovvio che, su questo terreno, anche tra gli storici i pareri siano diversi.
In questo dibattito, infine, sono state sollevate critiche alla tesi dell´"unicità" della Shoah. E´ una tesi cara a molti ebrei - l´ha sostenuta, tra gli altri, il premio Nobel Elie Wiesel - per sottolineare l´incommensurabilità del male rappresentato da Auschwitz. Indubbiamente, nel novecento ci sono stati molti altri genocidi che è giusto ricordare, ma parlando di "unicità" della Shoah non ci dimentica necessariamente degli altri: al contrario, la discussione sulla Shoah - comunque la si pensi - ha aiutato gli storici ad evitare quelle banalizzazioni che rappresentano un rischio assai grave quando si parla delle tragedie del XX secolo.

Dal CORRIERE della SERA del 29 gennaio, un articolo di Bernard Henry Levy sulla legge in discussione in Francia che proibirebbe la negazione del genocidio degli armeni.
A partire da questo caso, Levy argomenta la necessità di perseguire per legge il negazionismo, un atto di occultamento delle prove che, sostiene il filosofo francese, è parte integrante del genocidio.
All'obiettivo di perseguire il negazionismo della Shoah, tuttavia, la legge Mastella nella sua ultima versione sembra aver rinunciato.
Ecco il testo:

«Non spetta alla legge scrivere la Storia». È assurdo, perché la Storia è già scritta. La Storia di questa storia è stata fatta, cento volte fatta, da tutti i testimoni degni di fede. Che gli armeni siano stati vittime, nel senso stretto, preciso del termine, di un tentativo di genocidio, cioè di un'impresa pianificata di annientamento sistematico, Churchill l'ha detto. Jaurès l'ha gridato fin dal principio, nel 1894. Péguy, nel periodo in cui si schiera dalla parte di Dreyfus, parla di quell'inizio di genocidio come del «più grande massacro del secolo». Anche i turchi lo ammettono. Sì, è una cosa non abbastanza nota e che occorre instancabilmente ricordare: subito dopo la guerra mondiale, dopo il 1918, Mustapha Kemal riconosce le carneficine perpetrate dal governo dei Giovani Turchi; vengono istituite corti marziali, che pronunciano centinaia di sentenze di morte; i peggiori artefici del crimine, individui come Hodja Ilyas Sami, che è un po' l'Eichmann degli armeni, finiscono con il confessare, chiaramente e distintamente. E non parlo degli storici né dei teorici del genocidio, non parlo dei ricercatori di Yad Vashem, né di Yehuda Bauer, né di Raul Hilberg; non parlo di tutti gli studiosi per i quali, con l'eccezione degna di nota di Bernard Lewis, il problema di sapere se ci sia stato o no genocidio non si è mai posto e non si pone. Quindi, non si tratta di «dire la Storia». La Storia, ripeto, è stata detta, ridetta e arcidetta. Oggi, si tratta d'impedire la sua negazione. Il Senato francese discuterà come complicare, almeno un poco, la vita di chi insulta. Esistono leggi, in Francia, contro l'insulto e contro la diffamazione. Non è forse il minimo che si possa avere, una legge che penalizzi l'insulto assoluto, l'oltraggio che supera tutti gli oltraggi e offende la memoria dei morti?
Si dice: «Sì, d'accordo; però darete fastidio agli storici; la legge non deve immischiarsi neppure un poco nell'accertamento della verità, poiché, quando lo fa, la rinchiude in un corsetto che impedisce agli storici di lavorare». È falso. È il contrario. Sono i negazionisti che impediscono agli storici di lavorare. Sono loro che, con falsificazioni e follie, confondono le piste e complicano le cose. È la legge, invece, a proteggere i ricercatori. Prendiamo ad esempio la Legge Gayssot: non troveremo un solo storico al quale essa, penalizzando chi nega la distruzione degli ebrei, abbia ostacolato il lavoro. È una legge che frena le derive di Le Pen o Gollnish, pone qualche limite alle parole di Faurisson e ostacola gli incendiari d'anime come Dieudonné. Una legge che, fra parentesi, ci evita carnevalate come il processo, sette anni fa, del super negazionista David Irving, a Londra, durante il quale, proprio perché non c'era una legge, abbiamo visto giudici, procuratori, avvocati, giornalisti da strapazzo, acrobati di podi televisivi impegnati, per mesi e mesi, a sostituirsi agli storici, a improvvisarsi cacciatori di verità e a seminare davvero il turbamento negli animi. È una legge che, per prendere un esempio completamente diverso e in un altro campo, ha il merito di risparmiarci i presunti dibattiti che impazzano negli Stati Uniti fra sostenitori delle due «tesi» cosiddette «avverse»: il darwinismo e il creazionismo. Ma è una legge che, ripeto, non ha mai ostacolato il cammino di un solo storico degno di questo nome. E che, contrariamente a quanto tengono a dirci — non riesco a capire perché — certi storici che amano tanto le petizioni, li protegge, sì li protegge dall'inquinamento negazionista. E così accadrà, ne sono profondamente convinto, quando la legge Gayssot sarà estesa alla negazione del genocidio armeno.
Si dice: «Dove arriveremo? Perché, visto che ci siamo, non fare leggi sul colonialismo, la Vandea, la notte di San Bartolomeo, le caricature di Maometto, il delitto di bestemmia? Non ci stiamo dirigendo verso il trionfo di un politicamente corretto che vieta l'espressione delle opinioni non conformi? Non ci stiamo orientando verso decine, se non centinaia di leggi della memoria il cui unico risultato sarà di giudiziarizzare lo spazio del discorso e del pensiero?». Altro errore. Altra trappola. Per due ragioni molto semplici. Innanzitutto, non si tratta di «leggi della memoria» ma di genocidi; non si tratta di legiferare su qualsiasi cosa, ma soltanto sui genocidi. E di genocidi, cioè di imprese in cui si pretende di decidere, come diceva Hannah Arendt, chi ha diritto e chi no di abitare su questa Terra, non ce ne sono cento, né dieci: ce ne sono tre, forse quattro, al massimo cinque, con il Ruanda, la Cambogia e il Darfur. È un imbroglio intellettuale quello di agitare lo spauracchio della moltiplicazione di nuove leggi che violano la libertà di pensiero. Ma siamo seri: non si tratta di opinioni non-conformi, scorrette, ma di negazionismo, solo di negazionismo, cioè di una mentalità molto particolare che si esprime soltanto a proposito di genocidi e che non consiste nell'avere una certa opinione sulle ragioni della vittoria di Hitler o su quelle del trionfo dei Giovani Turchi nel 1908 o sui meccanismi che hanno scatenato la soluzione finale di tutsi o armeni. L'oggetto non è tale o tal'altro giudizio, ma una mentalità molto speciale, molto strana, che non ha niente a che vedere con il fatto di enunciare questo o quello e che consiste nel dire che la realtà non ha avuto luogo.
Niente ricatti, dunque, alla tirannia della penitenza! Finiamola con la falsa argomentazione del vaso di Pandora che apre la via a un'inquisizione generalizzata! Il fatto che questa legge sia votata, che si punisca il negazionismo antiarmeno, non implica in alcun modo la famosa proliferazione, con metastasi, di leggi politicamente corrette.
Si dice ancora: «Tre genocidi, d'accordo; forse quattro, e sia; ma attenzione a non mescolare tutto; non bisogna correre il rischio di banalizzare la Shoah».
La mia risposta è chiara. È vero che non è lo stesso. È vero che il numero dei suoi morti, il grado di demenza e l'irrazionalità assoluta raggiunti dagli autori, il tipo di tecnica molto particolare che implica l'invenzione della camera a gas conferiscono alla Shoah un'irriducibile singolarità. Ma, a quest'evidenza, dobbiamo aggiungere che forse non è «lo stesso», ma i crimini come minimo si assomigliano maledettamente. E il primo a saperlo, il primo a prenderne atto fu un certo Adolf Hitler, di cui non diremo mai abbastanza quanto il genocidio antiarmeno l'abbia colpito, l'abbia fatto riflettere e, oso dire, l'abbia ispirato. Conosciamo tutti la famosa frase, pronunciata davanti ai suoi generali, nell'agosto del 1939, appena prima che la Polonia fosse invasa: «Chi parla ancora, oggi, dello sterminio degli armeni?». La verità è che c'è voluto l'esempio armeno per convincerlo, molto presto, della possibilità, nel contesto di una guerra mondiale e totale, di risolvere un problema come quello della «questione ebraica». La verità è che il genocidio armeno, questo primo genocidio, fu il «primo» in tutti i sensi del termine: un genocidio esemplare e quasi fondatore; un genocidio come banco di prova; un laboratorio del genocidio considerato come tale dai nazisti. Un genocidio a partire dal quale, logicamente, nel memorandum alleato del maggio 1915, è stata formulata per la prima volta la nozione di crimine contro l'umanità; e che fu uno dei due campi di riferimento (il secondo è, beninteso, la Shoah) che, dopo la seconda guerra mondiale, permise al giurista ebreo polacco Rafael Lemkin d'inventare il concetto moderno di genocidio e di far sì che fosse iscritto nella Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del genocidio.
Da qualche giorno mi sono dovuto immergere, confesso senza piacere, nella letteratura negazionista che riguarda gli armeni. Con sorpresa ho scoperto che è la stessa letteratura, letteralmente la stessa, di quella che mira alla distruzione degli ebrei. Stessa retorica. Stesse argomentazioni. Stesso modo ora di minimizzare (ci sono stati dei morti, d'accordo, ma non tanti quanti ci dicono), ora di razionalizzare (massacri che non furono demenziali né gratuiti ma rientravano in una logica che era quella di una situazione di guerra), ora d'invertire i ruoli (come Céline faceva degli ebrei i veri responsabili della guerra e quindi del loro martirio, così i negazionisti turchi spiegano che sono gli armeni, con il loro doppio gioco, il loro comportamento da traditori, la loro propensione a intendersela con i russi e a colpire le truppe ottomane alle spalle, ad aver suggellato il proprio destino) e ora, infine, di relativizzare (che differenza c'è fra Auschwitz e Hiroshima o Dresda? che differenza fra gli armeni morti di fame nel deserto siriano e le vittime turche del terrorismo delle «bande armate» armene?).
Insomma, a coloro che sarebbero tentati di giocare lo sporco gioco della guerra delle memorie e della rivalità tra vittime voglio rispondere difendendo la solidarietà delle vittime di genocidi. È la posizione del filosofo ceco Jan Patocka quando inventa la magnifica formula di «solidarietà dei traumatizzati». Era la posizione, che riguardava specificamente gli armeni, dei pionieri d'Israele, dei primi abitanti dello Yishuv, che sentivano tutti di avere un destino comune con gli armeni naufragati. Non lasciamoci ingannare: la lotta contro il negazionismo non è divisibile; i due meccanismi sono così vicini, il tentativo di negarli è, nei due casi, così incredibilmente simile che lasciare una possibilità all' uno equivarrebbe necessariamente ad aprire una breccia nell'altro.
Infine si dice, e questo vuole essere l'argomento definitivo, schiacciante: «Perché non lasciare che la verità si difenda da sola? Non è abbastanza forte per opporsi, per imporsi, per fare mentire i negazionisti?». Ebbene no. Temo proprio di no. Innanzitutto, perché il negazionismo antiarmeno ha una particolarità che non si trova in quello che nega il genocidio degli ebrei: è un negazionismo di Stato, che si appoggia sulle risorse, la forza, la diplomazia, la capacità di ricatto di un grande e potente Stato.
Proviamo a immaginare la situazione dei sopravvissuti alla Shoah se lo Stato tedesco fosse stato, dopo la guerra, negazionista! Proviamo a immaginare il loro sconforto ancora più grande se si fossero trovati davanti, invece dei Faurisson e altri Rassinier — i quali, per quanto nocivi siano stati, erano comunque capi di sètte abbastanza strampalati —, una Germania non pentita che facesse pressione sui suoi partner minacciandoli di ritorsioni qualora avessero qualificato di genocidio la tragedia di uomini, donne e bambini selezionati sulla rampa di Auschwitz!
È la situazione attuale degli armeni. È un' avversità che, stavolta, non ha equivalenti e alla quale non sono certo che la verità, nella sua nudità, abbia sufficiente forza per opporsi. E c'è il fatto che qui non si tratta più di «verità» e di «smentita»: poiché, cosa c'è nella testa di un negazionista? Qual è la strana passione che, come dicevamo prima, si manifesta solo per offendere le vittime di genocidi e mai, ad esempio, per negare che la Terra è rotonda o che Mozart è un musicista austriaco? Di cosa si tratta, quando ci si accanisce nel dire a degli uomini: «No, non siete morti; i vostri genitori, i vostri nonni e bisnonni non sono morti come voi sostenete; e il fatto di sostenerlo, di tenere così fortemente a farcelo credere significa che siete grandi imbroglioni, trafficanti della disgrazia matricolati, significa che avete un interesse inconfessabile»? In questo sentiamo che c'è una qualità di odio senza eguali, una volontà di offendere così totale che si può ricondurre soltanto all'odio antisemita o razzista. Contro tale odio, purtroppo, la verità è priva di risorse.
In conclusione, ricordiamo Himmler che, nel giugno 1942, crea un commando speciale, il commando 1005, incaricato di dissotterrare i corpi, bruciarli e farne scomparire le ceneri. E ricordiamo l'SS gridare a Primo Levi che non un ebreo resterà per testimoniare e che, se per caso ne rimanesse uno, sarà fatto di tutto perché la sua testimonianza non venga creduta. Conosciamo gli eufemismi utilizzati — evacuazione, trattamento speciale, reinstallazione a Est — per evitare di dire «omicidio di massa» e per cancellare dunque, persino nel discorso, il segno di quello che si stava compiendo. Ebbene, la legge della Shoah, il teorema che io chiamo teorema di Claude Lanzmann, secondo cui il crimine perfetto è un crimine senza tracce e la cancellazione della traccia è parte integrante del crimine stesso; l'evidenza di un negazionismo che non è il seguito ma un momento del genocidio, che gli è consustanziale, valgono per tutti i genocidi e quindi, naturalmente, anche per quello del popolo armeno. Si crede che i negazionisti esprimano un'opinione: essi perpetuano il crimine. E pretendendo d'essere liberi pensatori, apostoli del dubbio e del sospetto, completano l'opera di morte. Occorre una legge contro il negazionismo, perché esso è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio.
( traduzione di Daniela Maggioni)

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