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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
22.01.2007 Moderati e pragmatici a Teheran
solo quando pensano a Israele o agli ebrei diventano uguali ad Ahmadinejad

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Marcello Foa - Alix Van Buren
Titolo: «E' l'anno della svolta: Washington e Teheran troveranno un'intesa - "Sta per esplodere la rabbia sciita per gli Usa è la prossima sfida"»

E' possibile e auspicabile un accordo tra Stati Uniti e Iran? Lo sostiene , intervistato per il GIORNALE del 22 gennaio 2007 da Marcello Foa l'analista americano  Kamran Bokhari.
A Teheran, sostiene, i "moderati" e i "pragmatici" stanno riguadagnando "consensi ".
Scriviamo "consensi" tra virgolette perché in Iran non si tengono elezioni realmente democratiche.
In quanto a "moderati" e "pragmatici": Bokhari esemplifica citando l'ex presidente Rafsanjani.
Che è incriminato da un tribunale argentino come mandante delle stragi antisemite del 94 (bombe contro l'ambasciata d'Israele e contro un centro ebraico, con centinaia di morti), che ha sempre finanziato Hezbollah e il terrorismo, che sostenuto la convenienza della distruzione nucleare d'Israele, anche a prezzo di milioni di morti musulmani.
Se questo è un moderato o un pragmatico, togliamo pure le virgolette.
Cambiando anche, però,  il significato delle due parole.
Ecco il testo:

«Non ci sono dubbi: Usa e Iran troveranno un accordo politico. E il 2007 verrà ricordato come l'anno della svolta, l'inizio di un percorso che potrà portare nel lungo periodo alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi». Kamran Bokhari parla al telefono con la grinta e la convinzione tipiche degli analisti dei think tank statunitensi. Ma la sua non è una voce tra le tante, perché Bokhari lavora per Stratfor, il centro studi considerato l'ombra della Cia.
Perché voi della Stratfor siete persuasi che l'accordo sia inevitabile?
«Perché siamo in una situazione di stallo; soprattutto in Irak. Gli americani si rendono conto di non poter recuperare il Paese senza il consenso di Teheran; gli iraniani hanno capito che Washington non abbandonerà la regione e pertanto non potranno ottenere una vittoria completa».
Oggi però gli Usa appaiono in una posizione negoziale debole…
«È vero, ma le ultime decisioni prese da Bush mirano a ribaltare questa percezione. Quando boccia il piano Baker, annuncia l'invio di altri ventimila soldati a Bagdad e vara un piano per imbrigliare le milizie estremiste sciite in Irak, la Casa Bianca lancia un messaggio preciso agli iraniani. Dimostra che l'attuale situazione può essere rovesciata, nonostante quasi quattro anni di attentati. Lo scopo finale non è di riconquistare l'Irak, ma di avviare un dialogo con Teheran su basi più forti».
Ma l'annunciata caccia alle brigate del leader sciita Moqtada Al Sadr non rischia di far precipitare la situazione?
«No, perché le altre fazioni sciite irachene vogliono limitare il potere destabilizzante di queste milizie e appoggiano l'America. Idem, ovviamente, i sunniti. È in corso una partita a scacchi. Gli iraniani sono stati scaltri nel 2006: hanno dimostrato che la morte di Zarqawi era ininfluente e hanno rifiutato la trattativa con gli Usa, speculando che, dopo la sconfitta dei repubblicani al Congresso, l'esercito statunitense si sarebbe ritirato. Ora capiscono l’errore e devono decidere: rischiare la paralisi con gli Usa o cambiare linea per evitare di sprecare quanto ottenuto finora? Non sono affatto stupidi e opteranno per la seconda opzione».
Eppure a Washington i democratici osteggiano i piani di Bush...
«Il loro obiettivo è di indebolire i repubblicani in vista delle elezioni del 2008 e dunque rendono la vita dura a Bush. Ma al contempo sanno che lasciare l'Irak equivarrebbe a una vittoria di Al Qaida e degli estremisti, che sarebbero incoraggiati a esportare la violenza in altre parti del mondo. In cuor loro sanno che questo piano è nell'interesse del Paese e alla fine lo appoggeranno».
Considerati i gravi errori commessi da Bush negli ultimi anni c'è però da chiedersi se un piano del genere possa funzionare...
«L'amministrazione sta rettificano la sua linea politica, con ripercussioni in tutto il Medio Oriente. Sono stati commessi errori in passato? Certo, ma ora tutti guardano al futuro. E Condoleezza Rice è riuscita a cementare l'alleanza con i principali Paesi sunniti della regione. Ora l'esigenza è di arginare l'Iran. E gli arabi sono con noi».
Teheran ha due grandi nemici: Israele e l'Arabia saudita. È possibile un'alleanza tra questi due Paesi?
«Contatti segreti sono già in corso. Israele sarebbe pronta a uscire allo scoperto, ma Riad non può permetterselo perché la società saudita non capirebbe. Si proseguirà su questa strada: cooperazione informale senza annunci pubblici».
È verosimile l'ipotesi di un raid israeliano?
«No, perché la situazione politica interna è caotica e, soprattutto, perché gli israeliani sono rassicurati dall'atteggiamento degli americani e degli arabi. Gerusalemme non ha fretta, ma certo non rinuncerà a esercitare pressioni; si spiegano così le notizie su possibili raid fatte filtrare ad arte sulla stampa europea».
Ma come la mettiamo con il nucleare?
«A Teheran il quadro politico sta cambiando. I radicali hanno perso le elezioni amministrative e quelle del consiglio dei saggi. Il presidente iraniano Ahmadinejahd è sempre più criticato, mentre leader pragmatici come Rafsanjani guadagnano influenza e dunque anche la questione nucleare sarà gestita in modo diverso».
E se il piano fallisce?
«Non può fallire. Gli iraniani vogliono stabilizzare l'Irak e contare di più nella regione; gli Usa vogliono mantenere l'influenza nel Golfo. Gli uni possono bloccare gli altri, reciprocamente. L'accordo è nell'interesse di entrambi».
marcello.foa@ilgiornale.it

Intervistato da Alix Van Buren,  Vali Nasr definisce così la politica iraniana:
"Teheran chiede che le si riconosca un´area d´interesse nei Paesi limitrofi: dopo cinquant´anni di scontri con l´Iraq, dopo le stragi con le armi chimiche di Saddam, vuole al confine un governo amico, come la Francia la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stesso vale per le province occidentali dell´Afghanistan. Ciò non vuol dire che Teheran intenda governarli»."

Una ragionevole politica di potenza, che difende i suoi interessi, ma con la quale si può trattare...
Che l'iran voglia anche la distruzione d'Israele è un piccolo, trascurabile particolare.

Ecco il testo, da REPUBBLICA


La strategia annunciata dal presidente Bush, declinata nelle parole di Vali Nasr, l´oracolo politico più ascoltato a Washington, suona più come una dichiarazione di guerra che una ricetta per la pace. Il Medio Oriente, visto dal suo osservatorio di studioso, è un unico, smisurato campo dove si fronteggiano due potenze, Iran e Stati Uniti. «La prima avanza sull´onda alta di 140 milioni di sciiti, risvegliatisi nel 2003 dopo un sonno millenario. La seconda si candida a interpretare la parte dell´alfiere dei sunniti, affiancata da una coorte di sovrani autoritari. Soltanto un regolamento diplomatico fra le due può scongiurare la deriva della regione, dall´Asia centrale al Levante». Questo è lo scenario che va dipingendo Vali Nasr: lo ha esposto giorni fa al Congresso americano.
E come s´è pronunciato, professore, sull´invio di soldati a Bagdad?
«Le speranze di un successo militare si riducono a uno spiraglio. Il fatto è questo: la strategia adottata da Bush prende di mira gli sciiti, che si sentono traditi. Anziché premiare l´alleanza con l´America, Washington a loro avviso volta loro le spalle, tende la mano ai sunniti, i primi responsabili dell´insorgenza, che si vedono premiati».
Le milizie sciite si sono macchiate di delitti.
«Certo, però mai contro le forze americane. In molti casi si sono schierate a difesa della popolazione, contro gli attentati sunniti a Sadr City. Se le milizie verranno colpite a Bagdad, si profilerà una seconda Fallujah: il rischio che esploda l´insurrezione sciita. E c´è un altro fatto destabilizzante: l´America non ha mai pesato tanto poco in Iraq quanto oggi».
Si spieghi, professore.
«I rapporti fra Washington e il premier al-Maliki sono contrassegnati dalla tensione. Fra gli sciiti al potere, c´è sfiducia verso le reali intenzioni dell´America. Per più d´una ragione. Primo, perché l´iniziativa di Bush addossa la responsabilità della riuscita a un governo fragile come quello di al-Maliki, il che equivale a una soluzione pilatesca: Washington si lava le mani».
E la seconda ragione?
«Perchè il piano poggia su un fronte di alleati ristretto a Giordania, Egitto, Arabia Saudita: regimi sunniti verso cui Bagdad è scettica. In più comporta la rinuncia alla strategia diplomatica, l´esclusione dal dialogo dei Paesi che hanno influenza e riscuotono maggiore fiducia in Iraq, come l´Iran e la Siria, ma anche la Turchia.».
Lei sta delineando un´America schierata?
«Sì, dalla parte dei sunniti, con una notevole capovolta rispetto a un anno fa, quando sosteneva gli sciiti. Assistiamo a un ritorno agli Anni Ottanta, all´intesa con le dittature arabe, all´abbandono di ogni spinta verso la democrazia. Di più: il piano non affronta le vere cause del conflitto, che sono di natura politica: per risolvere lo scontro bisogna riunire tutte le parti, nessuna esclusa, attorno al tavolo negoziale».
Il Pentagono riferisce di portaerei e missili Patriot dispiegati nel Golfo. Lei che cosa vede all´orizzonte?
«Ascolti, non si tratta più di Iraq ormai. L´obiettivo s´è spostato sull´Iran. Perciò la situazione irachena può precipitare, e Bagdad trasformarsi in terreno di scontro fra Washington, Riad, il Cairo e Teheran, un po´ come già il Libano. La strategia dell´escalation è rischiosa: con l´Iran bisogna trovare un modus vivendi».
Però quel regime ha disegni di supremazia sul Medio Oriente.
«È proprio così, dai tempi dello scià. All´inizio, la politica di Teheran aveva portato l´America nella regione: per contenere l´Iran. Ma la sua potenza non si fonda sulle armi. Deriva da fattori economici e sociali: da un tasso di alfabetizzazione, da una capacità scientifica e industriale senza rivali nel mondo arabo. Assestare uno schiaffo militare al Paese non cambierà tutto questo. Piuttosto, si rischia di assegnare all´Iran un´importanza senza pari nel Medio Oriente».
Qual è il prezzo di un´intesa?
«Teheran chiede che le si riconosca un´area d´interesse nei Paesi limitrofi: dopo cinquant´anni di scontri con l´Iraq, dopo le stragi con le armi chimiche di Saddam, vuole al confine un governo amico, come la Francia la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stesso vale per le province occidentali dell´Afghanistan. Ciò non vuol dire che Teheran intenda governarli».
Professore, secondo lei in cambio che cosa garantirebbe?
«La pacificazione dell´Iraq, un vantaggio strategico non indifferente; la stabilità regionale, da Kabul a Riad a Beirut. Gli Stati Uniti parlino con Teheran, per il futuro dell´area. Come con la Cina per il futuro dell´Asia».

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