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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
08.12.2006 Il rapporto Baker visto da Olmert, dalla stampa liberal americana, da Bush e da Blair
articoli di Davide Frattini, di Maurizio Molinari e del Foglio

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa
Autore: Davide Frattini - la redazione - Maurizio Molinari
Titolo: «Olmert non si fida di Baker: «Abbiamo opinioni diverse» -Il rapporto di Baker sull’Iraq ha deluso la stampa liberal americana - “Con Siria e Iran non si tratta”»

Dal CORRIERE della SERA dell'8 dicembre 2006 una rticolo sulla reazione israeliana al rapporto Baker: 

GERUSALEMME — «Quando gli israeliani saranno pronti a parlare seriamente di pace, possono telefonare alla Casa Bianca. Il numero è 001-202-456-1414». Così James Baker aveva risposto sprezzante, durante un'audizione al Congresso. Sono passati sedici anni. Il numero è rimasto lo stesso e — sono convinti a Gerusalemme — anche l'attitudine dell'allora segretario di Stato.
Ehud Olmert ha respinto le «raccomandazioni» proposte dal rapporto Baker-Hamilton. «Abbiamo opinioni diverse», ha commentato. «Non vedo un legame tra la questione irachena e il conflitto israeliano-palestinese». Il primo ministro è convinto di avere il presidente George Bush dalla sua parte («per quel che so la pensa come me») e non è pronto ad accettare uno dei suggerimenti diplomatici contenuti nello studio: restituire le alture del Golan in cambio di un accordo di pace con la Siria.
«Il punto non è che cosa noi possiamo offrire a Damasco, ma che cosa loro abbiano da offrire a Israele. Il fatto che la Siria destabilizzi il Libano e appoggi Hamas dimostra quanto scarse siano le possibilità di intavolare trattative nel prossimo futuro». Olmert vuole invece riaprire il dialogo con i palestinesi («ci proveremo con tutte le nostre forze») e giudica positiva l'iniziativa di pace proposta nel 2002 dall'Arabia Saudita («Contiene degli elementi interessanti che non vanno ignorati»).
Il premier ha ribadito il suo sostegno alla guerra in Iraq («La deposizione di Saddam Hussein è stata un grande contributo alla stabilità della regione») e ha ripetuto di non poter tollerare un Iran dotato della bomba atomica. Il governo israeliano si è irritato anche con Robert Gates, neo-ministro della Difesa americano, che aveva citato lo Stato ebraico tra le potenze fornite di armi atomiche che circondano Teheran. «Israele non conferma né smentisce di possedere ordigni nucleari — ha replicato il vicepremier Shimon Peres —. È sufficiente il timore che noi li possiamo avere».
Gli israeliani hanno paura che Baker possa spingere per una svolta diplomatica con i Paesi arabi, senza venire interpellati. Il
Washington Times, quotidiano legato ai conservatori americani, rivela che l'ex segretario di Stato starebbe spingendo per una seconda conferenza di Madrid sul Medio Oriente a cui partecipino anche i siriani e gli iraniani, ma non Israele. «Per come la vede Baker — racconta una fonte della Casa Bianca — il vertice permetterebbe agli Stati Uniti di ottenere un accordo, senza pressioni ebraiche».
Così a Gerusalemme ricordano di quando Baker avrebbe commentato, durante la campagna elettorale del 1992, «vaff... gli ebrei, tanto non votano per noi». O di quando aveva paragonato gli israeliani a dei tacchini: «Il trucco è farli andare dove vuoi tu, alle tue condizioni. A quel punto controlli la situazione e hai due opzioni: tirare il grilletto oppure no», aveva commentato a un giornalista del settimanale Time, durante una battuta di caccia.

Dal FOGLIO, un articolo sulle reazioni dei quotidiani americani: 

Milano. I giornali italiani hanno salutato con sollievo e grande soddisfazione la presentazione del Rapporto sull’Iraq elaborato dai 10 saggi della Commissione Baker. A leggerli pare che finalmente si sia trovata la soluzione al caos mediorientale creato da George W. Bush e dalla sua gang di intellettuali fanatici e guerrafondai. I giornali americani, invece, hanno spiegato altro, praticamente l’opposto, preferendo alla propaganda l’analisi della probabile inefficacia di queste proposte.
Le news analysis e le military analysis del New York Times e gli editoriali del Los Angeles Times e del Washington Post – per restare ai quotidiani contrari all’invasione in Iraq e ferocemente anti Bush – sono molto pessimiste sulla possibilità che il Rapporto Baker possa avere effetti concreti. Ieri, sulla prima pagina del New York Times, c’erano due analisi. Una spiegava che difficilmente la Casa Bianca recepirà le proposte di Baker, un po’ perché considerate inaccettabili da Bush, un po’ – come ha detto il deputato democratico più duro sulla gestione della guerra, John Murtha – perché nel rapporto Baker non ci sono suggerimenti “diversi dall’attuale politica” di Bush. Il secondo articolo del Times è un’attenta analisi militare dei suggerimenti della Commissione. Già dal titolo si capisce che le proposte di Baker non potranno funzionare “sul campo di battaglia”, in quanto “fondate più sulla speranza che sulla storia”. Il Times, peraltro, svela che le raccomandazioni militari della Commissione Baker “vanno contro le valutazioni fatte da alcuni dei suoi stessi consiglieri militari”, quindo almeno su questo punto non c’è stata unanimità di consensi. Sono, infatti, citati gli esperti militari della Commissione che giudicano “completamente impraticabili” le proposte finali. Alcune delle idee contenute nel rapporto, dice uno dei consiglieri di Baker, “sono prive di alcun senso, una ricetta per un’umiliazione nazionale”. Conclude il New York Times: “Alla fine, il compito non è realizzabile”, perché il Rapporto “contiene tutti gli ingredienti di un classico compromesso di Washington. Ciò che è meno evidente è la strategia militare dettagliata ed efficace che possa funzionare in Iraq”.
I due editoriali del Los Angeles Times sono altrettanto scettici. Il primo parla di “wishful thinking”, di pio desiderio: “Magari non metterà fine alla violenza settaria in Iraq, ma per almeno un giorno l’Iraq Study Group ha messo fine ai litigi settari a Washington”. Secondo il quotidiano liberal di Los Angeles, “vale la pena convincere Iran e Siria ad aiutare a stabilizzare l’Iraq, però non è chiaro per quale motivo Siria e Iran dovrebbero farlo”. Il secondo inizia così: “E’ facile prendersi gioco dell’Iraq Study Group, in molti modi rappresenta la tipica caratteristica di Washington di presentare le cose ovvie come se fossero profonde”.
L’editoriale del Washington Post comincia così: “Il Rapporto dell’Iraq Study Group elabora una strategia militare per l’Iraq che è stata già adottata in ampia misura dal governo iracheno e dai comandi militari americani, se non esplicitamente anche dal Presidente Bush”. La rivista Slate, di proprietà del Washington Post, ha pubblicato un editoriale dal titolo: “Abbiamo aspettato tutto questo tempo per così poco?”. Il magazine liberal The New Republic spiega che le soluzioni di Baker “non sono soddisfacenti” e in un editoriale denuncia che il Rapporto contiene “molte soluzioni, ma poche risposte”. A destra i commenti sono molto più duri. Uno per tutti: l’accusa di “codardia” e di “resa” sulla copertina del New York Post.

Prima di Natale, la nuova strategia
Prima di Natale, Bush presenterà la nuova strategia sull’Iraq, ma solo dopo che avrà ricevuto i rapporti del Pentagono e del Dipartimento di stato, più importanti di quello preparato da Baker. Rudy Giuliani e John McCain hanno definito “utili” le raccomandazioni di Baker, ma “sbagliate” le ipotesi di abbandonare l’Iraq (Giuliani era membro della Commissione, poi l’ha lasciata quando s’è accorto dove sarebbe andata a parare). Il senatore indipendente Joe Lieberman ha criticato l’idea di coinvolgere Iran e Siria, i due paesi – come hanno ribadito ieri Bush e Blair in una conferenza stampa a Washington – che sono una delle cause del caos iracheno.
L’editoriale del New York Times è il più favorevole a Baker, ma pur sempre freddino con le conclusioni del Rapporto – “ci sono troppi ‘potrebbe’ e ‘dovrebbe’”. Punta, però, sul fatto che i suggerimenti di Baker costituiscono una “copertura politica” all’auspicato cambio della strategia della Casa Bianca. Bush e Blair ne sono consapevoli, tanto che ieri – pur mantenendo le distanze dal merito delle proposte di Baker – hanno assicurato che prenderanno in considerazione i suoi suggerimenti pratici. Ma – ha spiegato Blair – ricordandosi che la “vision strategica rimane quella di sempre, perché l’unica via realistica è quella democratica e della diffusione della libertà”.

Dalla STAMPA, un articolo sulle dichiarazioni di Bush e Blair:

George W. Bush apprezza il rapporto della commissione Baker-Hamilton sull’Iraq ma si limita ad accoglierne due soli suggerimenti. La risposta alle 79 raccomandazioni dell’«Iraq Study Group» è arrivata in occasione del summit con il premier britannico, Tony Blair, e lascia intendere che il presidente è aperto a cambiamenti ma non disposto a farsi dettare la politica estera. Per sottolineare l’apertura al rapporto Bush dice di «apprezzarlo», accetta di definire come «brutta» la situazione a Baghdad e condivide tanto la raccomandazione di un Gruppo di contatto sull’Iraq che quella di rilanciare il negoziato israelelo-palestinese.
Ma il plauso al lavoro della commissone bipartisan si ferma qui. Sulla richiesta di ritiro delle truppe combattenti entro marzo 2008 Bush ribatte che si atterrà alle «raccomandazioni dei comandanti sul campo», sottolineando che trattandosi di questioni militari saranno i generali, e non i politici, a dire l’ultima parola. L’altra richiesta-chiave del rapporto è il coinvolgimentodi Teheran e Damasco nella stabilizzazione dell’Iraq. A tale riguardo Bush è ancora più esplicito: «Dipenderà da loro, se continueranno a sostenere gli estremisti contro le democrazie non potremo fare nulla». E ancora: «La Siria deve cessare di destabilizzare il governo in Libano, deve smettere di far arrivare armi e denaro agli estremiti in Iraq e deve cessare di dare ospitalità ai terroristi».
Il premier britannico è in piena sintonia e lo dimostra puntando l’indice verso l’Iran: «Fa arrivare in Iraq armi ed aiuti alle milizie». Bush aggiunge: «Se vogliono avere a che fare con noi sanno che devono sospendere il programma di arricchimento dell’uranio» con cui puntano all’atomica. Anche sull’ipotesi di un maggiore impegno per il negoziato israelo-palestinese non si va molto oltre l’annuncio di una imminente missione di Blair. «Affinché il dialogo riprenda deve essere innanzitutto liberato il soldato israeliano Shalit - dice il premier - e poi bisogna risolvere il problema dell’impossibilità di avere un governo di unità nazionale palestinese a causa del rifiuto di Hamas di riconoscere Israele».
I due alleati accettano la descrizione negativa della situazione in Iraq fatta dalla commissione bipartisan ma ribadiscono che «per avere successo - dice Bush - bisogna battere gli estremisti». Il botta e risposta fra Baker-Hamilton e Bush-Blair segna l’inizio di un serrato confronto a Washington che porterà la Casa Bianca a riscrivere la strategia in Iraq e quando la sceltà sarà fatta toccherà al presidente annunciarla in tv.
A contestare apertamente i risultati della commissione Baker-Hamilton è invece il premier israeliano, Ehud Olmert, che non condivide il legame fra Iraq e crisi israelo-palestinese. Critiche sono giunte anche dall’ex sindaco di New York e candidato presidenziale repubblicano, Rudolph Giuliani, che ha svelato di aver abbandonato l’«Iraq Study Group» a causa di una «agenda politica» basata sulla scelta di «ritirarsi dall’Iraq senza vincere». E l’accusa di «volere la sconfitta» è stata lanciata alla commissione anche dal «New York Post» con una prima pagina nella quale Baker e Hamilton sono stati raffigurati e descritti come due «scimmie arrendevoli».

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