Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Un accordo tra Abu Mazen e Hamas renderebbe impossibile la pace analisi sulla crisi palestinese
Testata:Il Giornale - Il Foglio - Libero Autore: Fiamma Nirenstein - Carlo Panella - Angelo Pezzana Titolo: «Gaza e il voto che nessuno vuole - Due Palestine, il caos - Abu Mazen attento, è la fine se ti accordi con gli islamici»
Dal GIORNALE del 19 dicembre 2006, una rticolo di Fiamma Nirenstein:
Da mezzogiorno di ieri, la fragile tregua stabilita poche ore prima fra Hamas e Fatah è svanita fra il rinnovarsi degli spari, dei morti e dei feriti. Il mondo, vedendo Blair in visita da Abu Mazen e sentendo quest'ultimo invitare Olmert a parlare, cerca di aggrapparsi ancora alla speranza. Ma dove può fermarsi lo scontro in atto tra le due fazioni storiche dei palestinesi e a che cosa può portare nel conflitto con Israele? Bisogna, per capire, accettare di mettere in giuoco il nostro stesso assetto mentale rispetto al conflitto mediorientale: niente è più ciò che era nel Medio Oriente, nessuno schema antiquato regge alla dura sfida della realtà odierna. Quindi, se non vogliamo che le opinioni dell'Europa e dell'Italia in particolare risultino irrilevanti rispetto alla ricerca della pace, è indispensabile rinnovare il nostro pensiero. Un'organizzazione che si sente dipendente solo dagli ordini divini, Hamas, è arrivata al potere. Con questo ha a che fare Abu Mazen e il mondo. Per esempio, lo spiega un importante rappresentante di Fatah, Sofian Abu Zaide, ex ministro per i prigionieri, proprio ieri rapito e rilasciato nel giro di poche ore a Gaza: «Con Hamas nel passato abbiamo già avuto scontri terribili: qualcuno ricorderà che Arafat fece imprigionare alcune centinaia dei suoi militanti. Ma non è mai accaduto che i suoi uomini abbiano ammazzato a sangue freddo tre bambini perché figli di uno dei nostri; né che, come è accaduto domenica notte, da un campo profughi sia stato trascinato a morire un quarantenne sconosciuto in mezzo alla sua famiglia. Non è mai accaduto prima che si sia arrivati a sparare a un primo ministro, né che siano state assediate le abitazioni del Presidente, e nemmeno di personaggi come Mohammed Dahlan... Lo sfondo di tutto questo è l'accusa fatale che Hamas fa a noi, i laici nazionalisti di Fatah, di essere non traditori, come hanno detto in passato, o incapaci nella lotta contro il nemico comune. L'accusa oggi è quella di essere kafir, miscredente, un rinnegato rispetto all'Islam». Di fatto, questa è la novità che, per esempio, è tanto temuta in Egitto dal potere vigente: che gli integralisti islamici prendano il potere, e lo gestiscano secondo regole che ritengono promanare direttamente da Dio e di cui essi pensano di essere i diretti interlocutori. Una tale fede nel campo palestinese dominato un tempo da nazionalisti laici, è nuova. Dice Abu Zaide, in sostanza, che per Ismail Haniyeh, il ministro in carica dall'anno scorso, e per i suoi, e ancor più per Khaled Masha'al che sedendo a Damasco ha direttamente a che fare con i capi della jihad internazionale, contano, più dei bisogni dei palestinesi, gli ordini di Ahmadinejad. L'orizzonte dello Stato palestinese è molto secondario rispetto a quello dell'Ummah dei credenti. Ogni compromesso rispetto all'idea di condividere quella che per loro è terra islamica con gli ebrei e con l'Occidente in generale, è semplicemente inconcepibile. Il gioco di squadra con l'Iran è ritenuto da Hamas una garanzia e anche un dovere. Hamas non ha nessun interesse, se non nell'immediato, finché non sia sicuro di tenere in pugno tutti i palestinesi, alla democrazia in quanto tale. Tuttavia in base alle regole democratiche istituite con le elezioni, Hamas ha conquistato il governo: finché Hamas pensa che questo le dia una buona carta per ricevere eventuali finanziamenti dal mondo la democrazia serve. Ma Abu Mazen ha deciso di andare a vedere questo giuoco: una volta stabilito che la priorità di Hamas è la vittoria di Dio e non dei palestinesi, ha proposto di andare alle elezioni e quindi di fermare una collaborazione di fatto inesistente. Di fatto, le sue proposte per un governo di coalizione sono tutte fallite. Ma Abu Mazen intende andare veramente alle urne? Non gli sarà facile nei fatti, perché Hamas non vuole, e forse anche lui non lo desidera. Le elezioni potrebbero dare a Hamas una vittoria che gli darebbe la Presidenza oltre al Primo ministro: il potere totale. Quello che col suo giuoco pericoloso Abu Mazen cerca di fare nell'immediato è piuttosto segnalarsi come leader che può restituire legittimità internazionale e quindi benessere ai palestinesi, e riproporli come interlocutori per l'Occidente. Ma Hamas non ci sta, e dopo aver respinto il governo di coalizione, lo accusa di golpe se andrà alle urne. Il governo gli è sempre più caro. Ormai sul terreno ci sono i ben 250 milioni di dollari promessi a Haniyeh per i prossimi sei mesi, e soprattutto c'è la percezione di aver trovato nell'Iran uno Stato guida che promette di distruggere Israele, il suo «retroterra strategico», come ha detto. Bisogna anche considerare che per Hamas la vittoria democratica che esso ha tanto esaltato quando si è trattato di proporsi al mondo come legittimo indirizzo per ricevere i fondi internazionali, non è che un momento di passaggio verso la vittoria dell'Islam, e non ha valore di per sé. Hamas nel rifiutare le condizioni del Quartetto (riconoscere Israele e i patti conclusi con esso, rinunciare al terrorismo) non fa altro che il suo mestiere di parte integralista islamica: ogni proposta di hudna temporanea non è che un trucco per ottenere che l'«Entità sionista» lo lasci riprendere fiato e armarsi fino ai denti per lo scontro finale. Alla fine, di fatto, né Abu Mazen né Haniyeh hanno interesse a spararsi nelle strade fino a sfinirsi, ma la via d'uscita è difficile; quello che potrebbe accadere è stato segnalato ieri dal missile kassam che Hamas ha trovato il tempo di sparare contro un kibbutz del Negev occidentale da Gaza. Se si alzerà il livello dello scontro con Israele, Tzahal compirà azioni per fermare gli attacchi e l'unità palestinese si ricostruirà nell'escalation contro Israele. Israele si aspetta una crescita del terrorismo nei prossimi giorni. Intanto, in uno stadio intermedio, ci si può aspettare che le due parti decidano di consolidare il loro potere l'una a Gaza (Hamas) e l'altra nel West Bank (Fatah), tenendo in ostaggio gli uomini delle forze avverse che vivono di qua e di là. Hamas può puntare a fare di Gaza una repubblica islamica ripulita dai kafir di Fatah, e il West Bank può essere la mano palestinese che intrattiene rapporti con l'Occidente e parla con Israele, ricevendone in cambio aiuti e armi. Le elezioni, che nessuno vuole veramente, saranno rimandate. La speranza europea, americana e israeliana in Abu Mazen troverà terribili ostacoli sulla sua strada, tanti quanti ne pone l'integralismo islamico in tutto il mondo. La democrazia che tutti seguitano a evocare sarà ancora a lungo lo scenario controverso della minaccia dei Kalashnikov. Insomma: affrontare la questione israelo-palestinese oggi non ha più a che fare solo con le intenzioni e la buona volontà delle due parti.
Dal FOGLIO, un articolo di Carlo Panella:
Roma. Lungamente soppesata in molte sedi internazionali, la decisione di Abu Mazen di indire elezioni anticipate non ha nulla a che spartire con l’invalidamento delle elezioni politiche del 1991 in Algeria. Ancora meno con l’accusa di colpo di stato avanzata da Hamas. Non si è mai visto infatti l’autore di un golpe che, nel momento stesso in cui lo proclama, mette anche a disposizione il proprio mandato presidenziale e si sottopone al giudizio degli elettori (offrendo peraltro a Hamas la possibilità teorica di ottenere il controllo del Consiglio esecutivo e della presidenza dell’Anp). Sia pure non prevista dalla Carta dell’Anp, la decisione di Abu Mazen è stata inoltre confortata dal preventivo appoggio politico dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e della Giordania, oltre che degli Stati Uniti e della Gran Bretagna – il premier inglese, Tony Blair, era ieri a Ramallah per dare subito appoggio a Abu Mazen – col consueto assenteismo dell’Europa. Inappuntabile sul piano sostanziale – il governo di Ismail Haniye è stato rimosso perché non ha rispettato il mandato presidenziale ricevuto e rifiuta di rispettare gli accordi internazionali già sottoscritti dall’Anp –, questa decisione apre una pagina drammatica in Palestina. Chi conosce la società palestinese sa bene che la maledizione della guerra civile è iscritta nella sua tradizione. Tra il 1936 e il 1939, a fronte dell’offerta inglese di istituire uno stato arabo su quasi tutto il territorio della Palestina, a fianco di un minuscolo stato ebraico di cinquemila chilometri quadrati, il predecessore di Abu Mazen, Ragheb Nashashibi (appoggiato dal re di Transgiordania e dal regno dell’Iraq), accettò, ma il predecessore di Hamas, il gran Mufti, rifiutò. Quel rifiuto provocò tre anni di massacri con i sionisti, con gli inglesi e tra arabi che fecero seimila vittime palestinesi, di cui ben 4.500 uccise da palestinesi. E’ possibile che oggi si ripeta un bagno di sangue, come dimostrano ancora gli scontri di ieri, l’uccisione di un militante di Fatah probabilmente da parte di Hamas e il rapimento, ieri sera, di un ex ministro di Fatah, Sufian Abu Zaida. Il gruppo islamico ha fatto una dichiarazione formale di guerra civile quando ha accusato Mohammed Dahlan, quindi Abu Mazen, di avere tentato di uccidere Ismail Haniye al passo di Rafah. Un’accusa pubblica di questo genere non è ritirabile, soprattutto se è seguita, come è stato, dal tiro di colpi di mortaio sulla residenza ufficiale di Abu Mazen a Gaza. La residenza era notoriamente vuota, ma anche in questo caso, come nel caso dell’accusa mossa a Dahlan, conta la simbologia del gesto. Qualsiasi cosa accada, è agli atti che Hamas ha ufficialmente accusato Abu Mazen di avere dato il mandato a Dahlan di uccidere Haniye e che Hamas stessa ha volutamente bombardato la sede ufficiale di Abu Mazen. Il tutto in una dinamica che mostra come Hamas tenti oggi con forza (e con gli omicidi mirati) di costringere Dahlan e le forze di sicurezza di al Fatah o a lasciare Gaza o quantomeno ad arroccarsi in una porzione assediata del territorio, in modo da lasciarle il pieno controllo politico (anche sul voto) dell’intera Striscia. I consistenti appoggi in armi, addestramento e denaro che Haniye ha appena ottenuto col suo viaggio in Iran e Siria puntano a rafforzare al massimo la sua presa su questa porzione di Palestina. E’ quindi prevedibile che, di qui alle elezioni, si combatta quella “battaglia per Gaza” dall’esito contrastato che purtroppo è in gestazione da almeno un anno e che l’Egitto – non controllando il traffico d’armi – non ha neanche tentato di impedire. La fortezza della Cisgiordania Lo scenario in Cisgiordania è diverso. Hamas lì è minoritario e un’oculata politica di Israele potrebbe effettivamente aiutare molto Abu Mazen. Se ai finanziamenti cospicui che l’Europa dovrebbe immediatamente versare al presidente dell’Anp (come da lui oggi chiesto a Blair) si aggiungesse un’oculata liberazione di prigionieri politici da parte israeliana (come chiesto a Ehud Olmert), il contagio di sangue nella Cisgiordania dovrebbe essere contenuto. Resta naturalmente sempre aperta la porta della mediazione – che Abu Mazen continua a offrire ad Hamas -– ma con scarsa probabilità di successo sostanziale. Anche se in extremis, a fronte di nuovi incidenti e nuovi morti, si siglasse un accordo per un governo tecnico, lo scoglio del non riconoscimento di Israele – solennemente riproclamato da Haniye a Teheran – rimarrà insuperabile, così come il baratro di diffidenza che si è spalancato dopo questi mesi di inutili trattative, conclusi con accuse reciproche di tentato omicidio tra leader. Hamas continua a dichiarare, per bocca del suo leader Khaled Meshaal, che non parteciperà al voto indetto dall’Olp. Lo scenario di due governi palestinesi – uno egemone a Gaza, l’altro in Cisgiordania – è dunque ormai possibile e forse è anche quello su cui si fermerà la mediazione da qui a qualche mese. Resta soltanto da vedere a quale prezzo. Elemento non secondario per un contenimento di questa deriva è oggi la pressione internazionale. Hamas, spalleggiato da Iran e Siria, forte di Hezbollah in Libano, oggi pare non sentirla, ma se i paesi arabi ritrovassero una voce unitaria potrebbero limitare il danno del conflitto interpalestinese. Quanto all’Europa, non dovrà smettere i suoi abboccamenti segreti con Hamas e dovrà arroccarsi dietro ad Abu Mazen, che però considera suo primo interlocutore quell’asse anglo-americano che, con Condoleezza Rice, ha costruito con lui questo percorso sin dal settembre scorso.
Da LIBERO, un articolo di Angelo Pezzana:
I prossimi giorni, forse già le prossime ore, ci diranno se Abu Mazen perderà la sua ultima occasione politica oppure riuscirà a scrollarsi di dosso la nefasta eredità di Arafat e acquisire le sembianze di un vero capo di stato. Tutto dipenderà se saprà respingere il ricatto di Hamas, la polpetta avvelenata del governo di unità nazionale Hamas-Fatah, talmente ben confezionata e presentata da risultare subito accolta con applausi da quella parte degli esperti occidentali che lavorano per accelerare l’avvento della sconfitta della democrazia e della libertà. Se Abu Mazen l’accettasse, il suo peso politico nella politica palestinese sarebbe uguale a zero, essendo le redini del comando salde nelle mani della maggioranza, cioè Hamas. Che, non a caso, respinge anche solo l’ipotesi di elezioni anticipate o di un referendum, definendoli colpo di stato, mentre la loro indizione rientra perfettamente tra i poteri di Abu Mazen. Hamas li vede con il fumo negli occhi, perché sa che quasi sicuramente i palestinesi non ripeterebbero più l’errore dello scorso gennaio, quando votarono in massa per il partito terrorista. E, come si è visto in questi giorni, Hamas è pronto alla guerra civile piuttosto che affrontare l’esame elettorale, che non dovrebbe temere se i palestinesi fossero dalla sua parte, come, mentendo, sostiene. Come è giusto, Israele si astiene dall’intervenire, fossero anche solo dichiarazioni di merito. E’ un affare interno palestinese, sostiene il premier Olmert, il quale non bada minimamente a cosa pensano Massimo D’Alema e Bobo Craxi, due nostalgici del buon tempo che fu di Arafat, o di Prodi, del quale Assad di Siria la pensa così (intervista a Repubblica) : “ Il nostro rapporto è molto migliorato con Prodi al Governo, lo conosco da quando era presidente della Commissione europea ”. Non che Abu Mazen sia il massimo, Daniel Pipes ritiene che tra lui e Hamas le differenze siano minime, ma la scena non offre di meglio. Anzi, potremmo dire che di fronte al panorama post elezioni di medio termine americane, Abu Mazen è molto meglio di tanti politici Usa resuscitati dopo la vittoria dei democratici. Citiamo al primo posto il rapporto Baker-Hamilton. Se Bush lo seguisse – ma ha già affermato di avergli dato appena una scorsa – gli stati canaglia ne ricaverebbero enormi vantaggi. I due intelligentoni raccomandano infatti, tra le prime cose da fare per riportare l’ordine in Medio Oriente, l’apertura del dialogo con Siria e Iran, che è come dire affidare le probabilità di vittoria della democrazìa nelle mani di chi sta manovrando per distruggerla. Un rapporto giudicato negativamente anche dal governo iracheno, che non sa quali altre parole trovare per dire alle forze alleate, inglesi e americane per prime, di non andarsene, di restare, perché solo con la loro presenza, meglio se rafforzata, sarà possibile sconfiggere i terroristi. Bush è d’accordo, e con lui Blair, i quali seguono la loro politica incuranti dei consigli che Barbara Spinelli propone dalle colonne dalle Stampa, e insieme a lei larga parte dei nostri "pacifici" commentatori , ai quali interessa solo che i nemici della democrazia possano stare tranquilli e lavorino senza essere disturbati, per imporre i loro regimi tirannici ovunque sia possibile. Ci sono poi quelli che credono nella tregua, nelle pause della crisi, al rilancio del dialogo, pensate un po’, con Israele, come se Hamas, Hezbollah, Ahmadinejad non avessero dichiarato apertamente che lo Stato ebraico non ha alcuna legittimità e deve cessare di esistere. No, questi intellettuali-politici, che sono poi quelli che ci hanno portati con la loro irresponsabilità all’11 settembre, non sono ancora soddisfatti dei risultati ottenuti, adesso che stanno rimontando in cattedra, vogliono concludere l’opera. Blair sta per finire il suo mandato, Bush ha davanti a sé ancora due anni. Ce la mettano tutta, per favore, perché in Europa soffia, per ora, un brutto vento.
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