Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
D'Alema detta ancora la linea alle comunità ebraiche e chi non è d'accordo non è "democratico"
Testata: Autore: Massimo D'Alema Titolo: «Alle comunità ebraiche chiedo più coraggio»
Da L'UNITA' del 13 gennaio 2007 riportiamo l’introduzione di Massimo D’Alema al libro di Bice Foà Chiaromonte «Donna, ebrea, comunista».
Conosco Bice e l’ho vista tante volte, ma spesso sullo sfondo e, devo dire la verità, la mia curiosità verso questo libro è nata dal suo rapporto con Gerardo Chiaromonte. Non che pensassi a un libro su Gerardo, conoscendo Bice e la forza della sua personalità sapevo che sarebbe stato, ovviamente, il diario della sua vita. Però mi interessava capire il Chiaromonte che io non avevo mai conosciuto, perché era una persona riservata, come usava in quel partito dove non c’era confusione tra pubblico e privato. Questo è invece un libro in cui Gerardo c’è, ma sta sullo sfondo ed è l’architetto Foà ad essere protagonista. Il mio punto di vista è abbastanza particolare perché legato all’amicizia con Gerardo, un rapporto che andava al di là della politica. Era un uomo curioso, curioso degli altri e curioso del mondo, aveva un approccio scientifico e quella di Bice e Gerardo era una coppia piuttosto originale nel comunismo italiano, dominato dalla cultura umanistica, umanistico-letteraria, perché erano un ingegnere e un architetto. E proprio l’estrazione «scientifica» che li accomunava faceva nascere in loro l’interesse verso la modernità e verso le cose che cambiano. Prima di diventare segretario della Fgci, e poi negli anni seguenti, ho avuto con lui un dialogo particolarmente intenso. Era responsabile dell’Ufficio di segreteria, il numero due come si direbbe in termini politici, il più stretto collaboratore politico di Berlinguer. Se c’era un problema l’interlocutore era lui, più raramente il segretario, che era una sorta di ultima istanza. Ricordo che una volta andai da Gerardo perché Salvatore Cacciapuoti, altro protagonista del libro di Bice, che all’epoca era segretario della commissione di controllo e quindi si occupava della moralità dei quadri e della linea del partito, mi aveva segnalato il comportamento «anomalo» di alcuni giovani dirigenti della Fgci che io ostinatamente difendevo, ancorché fossero veramente un po’ stravaganti, ma anche per questo interessanti e rappresentativi. Cacciapuoti voleva che li allontanassi dalle loro funzioni di responsabilità e io mi appellai a Chiaromonte che gridò rivolto a Cacciapuoti: «Tu non capisci, qua dove stiamo noi, qua in questa parte del mondo, c’è stata la rivoluzione francese, l’illuminismo!». Era un uomo che rifiutava gli schemi burocratici, con un approccio liberale, democratico, aperto al confronto delle idee, garantista. Purtroppo non sempre l’immagine pubblica gli ha reso giustizia. Il libro ha molte chiavi di lettura ed una di queste è la Napoli della guerra e del dopoguerra e l’incontro tra un ambiente intellettuale così vivo, dal grande matematico al musicista, e il partito comunista. Questo è stato il grande segreto del Pci, aver saputo tenere insieme il mondo popolare, proletario, e il mondo intellettuale. Una figura come Cacciapuoti, ad esempio, senza questi intellettuali sarebbe diventato semplicemente stalinista, ma questi intellettuali senza Cacciapuoti sarebbero stati semplicemente liberali. Un incontro che ha prodotto una classe operaia stimolata a non chiudersi nel suo settarismo e un mondo intellettuale costretto al confronto con il popolo e a comprenderne i problemi e la realtà. E questa di Bice è una storia di militanza, di partecipazione, di vita di sezione. Non ha mai voluto essere «la moglie di», non è mai stata «la moglie di», ha sempre avuto un suo percorso. In questo ritrovo mia madre che, anche se in una dimensione diversa, ha sempre vissuto il partito come militante. Di estrazione più popolare, non intellettuale, ogni tanto, prima a mio padre e poi a me, diceva: «voi intellettuali...», ci contestava, tutt’ora mi contesta e spesso, quando vado da lei, mi dice: «ma ’sta finanziaria, nun ve fate capì». In lei ho sempre avuto un interlocutore politico, non è mai stata «la moglie di Giuseppe D’Alema» e meno che mai «la madre di Massimo D’Alema». E in questo senso Bice racconta la sua vita di giovane intellettuale ebrea che prende contatto con il Partito Comunista nell’antifascismo, perché in Italia questo mondo intellettuale trovava nei comunisti quelli che si battevano per la libertà. Il secondo aspetto molto presente nel suo diario è il mondo ebraico e il rapporto con Israele. Emerge con forza la condizione di essere ebrei, perché il legame con Israele è fortissimo, e di essere militanti comunisti e vivere il rapporto con Israele anche con capacità critica. Il dramma di Sabra e Chatila è il dramma di chi, proprio in nome del legame con Israele, non ha accettato quella tragedia. Credo che questo sia un messaggio estremamente attuale. Noi abbiamo bisogno di una comunità ebraica non che si separi da Israele, sarebbe una follia pensarlo e non sarebbe utile a nessuno, ma che sia in grado di esercitare uno stimolo critico. Negli ultimi anni questa capacità si è molto attenuata. Io non ritengo positivo per Israele che le comunità ebraiche abbiano perduto la capacità di esercitare uno stimolo critico sulla politica israeliana affinché la classe dirigente possa affrontare il futuro in chiave non soltanto di sicurezza, ma anche di costruzione di una pace che non può essere fondata sulla convivenza con i vicini. Questo progetto di convivenza si è molto indebolito. Il rapporto in Italia tra mondo ebraico, impegnato nella vita delle comunità, e la sinistra è un rapporto che, se volete, è di lotta su due fronti. Difesa, nella sinistra, delle ragioni di Israele, ma anche stimolo critico, attraverso mille canali, sugli israeliani perché possano muovere verso un orizzonte diverso rispetto alla politica che hanno fatto sin qui, una politica miope innanzitutto per loro, perché se un paese vive circondato da cinquecento milioni di persone che ti odiano, anche avere le bombe atomiche non è una garanzia definitiva di sicurezza. Se fossi un governante israeliano avrei come principale obiettivo creare uno stato palestinese.
Occorre ricordare ancora una volta a D'Alema che Israele ha fatto molti sforzi per arrivare alla spartizione della terra e alla creazione di uno Stato palestinese. Restando agli avvenimenti più recenti: a Oslo, a Camp David, a Taba, con il ritiro unilaterale da Gaza. La risposta palestinese è stata in ogni occasione la violenza terrorista, accompagnata dal sostanziale rifiuto di riconoscere il diritto all'esistenza dello Stato degli ebrei.
In questo libro c’è anche la grande testimonianza di un mondo ebraico democratico che oggi io vedo meno forte, meno protagonista, meno in grado di esprimersi nel dibattito pubblico.
D'Alemasi ostina avoler dividere il mondo ebraico in "democratico" e "non-democratico ". Democratico è chi la pensa come lui, non-democratico chi dissente. Una concezione da "democrazia" popolare est-europea, prima della caduta del muro.
Il terzo e ultimo aspetto che emerge dalle pagine di questo libro è il segno della sofferenza di Bice e un grande pudore nell’affrontarne gli aspetti privati, sia quelli legati alla scomparsa così prematura di Gerardo, che le vicende più recenti, che hanno segnato la sua vita, il suo rapporto con le figlie, di grande orgoglio, ma anche di dolore. Ciononostante è un libro proiettato verso il futuro, perché è lo specchio della vita di una donna non conservatrice, non nostalgica. Il passato è vissuto con consapevolezza, senza pentimenti e senza rimpianto, ed è forte la capacità di vedere il cambiamento in modo positivo, con una proiezione verso il futuro e il rapporto con le nuove generazioni. La generazione di Bice, ed è un tratto originale proprio dell’esperienza del comunismo italiano, non si è mai fatta imprigionare in uno schema culturale, ideologico. Ricordo lo shock che provai il giorno in cui Occhetto propose la svolta della Bolognina e il cambiamento di nome. Andai da mio padre, iscritto al Pci dal 1936, che mi disse: «Benissimo, dovete cambiare. Se non cambierete, tutto quello che noi abbiamo fatto rischia di essere travolto dalla tragedia dell’Unione Sovietica, dal crollo di quei regimi...». Questo spirito è presente con forza nel libro. La sinistra è un insieme di valori, è una testimonianza, ma non è una teca in cui conservare bandiere e cimeli. È cultura della trasformazione, non un insieme di princìpi da custodire. Bice Foà Chiaromonte rappresenta bene questo modo di concepire il rapporto con la società, con la storia, un rapporto fatto di curiosità, di apertura all’innovazione, di grande libertà individuale, grande libertà di confronto e di discussione. Perché il mondo della sinistra italiana non è mai stato in definitiva chiuso, pragmatico, ma sempre disponibile al dialogo. Perché questi personaggi discutevano. Ricordo un seminario di studenti ad Ariccia, allora ero ragazzo, organizzato in preparazione del XII congresso, in cui c’erano tutti i più importanti quadri del Partito, da Amendola a Natta. Doveva essere un dibattito, ma noi contestammo tutto, a partire dalla organizzazione dei lavori: «Ci volete far parlare della scuola, ma noi vogliamo discutere della strategia del partito, il rapporto con i movimenti di massa, la struttura del partito, la sua collocazione internazionale». Presentammo un ordine del giorno che diceva: «L’assemblea si sospende e ci si divide in gruppi di lavoro per approfondire tutti i temi». Mettemmo ai voti, vincemmo e loro dissero benissimo, discutiamo. Io avevo diciotto anni, «loro» erano i «mostri sacri», ma si divisero in gruppi di lavoro e passammo tre giorni e tre notti in discussioni e battaglie. Era un gruppo dirigente che aveva questa capacità. Poi, naturalmente, ti davano anche delle legnate da matti, non ci andavano leggeri. Occhetto, che fu considerato responsabile dell’accaduto perché era membro della segreteria, fu mandato a fare il segretario della federazione di Palermo. Non era un partito all’acqua di rose, però c’era la passione per il confronto, la disponibilità a misurarsi con le idee. E questo era molto formativo per la nuova generazione. Gran parte della generazione del sessantotto è confluita lì e ha finito per occupare un enorme potere e stazionarvi per un tempo che oramai è eccessivo. E loro percepirono che con quella generazione ci si doveva misurare perché era espressione di una rottura sociale, culturale, non era un fatto puramente biologico. Questa ultima, invece, è una generazione dominata più dai timori che dalle speranze, questa è la verità. La mia generazione aveva l’idea di un futuro possibile, ora invece è forte il timore per un futuro incerto, minacciato da grandi problemi che vanno dall’ambiente al terrorismo. Ho trovato in questo libro le memorie di una persona aperta, progressista, che si misura con le sfide senza lasciarsi schiacciare né dal rimpianto e neppure dalle ragioni della sofferenza personale. Il messaggio che ne viene fuori è un messaggio di fiducia, di speranza e di curiosità verso un mondo che cambia.
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