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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
19.12.2006 "Non possiamo perdere in Iraq"
l'America ridefinisce la sua strategia

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Christian Rocca
Titolo: «Gates: vietato perdere in Iraq - Bush manderà più forze in Iraq e sta cercando per loro una nuova missione»
Da La STAMPA del 19 dicembre 2006:

«Andrò presto in Iraq, dove non possiamo perdere perché sarebbe una calamità per l’America». Con quest’impegno Robert Gates ha giurato come nuovo ministro della Difesa, insediandosi al Pentagono mentre a Washington è in atto un duro scontro testimoniato dall’opposizione di Hillary Clinton e Colin Powell all’idea della Casa Bianca di aumentare le truppe per porre fine alle violenze.
L’imminente viaggio in Iraq è il primo passo su cui Gates conta per «consultare i comandanti sul campo» e poter quindi consegnare nella mani del presidente George W. Bush le raccomandazioni sulla «svolta strategica» da compiere nel 2007. La posta in palio non potrebbe essere più alta. «Tutti noi vogliamo trovare la maniera per riportare a casa i figli e le figlie dell’America - ha detto il neoministro, che ha giurao due volte, prima nelle mani del vicepresidente Dick Cheney e poi in quelle di Bush - ma non possiamo permetterci di fallire in Iraq perché sarebbe una calamità per la nazione, indebolirebbe la nostra credibilità e metterebbe a rischio l’America negli anni a venire».
E’ un linguaggio che punta a chiedere ad amministrazione e Congresso di fare quadrato, anche se al momento tutto sembra portare allo scontro perché la volontà del presidente di aumentare le truppe in Iraq non trova il consenso dei democratici, da gennaio maggioranza al Congresso e dunque in grado di gestire la destinazione dei fondi. A contestare apertamente l’aumento delle truppe è stata Hillary Clinton, dicendosi contraria ad un «incremento di breve termine delle truppe se non sarà accompagnato da una strategia più ampia per stabilizzare l’Iraq». Parlando ad un talk show della tv Nbc Hillary ha detto di «non essere più disposta a fidarsi del presidente», come fece nel 2002 quando votò a favore dell’intervento militare in Iraq, chiedendo in cambio del sostegno a Capitol Hill «garanzie per la mia familia, il mio partito e la mia nazione».
Al proprio fianco Hillary ha l’ex Segretaro di Stato di Bush, Colin Powell, che in un’intervista quasi contemporanea ha aggiunto altri elementi contro l’invio di nuovi soldati. «Non sono convinto che un aumento di truppe basterebbe a bloccare la guerra civile» ha detto, aggiungendo preoccupazione sul rischio che «le forze armate già alle prese con troppi impegni» possano «rompersi» del tutto a seguito dell’invio di altre truppe al fronte. «L’attuale esercito e i marines non sono grandi abbastanza per affrontare i compiti che gli sono stati assegnati» ha sottolineato Powell, ex generale già capo degli Stati Maggiori Congiunti durante la Guerra del Golfo del 1991, quando alla Casa Bianca c’era Bush padre.
Il duello sull’aumento di truppe è il primo ostacolo da superare per Gates, capo della Cia ai tempi di Bush padre, interprete di una politica di sicurezza ispirata alla realpolitik e per questo designato da George W. Bush a succedere a Rumsfeld al fine di gettare un ponte verso i democratici, usciti vincitori dalle elezoni di Midterm. Per Gates si tratta di un inizio tutto in salita: oltre al duello Hillary-Bush si trova di fronte comandi militari che hanno già deciso di inviare altri 3500 soldati in Kuwait nonché un Congresso dove i leader più in vista hanno posizioni molto contrastanti.

Dal FOGLIO:

Milano. E’ ormai certo che a gennaio George W. Bush annuncerà un nuovo piano militare per l’Iraq che avrà come punto centrale l’invio a Baghdad di altri 30/50 mila soldati americani. Sembra altrettanto sicuro che la strategia militare della Casa Bianca, elaborata in questi giorni di frenetici vertici con esperti militari e civili, rigetterà le indicazioni della commissione Baker, secondo cui Washington dovrebbe accelerare l’addestramento dell’esercito iracheno e prepararsi a un disimpegno non solo militare, ma anche politico attraverso il coinvolgimento di Iran e Siria. Più probabile che Bush e il nuovo segretario alla Difesa, Bob Gates, che ha preso servizio ieri mattina, prenderanno spunto dalle conclusioni di un altro rapporto, anticipato dal Foglio la settimana scorsa, scritto dall’analista dell’American Enterprise Institute Frederick Kagan e dall’ex capo di stato maggiore dell’esercito Jack Keane.
I due strateghi militari propongono di aumentare le truppe in Iraq, ma soprattutto di cambiare la missione, ovvero di mutare la natura stessa della presenza americana in Iraq. Oggi i soldati della coalizione internazionale di stanza in Iraq stanno perlopiù chiusi dentro le basi e forniscono attività di supporto, addestramento e sostegno al nuovo esercito iracheno. Ogni volta che gli americani si impegnano in operazioni di riconquista di città, zone o quartieri caduti in mano a terroristi o ai nostalgici del dittatore, subito dopo la liberazione – come è accaduto a Fallujah, a Samarra e due volte a Baghdad – passano il bastone di comando al governo iracheno, il quale però è ancora incapace di mantenerne il controllo. Così, dopo poco tempo, i ribelli e i nemici dell’Iraq libero riconquistano le posizioni iniziali. Alla base della strategia di Kagan e Keane c’è la convinzione che la mancanza di sicurezza nelle strade finisca per imbrigliare il processo politico, fino a condurlo al fallimento. Da qui l’idea di ripulire Baghdad e la provincia di Al Anbar, di tenerne direttamente e militarmente il controllo e di avviare seduta stante l’attività di ricostruzione, provando a infondere fiducia tra la popolazione e a garantire la sicurezza ai cittadini.
L’analista militare Ralph Peters, sul New York Post di ieri, non è del tutto convinto delle reali intenzioni di Washington. Teme che l’idea di inviare più truppe sia soltanto una nuova moda dei centri studi e che non segnali una necessaria e reale inversione di rotta e una volontà strategica di combattere sul serio. Il generale Keane, dopo aver definito “spazzatura” la posizione di chi crede che l’esercito americano non possa sconfiggere i terroristi iracheni, ha detto chiaramente in tv che questo dovrà essere l’obiettivo e che ci vorranno mesi, se non un anno, per ripulire e stabilizzare Baghdad, prima di passare alle altre zone. Secondo Peters, 40 mila uomini in più potranno fare la differenza, ma soltanto se avranno una missione chiara, strumenti adeguati, un approccio di “tolleranza zero” e se i politici a Washington saranno in grado di sostenere queste dure operazioni militari senza esitazioni di fronte alle prevedibili critiche della stampa e al probabile aumento delle vittime.

L’Herald Tribune svela il mito di Svengali
Sono favorevoli all’invio di più truppe John McCain e Rudy Giuliani e, con qualche caveat, anche il leader democratico al Senato, Harry Reid, e il presidente della Commissione intelligence della Camera, Silvestre Reyes. Sono contrari, invece, Hillary Clinton e l’ex segretario di stato Colin Powell. La mossa di Hillary, considerata una falca sulle questioni irachene, sembra dettata dalla necessità di ammorbidire la sua posizione in vista delle primarie del Partito democratico. Il caso Powell è diverso. Ieri l’Herald Tribune, in una column di Richard Bernstein, ha smontato il mito di Svengali affibbiato ai neoconservatori, cioè l’idea che un gruppo di intellettuali malvagi – esattamente come il personaggio reso famoso da un romanzo di George du Maurier – abbia dirottato la politica estera americana costringendo con l’inganno Bush, Rumsfeld e Powell a compiere azioni che non avrebbero voluto fare. Bernstein ha ricordato come la stessa cosa non sia stata detta ai tempi della guerra del Kosovo, anch’essa sostenuta dai neoconservatori. E ha ricordato che le prove delle armi di Saddam sono state presentate all’Onu da Powell, non dai neocon. Domenica mattina Powell ha detto di essere contrario all’invio di altre truppe, eppure porta il suo nome la “dottrina Powell della forza schiacciante”, ovvero l’idea – poi rigettata da Rumsfeld – che le guerre si combattono con un’enorme sproporzione di forze e di risorse rispetto al nemico.

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