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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Avvenire - La Stampa - Europa Rassegna Stampa
22.11.2006 Assassinato Pierre Gemayel
prosegue l'eliminazione dei politici libanesi anti-siriani

Testata:Avvenire - La Stampa - Europa
Autore: Fulvio Scaglione - Domenico Quirico - Lazzaro Petragnoli
Titolo: «Viene da molto lontano l'assassinio di Gemayel - Chi ha sparato? I ras di Damasco - Non si può non vedere il filo rosso che porta a Damasco - L’attacco di Bush»

Da AVVENIRE del 22 novembre 2006, un editoriale di Fulvio Scaglione che colloca
l'omicidio del politico maronita Pierre Gemayel nella storia del Libano.

In certi casi per definire un dramma basta qualche parola. Nel caso di Pierre Gemayel, 34 anni, il ministro dell’Industria del Libano ucciso ieri a Beirut in un attentato, basta il cognome. Nipote di Pierre Gemayel (1905-1984), fondatore della Falange nel 1937 e strenuo militante dell’indipendenza del Libano; figlio di Amin Gemayel, presidente del Libano dal 1982 al 1988 e quindi nipote di Bashir Gemayel (il fratello minore di Amin), successore del padre alla guida della Falange, idolo dei cristiani maroniti e vittima di un attentato (14 settembre 1982) pochi giorni dopo essere stato a sua volta eletto presidente.
L’assassinio dell’ultimo Gemayel, dunque, viene da lontano ma è assolutamente in linea con gli ultimi eventi, a dimostrazione di quanto restino irrisolti i problemi di fondo del Libano. È il prodotto della lunga e cruenta divisione etnica e religiosa del Paese, dei perigliosi equilibri che provano a governarla (ultimo l’accordo di Riyad del 1975), della mai sopita scintilla che guizza tra la componente cristiana, fedele all’ideale dell’indipendenza, e quella musulmana, di volta in volta attratta dal mito della "grande Siria" o del "grande Medio Oriente". Non va dimenticato, in questo quadro, il ruolo spesso imprevedibile giocato dai palestinesi, che a metà anni Settanta arrivarono a essere in Libano più di 300 mila. Una presenza che molto contribuì a far scoppiare la guerra civile e poi a inasprirla: nel 1982, subito dopo la morte di Bashir Gemayel, le milizie maronite compirono, con la complicità dell’esercito israeliano, i massacri di Sabra e Chatila. Nell’agosto di quest’anno, infine, un’altra guerra ha coinvolto il Libano e di nuovo ha diviso i musulmani (più o meno schierati con l’asse Iran-Hezbollah-Hamas) e i cristiani, magari non schierati con Israele ma certo poco disposti a fare da capro espiatorio delle aggressioni pianificate dai movimenti radicali palestinesi. Con questo siamo arrivati alla cronaca. L’invasione israeliana dell’agosto 2006 ha colpito il Libano ma non ha piegato Hezbollah. Anzi, negli ultimi tempi il Partito di Dio ha alzato la posta: dopo aver costretto alle dimissioni sei ministri (cinque di Hezbollah e uno dell’altro movimento sciita, Amal), cerca di erodere la già fragile base politica del governo di Fouad Siniora e chiede a gran voce un governo di unità nazionale, che darebbe ai partiti islamici un ruolo condizionante. Siniora ha cercato di rilanciare lo spirito della Rivoluzione dei Cedri schierando il Governo a favore del Tribunale internazionale dell’Onu sul "caso Hariri", il premier libanese ucciso nel febbraio 2005, secondo l’interpretazione corrente per ordine di Damasco. Ieri è stato proprio suo figlio Saad, leader della maggioranza che sostiene Siniora, a puntare di nuovo il dito contro la Siria e ad accusarla dell’omicidio di Gemayel. Siriani e falangisti sono nemici da sempre, quindi l’ipotesi di Saad Hariri è ragionevole. Ma suona troppo logica, troppo facile. Questo è pur sempre il Medio Oriente, il regno dell’obliquo, e non si capisce bene che interesse avrebbe la Siria a concedersi una vendetta fine a se stessa a Occidente mentre cerca di accreditarsi come Paese ragionevole e affidabile (soprattutto per gli Usa) a Oriente. Proprio ieri Damasco e Baghdad hanno riallacciato le relazioni diplomatiche, interrotte da 25 anni, e il leader siriano Bashar al Assad da mesi si propone come mediatore tra l’Onu, gli Usa e l’Iran sulla questione nucleare. In questo momento, gli unici a trarre un qualche vantaggio dalla morte di Gemayel, da un’ulteriore indebolimento del Governo e dall’accentuarsi delle divisioni etniche e religiose sono i miliziani di Hezbollah. D’altra parte lo sceicco Nasrallah lo aveva promesso: la guerra dei missili, in estate, era solo il primo tempo di una partita ancora lunga e complicata.

Dalla STAMPA , un intervista a Gisèle Khoury, vedova del giornalista Samir Kassir, morto in un attentato

Gisèle Khoury conosce bene l’implacabile macchina della morte che è al lavoro in Libano. Il 2 giugno dello scorso anno suo marito, Samir Kassir, giornalista franco-libanese, è stato assassinato. Con una carica di esplosivo piazzata sotto la sua auto. Il giorno prima aveva scritto un editoriale contro Bashar Assad. Nessuno, dopo un anno, è stato ancora arrestato. Era una delle voci più autorevoli e decise nel denunciare l’occupazione siriana, un protagonista della primavera di Beirut innescata prepotentemente dalla indignazione per l’uccisione di Rafic Hariri. Il suo destino in fondo era segnato, da anni riceveva circostanziate minacce. Anche Gisèle Khoury, la più nota conduttrice della rete televisiva «Al Arabya», era stata avvertita, dal potente capo dei servizi di sicurezza Jamil al-Sayed: è meglio se taci, i tuoi servizi televisivi non ci piacciono. Ha rifiutato di trasferirsi a Dubai, a Beirut è a fianco della maggioranza antisiriana, esige che gli assassini di suo marito, i mandanti di tutti i delitti eccellenti vengano denunciati e giudicati.
Il tempo dei delitti non è finito?
«L’assassinio di Pierre Gemayel è la logica e tragica continuazione di una lunga catena di delitti precedenti. Il colpevole? Non ci sono dubbi: è il regime di stampo mafioso che governa ancora il Libano e la Siria».
Tutto sembra legato alla volontà di impedire la creazione del tribunale penale internazionale per l’omicidio di Hariri. Come devono reagire le forze politiche della maggioranza antisiriana?
«Pierre Gémayel era un grande leader politico maronita, l’erede di una famiglia molto impegnata in politica che ha già pagato un prezzo durissimo con altre due vittime. Ma bisogna ora prendere delle misure risolutive, bisogna assolutamente che il presidente Emile Lahoud lasci il potere e che si elegga un nuovo presidente in cui i libanesi abbiano davvero fiducia. Perche questo presidente è responsabile della mancata istituzione del tribunale penale internazionale, è a causa sua che c’è stata una marcia indietro».
E gli Hezbollah?
«Credo che debbano rifare i loro conti dopo questo delitto, non si può continuare a proteggere per tanto tempo degli assassini».
C’è però il problema della debolezza del governo Siniora...
«Il governo libanese non è debole, è molto forte, per il sostegno dei libanesi liberi, per la sua popolarita. E’ facile mettere una pistola alla tempia del governo dicendo che è debole. Il governo è forte grazie a noi, è forte grazie ai nostri martiri».

Da La STAMPA, un articolo di Maurizio Molinari:

George W. Bush condanna l’assassinio di Pierre Gemayel, chiede una «inchiesta a tutto campo» e punta l’indice contro «il volto pericoloso» di Siria, Iran ed i loro alleati che «tentano di destabilizzare il Libano». Parlando alle truppe nella base di Hickam, sull’isola di Oahu alle Hawaii, il presidente americano ha interpretato l’attentato di Beirut come la conferma del disegno di Damasco e Teheran di destabilizzare la giovane democrazia libanese e l’intero Medio Oriente. «Condanniamo con fermezza l’uccisione di Gemayel, sosteniamo il governo di Fuad Siniora ed il desidero dei libanesi di vivere in pace» ha detto, imputando «l’intento di fomentare instabilità e violenza» all’asse Siria-Iran sostenuto «dai loro alleati in Libano», ovvero gli Hezbollah.
Da qui l’appello alla comunità internazionale affinché «agisca subito» con una presa di posizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per «sostenere il governo di Siniora», «decidere un’inchiesta per identificare chi sta dietro l’omicidio» ed anche affrettare l’insediamento del «tribunale speciale per processare i responsabili dell’assassinio di Rafik Hariri», l’ex premier libanese ucciso nel 2005 da un’autobomba attribuita ai filo-siriani. «L’Onu deve agire oggi stesso, istitutendo il tribunale sull’omicidio Hariri e anche sugli altri assassinii collegati» ha aggiunto Bush. E il Palazzo di vetro ha risposto prontamente condannando con fermezza l’assassinio di Gemayel e, soprattutto, i Quindici hanno dato il via libera all'istituzione del tribunale internazionale - che forse risiederà in Italia - sulla «strage Hariri».
Accomunare le morti violente di Hariri e del ministro dell’Industria Gemayel significa suggerire che i mandanti di entrambe sono riconducibili a Damasco e Teheran e quindi chiedere agli alleati arabi di fare quadrato attorno a Beirut. In un successivo comunicato scritto, Bush ha ulteriormente indurito i toni con Damasco: «Il rifiuto della Siria di porre fine ai tentativi della destibilizzazione del Libano viola le risoluzioni Onu 1559 e 1701, chiediamo a Damasco di trattare il Libano come un vicino sovrano, di stabilire piene relazioni diplomatiche con Beirut e di delineare i confini bilaterali in particolare nella zona delle fattorie di Shabaa». Come dire: la regìa dell’instabilità è a Damasco.
Ma l’affondo della Casa Bianca ha anche un secondo obiettivo: mettere sulla difensiva Teheran dopo l’annuncio del presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, di un summit con i leader di Damasco e Baghdad sull’Iraq. Il passo di Teheran aveva preso in contropiede Washington, nella notte fra lunedì e martedì, perché coincideva con la ripresa delle relazioni fra Siria e Iraq paventando il rischio di un’iniziativa regionale capace di rivaleggiare con l’influenza Usa e di anticipare i possibili suggerimenti dell’«Iraq Study Group» di James Baker, da tempo favorevole a coinvolgere Iran e Siria in Iraq.
La prima reazione alla sfida di Teheran era giunta all'alba dal Dipartimento di Stato, il cui portavoce Tom Casey, aveva espresso dubbi sulle «buone intenzioni dell’Iran in considerazione delle cattive azioni che compie» e subito dopo il ministro degli Esteri iracheno, Hosyar Zebari, si affrettava ad escludere l’ipotesi che il summit potesse tenersi. Con la controffensiva diplomatica di Washington già in movimento, l’assassinio libanese ha dato modo agli Usa di aumentare la pressione, confermando come da Baghdad a Beirut sia in atto una doppia partita sull’assetto del Medio Oriente che vede l’America duellare con Ahmadinejad e Bashar Assad. «L’omicidio di Gemayel - ha detto il sottosegretario di Stato, Nicholas Burns - è un atto di terrorismo e di intimidazione di chi vuole indebolire il Libano» come fatto dal leader Hezbollah, Hassan Nasrallah, invocando manifestazioni per rovesciare il premier e bloccare il tribunale sul caso-Hariri. In serata il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha chiamato Siniora per esprimere sostegno mentre la morte di Gemayel ha avuto ripercussioni al Pentagono, da dove trapelano timori per una ripresa delle attività Hezbollah in Libano che minaccia tensioni con il contingente Onu.


Intervista Gareth Stansfield  del Royal Institute of International Affairs di Londra su EUROPA:

Gareth Stansfield, professore all’Università di Exeter e ricercatore del Royal Institute of International Affairs di Londra, riceve la notizia dell’assasioni del leader cristiano libanese Pierre Gemayel pochi minuti dopo che ha accettato di commenatre con Europa le recenti iniziative dipolmatiche di Siria, Iran e Iraq.
Partiamo invece da quest’assasinio. Che conseguenze avrà sulla precaria situazione libanese e sui già dif- ficili rapporti tra Siria e Libano?
È una notizia che raggela. La lotta politica in Libano continua ad essere fatta con le armi e con l’eliminazione fisica degli avversari politici. Non è possible non vedere una connessione diretta fra la morte di Gemayel e le recenti dimissioni dei ministri filo-siriani dal governo libanese; non è possible non vedere il filo rosso che connette questo assassinio con quelli dell’ex primo ministro Hariri e di Gebran Tueni nel 2005. I continui e ripetuti assassini di politici anti-siriani in Libano sono il segno della volontà siriana di mantenere il suo protettorato sul Libano. Già nei giorni scorsi le strade del Libano erano state attraversate da cortei di protesta, organizzati da Hezbollah e dalle fazioni filo-siriane che accusano il primo ministro Siniora di essere asservito agli Stati Uniti. Purtroppo, ora, la maggioranza parlamentare anti-siriana è sempre più debole e si rischia una crescita della violenza nelle strade per costringere il governo alle dimissioni. Io credo che gli organismi internazionali, l’Europa e le potenze occidentali, abbiano il dovere di sostenere e difendere il legittimo governo libanese da ogni ingerena esterna e da ogni tentativo interno di supportare queste ingerenze esterne.
La Siria intanto sta assumendo un ruolo nuovo nella regione: è di ieri la notizia che sono stati riallacciati i rapporti diplomatici con l’Iraq.
Nel vuoto di coordinate che l’invasione anglo-americana ha creato dal 2003 si stanno costruendo nuove potenze regionali e nuove alleanze.
E molto spesso si creano fatti che non possono essere letti in modo univoco: le nuove relazioni diplomatiche tra Damasco e Bagdad possono essere interpretate come un’attrazione dell’Iraq nella sfera di influenza siriana o come una attrazione della Siria nella sfera di influenza irachena. C’è sicuramente un interesse dell’Iraq ad allearsi con la Siria per fermare la violenza delle milizie islamiche e per atttuare il programma di aiuti economici, così come Damasco ha tutto l’interesse ad accreditarsi come un partner credibile per l’occidente. Le prime ricadute mi sembrano positive: nel documento che hanno sottoscritto insieme Siria e Iraq, il ministro degli esteri siriano ha trasformato la sua richiesta di un ritiro immediato delle truppe americane dall’Iraq in quella di una permanenza a breve termine.
Le ricadute di questa nuova alleanza non sono immediate e molto dipende da che cosa succederà nel prossimo futuro: certo è un chiaro messaggio che il Medio Oriente è determinato a fare da sè, che sta cercando un suo nuovo equilibrio a prescindere dagli Stati Uniti.
D’altronde è stato lo stesso segretario dell’OnuKofi Annan ad invitare Siria e Iran a svolgere un ruolo positivo nella regione: un’opinione condivisa e sostenuta anche dal governo britannico e negli Stati Uniti da persone come Henry Kissinger e l’ex segretario di stato James Baker, la cui voce sta tornando, per fortuna, ad essere influente nelle decisioni di politica estera americana.
KofiAnnan, nei giorni scorsi, ha anche detto che gli Usa ormai sono intrappolati in Iraq e ha invitato Bush a considerare attentamente quale potrebbe essere il momento ottimale per lasciare il paese.
Le preoccupazioni di Annan sono assolutamente condivisibili: ormai le truppe americane in Iraq non sono più parte della soluzione, sono parte del problema. Lo stesso vale anche per le truppe britanniche, la cui posizione all’inizio del conflitto era diversa, a causa dei diversi rapporti diplomatici e delle zone in cui si trovavano ad operare.
Andarsene ora è tardivo e prematuro al tempo stesso: da un lato la guerra è stata fatta senza un piano preciso, senza una chiara idea di quali erano gli obiettivi da raggiungere; dall’altro, ora, la situazione è troppo instbile per potersi defilare. Se Usa e Gran Bretagna avessero una strategia, sosterrebbero la riorganizazione del potere e dei legami inter-regionali che si sta autonomamente creando.
Si riferisce anche al nuovo ruolo di Ahmadinejad, che ha promosso un summit tra Iran, Iraq e Siria per sabato prossimo?
La notizia non è ancora confermata (al momento l’incontro è solo tra i presidenti iraniano e iracheno) ma certamente bisogna riconoscere che questi paesi stanno mettendo da parte decenni di incomprensioni e di cattivi rapporti e che il loro primo interesse è il benessere della regione. Purtroppo qualcuno a Washington crede invece che tutte queste manovre vadano lette solo e sempre in chiave anti-americana.
Sono gli Usa che hanno un problema con il Medio Oriente, non viceversa. Mi pare che in Medio Oriente abbiano cominciato a prepararsi per quando, in un futuro che non so quantificare, l’ingerenza militare occidentale non ci sarà più. È triste da dire ma stanno facendo da soli quello che noi avremmo dovuto aiutarli a fare.

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