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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.11.2006 Il piano franco-italo-spagnolo non serve: per la pace c'è la Road Map, ed'è il terrorismo a sabotarla
un'intervista all'ambasciatore d'Israele in Italia, una cronaca sulla presa di posizione del governo Olmert

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Paola Peduzzi - Maurizio Caprara
Titolo: «L’ambasciatore di Israele ci dice perché pure l’Italia è sequestrata a Gaza - Olmert a Prodi: piano Ue? Solo un fattore di disturbo»
Dal FOGLIO del 22 novembre 2006, un'intervista all'ambasciatore d'Israele a Roma, Gideon Meir:

Roma. Tre settimane tonde tonde. E’ questo il tempo che Gideon Meir ha trascorso in Italia. Ma gli sembra di essere qui da anni, “l’intensità della vita italiana è incredibile”, dice al Foglio il nuovo ambasciatore di Israele a Roma. In effetti sono stati giorni intensi questi ultimi: non una, ma due manifestazioni sabato sul conflitto israelo-palestinese – giusto per dare un assaggio di quanto è abile l’Italia con i distinguo, le sfaccettature, le ambiguità anche – e ieri il rapimento, nella striscia di Gaza, di due operatori italiani della Croce rossa, Gian Marco Onorato e Claudio Moroni, fermati da uomini armati mentre erano in auto verso Khan Younis. Nelle stesse ore, a Beirut, è stato assassinato Pierre Gemayel, ministro dell’Industria e figlio dell’ex presidente Amin Gemayel, leader della comunità cristiano-maronita, gettando il Libano in un’ennesima, pericolosa instabilità. Meir dice che il rapimento dei due volontari italiani “indica la natura del regime che c’è a Gaza” e si augura che gli ostaggi siano liberati “il prima possibile, sani e salvi”. L’assassinio a Beirut è per l’ambasciatore un altro segnale dell’importanza della “completa implementazione delle risoluzioni 1.559 e 1.701 che vogliono il disarmo di Hezbollah e la restituzione del potere al governo libanese”.
Cinquantanove anni, nonni tedeschi costretti a lasciare la Germania durante il nazismo, amante dell’opera, Meir è un diplomatico di lungo corso, era nel team dei negoziatori a Camp David, nel 1979, durante il processo di pace con l’Egitto. Poi è stato in Canada, negli Stati Uniti, a Londra e poi di nuovo a Gerusalemme, dove negli ultimi sei anni è stato il direttore generale della comunicazione esterna al ministero degli Esteri. Si è occupato dell’immagine di Israele, insomma. Ha visto tutto della politica di Gerusalemme, sostiene che in alcuni aspetti assomiglia a quella italiana, anche se “voi avete un linguaggio più ricco che mi piacerebbe ogni tanto vedere in Israele”, dice con tono scherzoso, gli occhi vispi dietro agli occhiali. Ha un fare sorridente e allegro, ma diventa subito serio quando si parla del conflitto tra israeliani e palestinesi, i sequestri di stranieri nella Striscia di Gaza, il lancio continuo di Qassam verso il Negev, le operazioni di Tsahal contro i terroristi, gli scudi umani. Meir ricorda che il premier di Gerusalemme, Ehud Olmert, ha rilasciato un’intervista “coraggiosa, prendendosi un alto rischio”, quando ha detto al rais palestinese, Abu Mazen, di volerlo incontrare al più presto, e di voler “andare lontano sulla lunga strada per la pace”. Il processo è in corso, cerca di muoversi dopo la guerra estiva contro Hezbollah e nonostante i negoziati infiniti tra Hamas e Abu Mazen per la creazione di un governo di unità nazionale palestinese. Però molti hanno voluto vedere la parte negativa del discorso di Olmert, “si sono lamentati” e hanno formulato nuove alternative per la pace. “Ma c’è la road map – precisa l’ambasciatore – E’ stata accettata da tutti e se non sta funzionando non è per via di Israele, ma dal fatto che i palestinesi non vogliono combattere il terrorismo. E allora che cosa fa l’Europa? Se ne esce con un’altra alternativa per il processo di pace. Ma chi ha detto che la road map è morta? Perché oggi dovremmo abbandonarla, non è forse più conveniente oggi per i palestinesi?”, chiede senza sosta Meir. Certo da ultimo le condanne sono state tutte contro Israele, dopo i fatti di Beit Hanoun. “C’è sempre una maggioranza automatica all’Onu contro di noi – sorride sarcastico Meir – E’ costituita dal mondo arabo. Ma chi vogliamo che guidi il mondo, i moderati o gli estremisti?”, chiede. La risposta pare palese, eppure non lo è.

Secondo l’ambasciatore israeliano, “ora la palla del processo di pace è nel campo di Abu Mazen”, nell’“altro cinquanta per cento” del conflitto palestinese su cui la comunità internazionale “tende a non fare troppe pressioni, accettando i valori non democratici” di molti regimi. Ma sono i palestinesi che hanno scelto di farsi governare da “un gruppo che vuole la distruzione dello stato di Israele e – aggiunge Meir – Abu Mazen deve avere il potere di far cessare il terrorismo, di fermare i Qassam”. Tale forza pare non esserci, però. Che cosa si farà allora in questi Territori fuori controllo? Per Meir il dialogo resta la prima scelta, “ma noi dobbiamo difenderci, e se non ci sono altre possibilità non resta che la via militare”. Una soluzione appaiata al dialogo ci sarebbe: “Deve essere versato denaro a Gaza per ridurre l’incentivo dei palestinesi a schierarsi dalla parte dei terroristi”. Naturalmente questi fondi devono essere monitorati, altrimenti finiscono come quelli che arrivano da Iran e Siria “tutti in armi”: “E’ necessario fornire una soluzione economica onorevole per i palestinesi”.
Il ruolo della comunità internazionale è fondamentale. L’Europa è convinta che, risolvendo il conflitto israelo-palestinese, il mondo sarà più al sicuro. E adesso che è stata coinvolta per la prima volta in modo diretto per pacificare il medio oriente – questo almeno è l’obiettivo scritto – con la risoluzione 1.701 e la forza di interposizione Unifil nel sud del Libano, si sente ancora più in dovere di trovare alternative alla pace. “Quella risoluzione è un test per tutti – dice Meir – Dev’essere fermato il riarmo di Hezbollah e il traffico di armi. In passato abbiamo avuto brutte esperienze con i disarmi. Abbiamo accettato la risoluzione nella convinzione che le condizioni saranno rispettate, spero che non ci sia dato modo di rimpiangere questa scelta”. Le verifiche sul campo non fanno ben sperare, a dire il vero, ma Meir cerca di mantenere l’ottimismo: fa parte dell’arte della diplomazia che conosce bene e che ha anche insegnato per anni ai giovani ambasciatori in giro per il mondo. Per questo anche quando parla delle proteste di Milano e Roma preferisce ricordare le “tante voci di dissenso” su quello che è successo: “Sono molto grato per le condanne arrivate a quelle manifestazioni di odio, di ostilità, di estremismo”.
Resta la preoccupazione. “Quel che più mi sorprende – dice Meir con uno sguardo cupo – è che uno stato membro dell’Onu, l’Iran, chiede ufficialmente e pubblicamente la distruzione di un altro stato membro dell’Onu, Israele, e continuo a non sentire voci che dicano a Teheran di smetterla”. Eccolo qui il problema del nostro occidente, che a volte appare così stanco da non volersi più difendere, così stanco dall’abbandonarsi nelle braccia dell’estremismo. Ma la lotta al terrorismo non è un affare di Gerusalemme, “non è una questione tra noi e l’Iran”. Anche perché, dice l’ambasciatore, “alla fine il conflitto che l’Europa indica come radice di tutti i mali sarà risolto. Non per la salvezza del mondo, ma per la salvezza di israeliani e palestinesi. Vivremo con due stati vicini e in pace. Ma allora non sarà risolto il problema che attanaglia il mondo, l’estremismo, il fondamentalismo islamico. Perché il terrorismo non è contro Israele, noi siamo una buona scusa per allearli tutti. Ma sono i nostri valori a essere messi in discussione, i nostri valori democratici, delle nostre culture. E per nostri non intendo israeliani, intendo di tutto l’occidente”. Moderati o estremisti, ecco la scelta. La vera domanda affiora subito, l’ambasciatore la formula: “Ci crediamo ancora nelle nostre democrazie?”. Bella domanda, dice. E immancabilmente sorride.

Dal CORRIERE , sulle reazioni israeliane al piano di Francia, Spagna e Italia. Discutibile il sottotitolo: "Dubbi sulla proposta di pace appoggiata da Roma".
Più che dubbi, da Israele sembrano provenire motivate obiezioni...


ROMA — Il primo ministro israeliano Ehud Olmert sarà a Roma il 13 dicembre, esattamente un giorno prima del Consiglio europeo a Bruxelles nel quale Romano Prodi spererebbe di poter far maturare una proposta dell'Ue per il Medio Oriente meno affrettata di quella delineata giovedì scorso da José Luis Zapatero e Jacques Chirac. La cronaca brucia, ma la diplomazia ha poco da rilassarsi.
Sull'onda della notizia dell'assassinio del ministro libanese Pierre Gemayel, ieri i capi dei governi israeliano e italiano si sono aggiornati a vicenda per telefono circa le novità nel rispettivo raggio d'azione. Oltre a mettere al corrente Prodi dei contatti che i suoi collaboratori avranno con l'ufficio di Abu Mazen, Olmert ha avvisato che interventi europei per far riprendere in fretta il processo di pace sono considerati un fattore di «disturbo». L'altolà è stato dato nel corso di una richiesta di delucidazioni su quella che alcuni giornali hanno presentato come una mossa spagnola, francese e italiana. Attualmente, il
premier del Kadima è privo di interlocutori palestinesi ben disposti e stabili, ed è provato dalle turbolenze politiche di casa propria.
Il presidente del Consiglio italiano, riferisce Palazzo Chigi, ha spiegato che Spagna, Francia e Italia hanno in comune «idee attraverso le quali il dialogo potrebbe ripartire», però anche che l'iniziativa va «estesa agli altri partner europei, a cominciare da Germania e Gran Bretagna» e «predisposta in modo tale da raccogliere il consenso delle parti interessate». Basterà a Gerusalemme?
Malgrado i fastidi ricorrenti nello Stato ebraico verso le dichiarazioni di alcuni componenti della maggioranza, a Israele non dispiacerebbe che in futuro il nostro Paese si dimostrasse affidabile al punto di poter ricoprire il ruolo di mediatore,
honest broker lo chiamano i diplomatici, per una ripresa del dialogo con i palestinesi. Gli israeliani tuttavia intendono verificare volta per volta se reputeranno convenienti i vari passi. Nel viaggio di dicembre, Olmert andrà anche in Germania.
Tre giorni fa il ministro degli Esteri Tzipi Livni si era sentita con Massimo D'Alema, non è escluso un colloquio diretto a fine mese. Il Libano, finora, ha offerto il punto di incontro per l'aspirazione italiana a un ruolo importante sul Medio Oriente e la necessità israeliana di evitare isolamenti o scontri insanabili con l'Europa. Ma l'esame resta arduo. «Riteniamo che ora abbiano circa 20 mila razzi, un po' più di quanti ne avevano prima del 12 luglio», ha detto su Hezbollah una fonte dei servizi segreti israeliani il 12 novembre al Sunday Times. E l'Italia è un perno della missione Unifil.

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