Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
I palestinesi si accordino al più presto e al più presto ricomincino a sparare sugli israeliani: la linea dei due quotidiani
Testata:Il Riformista - Il Manifesto Autore: Paola Caridi - Michele Giorgio Titolo: «Le elezioni dell'Anp per ora sono solo uno spauracchio - «Pressioni esterne contro l'accordo, questa crisi viene da fuori»»
L'Europa e la "casa araba" dovrebbero favorire un accordo in extremis tra Al Fatah e Hamas, sottraendo i palestinesi alle pressioni, giudicate equivalenti, dell'"asse occidentale" da un lato e di Damasco e Teheran dall'altro. E' la tesi di Paola Caridi sul RIFORMISTA del 19 dicembre 2006. Che sottovaluta completamente il fatto che Hamas vuole la distruzione di Israele e non rinuncia al terrorismo. Ecco il testo:
Gerusalemme.A giudicare da quel che si vede, tutto sembra muoversi, in questi giorni, meno la macchina elettorale palestinese, che dovrebbe preparare le consultazioni volute dal presidente Mahmoud Abbas e dai maggiorenti di Fatah nel più breve tempo possibile. A darsi un gran daffare, invece, sono gli uomini in armi. E non solo e non tanto quelli di Hamas. Parecchio attivismo c’è, per esempio, da parte di Forza 17, la guardia presidenziale sostenuta da mesi dal punto di vista economico e dell’equipaggiamento (e con grande evidenza mediatica) dall’amministrazione di George W.Bush.E attivismo c’è anche da parte di un gruppo armato che solo fino a poco tempo fa sia americani sia israeliani guardavano come fumo negli occhi: le brigate dei Martiri di Al Aqsa. Forza 17 ha continuato, anche dopo il raggiungimento del fragile cessate il fuoco di domenica sera, a ingaggiare piccole prove di forza contro i miliziani di Hamas a Gaza: non ha perso occasione per mostrare armi nuove e divise tirate a lucido, ha occupato i tetti di due ministeri per poter controllare meglio il compound presidenziale, si è scontrata con le guardie del dicastero di Mahmoud AZahar, uno dei leader di Hamas che in questi ultimi giorni di prove di guerra civile si è dimostrato allo stesso tempo uno dei protagonisti e uno dei bersagli. Solo punzecchiature di spillo, per ora, forse per far capire che - nonostante Gaza sia considerata da tempo roccaforte incontrastata di Hamas - Forza 17 c’è e può dar fastidio. I Martiri di Al Aqsa, dal canto loro, si sono fatti vedere soprattutto in Cisgiordania. E hanno deciso una precisa scelta di campo dopo il lungo discorso con il quale Mahmoud Abbas ha annunciato elezioni anticipate, lasciando solo in parte l’ambiguità di un gruppo armato che è stato in tutti questi mesi con un piede nella resistenza. Si sta col presidente, e per rendere la scelta di campo ancor più evidente, si mette in piedi una manifestazione in piena regola nella roccaforte dell’ala militare di Fatah, a Jenin, e alla presenza di due personaggi importanti: Zakaria Zubeidi, in testa alla lista dei ricercati da Israele, e decisamente parco nel mostrarsi in pubblico proprio per evitare di finire nel mirino di Tsahal. Accanto a lui, l’uomo che in questi giorni si è dimostrato essere uno dei consiglieri più ascoltati da Abu Mazen. Mohammed Dahlan, che con la fedeltà ritrovata e mediatizzata di Zubeidi si è conquistato un perno importante negli equilibri “militari” dentro la Cisgiordania. Hamas non ha fatto grande sfoggio di forza militare, almeno sinora. Forse per non spingere ancor di più sull’acceleratore del confronto con Fatah.O forse perché anche in questi giorni Hamas continua a mostrare le proprie divisioni. Quelle divisioni che l’hanno resa debole per tutti i suoi mesi al governo, da quando la leadership gaziana ha subito il rapimento del caporale Gilad Shalit, nel momento di maggiore apertura verso il compromesso con Fatah, sino alla decisione, presa da Hanyeh, di non abbandonare a Teheran i triti slogan antiisraeliani per non perdere la sicura sponda iraniana a vantaggio di una possibile sponda arabo-moderata o addirittura europea. Comunque sia, ciò che sinora si è visto corrisponde a quello che Mahdi Abdel Hadi, il direttore del think tank palestinese Passia, traccia come lo scenario numero uno. Una situazione che ricorda molto il Libano di oltre 30 anni fa, il Libano del 1975, dove signorotti della guerra vecchi o appena arrivati danno la stura alla teoria di eventi tipici della guerra civile: scontri a fuoco, assassini, rapimenti, caos generalizzato ma non totale. Uno scenario tipico, dunque, che però non può durare a lungo, e che per forza di cose deve tramutarsi in qualche altra cosa. Due le ipotesi: che il primo scenario si trasformi in un panorama più simile a quello del Libano 2006, con Abu Mazen nella parte di Fuad Siniora, e cioè di rappresentante istituzionale sostenuto dall’Occidente ma comunque debole e senza un forte seguito popolare; oppure che le prove generali di guerra civile intrapalestinese portino a una separazione definitiva tra Gaza (lasciata al suo destino dagli occidentali come una vera e propria Hamasland) e Cisgiordania, dove invece la presidenza Abu Mazen gestirebbe una deriva moderata e l’inizio di un dialogo con gli israeliani. In tutti questi scenari, manca però un elemento, sbandierato invece in questi giorni o come la panacea per risolvere tutti i mali palestinesi, oppure come il simbolo di un golpe istituzionale che mette da canto la volontà popolare che si era già espressa poco meno di un anno fa. Le elezioni anticipate, promesse da Fatah molte settimane fa, ben prima che fossero considerate abortite le trattative per il governo di unità nazionale. Anzi, a ben vedere, cercate in tutti questi mesi da Fatah, che non ha fatto mistero di non accettare fin dall’inizio il risultato elettorale del 25 gennaio scorso, considerando la schiacciante vittoria conquistata da Hamas solo come lo scherzo di un sistema elettorale voluto dallo stesso partito nazionalista ma gestito male. Sin dall’indomani di quelle consultazioni (che i sondaggisti palestinesi avevano invece previsto come un successo per Fatah), il partito nazionalista aveva fatto sapere a più riprese - soprattutto agli interlocutori occidentali - che l’unica soluzione sarebbe stato aspettare qualche mese e, appena possibile, rifare le elezioni per liberarsi di un accidente della storia com’era stata la vittoria di Hamas e l’esautorazione (per la prima volta) di Fatah dai gangli del potere. Con uno scarto minimo di pochi mesi rispetto a una tabella di marcia che già si conosceva la scorsa primavera, le elezioni anticipate sono state tirate fuori dal cappello a cilindro. Il giorno dopo il ritorno di Ismail Hanyeh dal suo tour regionale, in cui grande risalto era stato dato (da tutti) alle frasi pronunciate dal premier a Teheran e a Damasco. E poco risalto, invece, alla legittimazione che Hanyeh aveva cercato in casa araba, sia scegliendo il Cairo come prima, necessaria tappa per guadagnarsi qualche appoggio nelle capitali che contano, sia passando molto tempo a Doha, e non solo perché lì c’è anche Al Jazeera. Quel tentativo di avere il sostegno arabo era stato il centro del discorso di Hanyeh, al suo rientro a Gaza, alla gente di Hamas riunita allo stadio. Per questo motivo non è casuale che Abu Mazen abbia tenuto il suo discorso di rottura completa con Hamas il giorno dopo il ritorno rocambolesco di Hanyeh a Gaza. Se c’era un risultato da raggiungere, era quello di sminuire qualsiasi legittimazione del governo a guida Hamas, fuori e dentro i Territori palestinesi. Il risultato Abu Mazen lo ha certamente raggiunto, ma sulle sue spalle è piombato un sostegno “senza se e senza ma” - quello americano e britannico, sancito ieri anche dalla visita di Tony Blair - che non ha solo risvolti positivi ma, soprattutto sul piano interno della legittimazione popolare, ha anche molti lati decisamente negativi. Avere l’appoggio dichiarato di una certa parte dell’Occidente, in Palestina come anche in Egitto o nelle altre capitali arabe, significa in questa parte del mondo essere considerati poco legati alla propria indipendenza nazionale, se non addirittura guadagnarsi l’epiteto di venduti a una visione neocolonialista del Medio Oriente. In una situazione così delicata, ci sono solo alcuni attori che possono cercare di fare qualcosa perché la Palestina non si trasformi in un’altra Algeria o in un altro Iraq oppure in un piccolo Libano. C’è forse qualche capitale europea, come ha ben segnalato Mustafa Barghouti, l’esponente più famoso della società civile palestinese nonché negoziatore intelligente del tentativo più serio di governo di unità nazionale, con i suoi incontri di Bruxelles per perorare la causa (persa?) della Grossekoalition versione palestinese e per rigettare come impraticabili le elezioni anticipate (per svolgerle, dice, manca un elemento fondamentale come il consenso nazionale). Nel carniere degli attori possibili ci sono, soprattutto, le capitali arabe - quelle che Abdel Hadi chiama “la casa araba” - che nel caso palestinese debbono riuscire a spegnere sul nascere i fuochi già accesi del conflitto tra fratelli in armi. Gli arabi, in questo caso sauditi ed egiziani, e perché no anche qatarioti, debbono riuscire nel difficile compito di liberare i palestinesi dalla tenaglia in cui rischiano di finire, stretti nel Gran Gioco del Medio Oriente tra il polo americano-israeliano, da un lato, e quello siroiraniano, dall’altro. Perché la guerra civile non conviene a nessuno, dicono oggi in tanti, ma nessuno sembra aver fatto molto per evitarla, fuori e dentro i Territori palestinesi.
Non casualmente Paola Caridi cita Mustafa Barghouti, esponente della "società civile palestinese" e "mediatore tra Fatah e Hamas in realtà, secondo molto, strettamente legato al gruppo islamista. Ecco il testo dell'intervista da lui rilasciata a Michele Giorgio del MANIFESTO . Lesue tesi sono esattamente quelledella Caridi.
Mustafa Barghuti non ci sta. «Una guerra civile sarebbe assurda, il nostro popolo non la merita dopo tanti decenni di sofferenze e delusioni», dice con tono perentorio, denunciando «pressioni esterne» che, a suo dire, hanno impedito l'accordo per un governo palestinese di unità nazionale. Il deputato progressista e leader di «Iniziativa nazionale», che due anni fa sfidò Abu Mazen alle presidenziali (ottenne circa il 20% dei voti), è stato negli ultimi mesi uno dei principali mediatori nella lunga trattativa che avrebbe dovuto portare alla nascita del nuovo esecutivo palestinese, con Hamas e Al-Fatah seduti intorno allo stesso tavolo. Poi, quando l'accordo sembrava ormai a portata di mano, qualcosa è andato storto. «Ma è ancora possibile formare il nuovo governo con tutte le forze palestinesi, è la strada che dobbiamo seguire per evitare di fare il gioco di chi punta proprio sulle nostre divisioni interne». Ieri abbiamo raggiunto telefonicamente Barghuti.
Lei parla di pressioni esterne che avrebbero impedito a Hamas e Al-Fatah, i due principali partiti, di finalizzare l'intesa sul nuovo governo. A cosa si riferisce? In questi mesi ho trascorso gran parte del mio tempo girando come una trottola tra Gaza, Cisgiordania, Siria e altri paesi con l'unico scopo di aiutare ad accorciare le differenze e a formare il governo di unità nazionale. Ebbene, posso assicurare che l'accordo era fatto, le parti avevano trovato un'intesa praticamente su tutti i punti. Poi sono intervenute pressioni esterne fortissime che hanno impedito ai palestinesi di mettere fine ai loro contrasti e di trovare una piattaforma comune.
Può essere più preciso? A chi si riferisce quando parla di pressioni esterne? Non posso essere più preciso e fare dei nomi perché finirei per causare un danno grave alla causa palestinese. Aggiungo soltanto che entrambi le parti (Hamas e Abu Mazen, ndr) hanno subìto queste pressioni provenienti ovviamente da origini diverse. Alla fine hanno detto basta ad un accordo destinato a risolvere gran parte dei problemi interni palestinesi.
Si è detto che l'accordo per il nuovo governo è saltato a causa della disputa tra Abu Mazen e Hamas sul riconoscimento di Israele. Lei conferma? Non è vero, io ho partecipato alla trattativa e garantisco che il riconoscimento di Israele non è stato il motivo del fallimento dei colloqui. Hamas infatti aveva accettato che alla base del programma del nuovo esecutivo ci fosse il Documento di riconciliazione nazionale (scritto dai prigionieri politici palestinesi in carcere in Israele, ndr) che prevede una sorta di riconoscimento indiretto, piuttosto vago, dello Stato ebraico. È una formula che consente al movimento islamico di far parte del governo senza entrare in contraddizione con la sua ideologia. Le trattative quindi sono andate avanti con regolarità per poi a spezzarsi all'improvviso senza alcun motivo di contrasto grave. Le due parti hanno detto di non aver raggiunto un accordo sulla composizione della lista di ministri ma questo è solo un pretesto perché il motivo vero è strettamente legato alle pressioni esterne.
Niente problemi sui nomi dei ministri, eppure è noto che Hamas non vuole tecnocrati ma esponenti politici nel nuovo esecutivo, oltre a voler conservare la poltrona di primo ministro e di ministro delle finanze. Ripeto, i nomi dei ministri non sono mai stati un problema, alla fine una intesa sarebbe stata raggiunta senza traumi particolari. Il no alla chiusura dell'accordo è venuto dall'estero e ha avuto un grosso impatto sulle decisioni che hanno preso Hamas e il presidente Abu Mazen.
Ma è ancora possibile formare il governo di unità nazionale? Certo, è sempre possibile, a patto che il dialogo riprenda dal punto in cui si è interrotto. Altrimenti si potrebbe perdere tempo prezioso a tutto vantaggio di coloro che soffiano sul fuoco dei contrasti interni e vorrebbero vedere una guerra civile palestinese. È necessario inoltre che i nostri leader politici, in particolare quelli delle due fazioni principali, non si pieghino più alle pressioni esterne ma pensino solo all'interesse nazionale palestinese.