A Umberto De Giovannangeli la tattica degli scudi umani usati per salvare i terroristi palestinesi piace.
All' UNITA' sembra una "terza via tra l'azione suicida e la rassegnazione" alla violenza dell'esercito israeliano.
Peccato che questa violenza si difensiva e che i lutti sopportati dai palestinesi derivino dall'aggressione terroristica contro Israele, che ha il diritto e la necessità di difendersi.
Se il terrorismo cessasse cesserebbero anche le drammatiche condizioni dei palestinesi.
E si dà il caso che il ragazzo intervistato da De Giovannangeli, da lui prsentato come un eroe, abbia scelto di proteggere i terroristi.
Usa il proprio corpo come scudo di chi organizza il terrorismo suicida e diffonde l'ideologia del martirio.
Non è un "uso diverso del suo corpo". E' un altra tattica della stessa guerra terroristica contro Israele.
Così come quella di u.d.g. non è informazione ma la propaganda necessaria per rendere, consapevolmente o meno, efficace quella tattica.Hamas non vuole rinunciare alla violenza omicida contro gli israeliani, ma contemporaneamente vuole presentarsi all'opinione pubblica come un'organizzazione che adotta i mezzi della lotta non-violenta.
L'UNITA' e u.d.g. forniscono il loro contributo.
Ecco il testo:
CRESCERE NELL’INFERNO di Jabaliya. Imparare a fare i conti ogni giorno con la paura e la morte. Essere educato al mito degli «shahid». Ma scegliere una strada diversa tra l’azione suicida e la rassegnazione. È la storia di un diciassettenne palestinese che in una notte di fuoco decide di fare un uso diverso del suo corpo
Paura e morte, che sono compagne di strada per chi è nato a Jabaliya, uno dei più popolosi e degradati campi profughi nella Striscia di Gaza. Questa è la sua storia. «Avevo cinque anni - racconta - quando un pomeriggio sentii bussare alla porta della nostra casa. Mia madre mi chiamò assieme ai miei sei fratelli e sorelle per dirci che Mahmud, nostro padre, era morto da “shahid” (martire, ndr.) in uno scontro con i soldati israeliani. Il giorno dopo i miei amici mi fecero festa, ma io pensavo solo che non avrei più potuto giocare con mio padre...». Così Redwan, cresce, come uno dei tanti «bambini dell’intifada». Quei bambini che diventano «grandi» troppo in fretta, costretti a perdere da subito la loro innocenza. Jabaliya è una delle roccaforti dei duri dell’intifada nella Striscia di Gaza. Cosa sia la «normalità» per i bambini di Jabaliya durante una delle innumerevoli operazioni di «bonifica» condotte da Tzahal, lo racconta Zahira, la nonna di Redwan. «I soldati - dice - lasciano che i bambini giochino fuori solo a turno, li spaventano e a volte li picchiano. Per entrare in casa dobbiamo chiedere il permesso. Per uscire, dobbiamo chiedere il permesso. Ci devono essere sempre quattro membri della famiglia in casa. Quando mio figlio ha il permesso di andare a Gaza a cercare provviste, può tornare solo con due sacchi di plastica, non di più. Siamo prigionieri con i nostri bambini. Non è vita». No, non è vita.
«Il gioco di noi bambini del campo profughi - dice Redwan - era quello dello “shahid”. I più forti facevano la parte dei “martiri” a quelli meno capaci toccava il ruolo dei soldati israeliani». Gioco e realtà s’intrecciano indissolubilmente nell’inferno di Jabaliya. Racconta il dottor Awni, uno dei più affermati neurologi palestinesi: «I bambini si svegliano nel pieno della notte a causa delle bombe sonore, oppure per gli spari e capiscono benissimo che questi rumori sono per uccidere...I bambini hanno una intelligenza vivace e forte e vivono la paura costantemente. Ma nessuno può immaginare come il bambino realizza la paura, in che maniera essa incide sulla sua personalità, sulla sua vita. Non si può prevedere come crescerà un bambino costantemente spaventato». Redwan cresce nel mito dei «kamikaze»: le loro foto ricoprono i muri del campo profughi, Redwan e i suoi amici partecipano ai funerali dei miliziani uccisi dagli israeliani; funerali che si trasformano in manifestazioni popolari contro il «nemico sionista». Non c’è spazio per sognare a Jabaliya. Non c’è spazio per la speranza. In questo humus di rabbia e disperazione che Redwan cresce. Cresce assieme a Bassem, il suo migliore amico. «Eravamo sempre insieme - dice -. Bassem aveva un fratello più grande militante della Jihad islamica. Era invidiato per questo e perchè con la sua famiglia aveva fatto il viaggio alla Mecca». Bassem aveva un desiderio: quello di diventare «shahid». «Una volta - ricorda Redwan - parlammo di questo. Mi meravigliai del fatto che Bassem si mostrasse taciturno. Da un po’ di tempo si era isolato, non partecipava più alle manifestazioni. Noi amici pensavamo che si fosse ammalato. Invece...». Invece Bassem era stato reclutato dalle brigate Al-Quds, il braccio armato della Jihad Islamica. Era stato scelto per una missione suicida. «Ho appreso della sua morte dalla radio - afferma Redwan -. Dicevano che un giovane terrorista palestinese si era fatto esplodere a un check-point israeliano. Qualche ora dopo ho visto tanta gente riunirsi attorno alla casa di Bassem. Allora ho capito: il mio amico aveva coronato il suo sogno». Un «sogno» che era costato la vita a due giovani soldati di Tzahal.
Ma Redwan non lo ha seguito sulla strada del martirio. «Non è per paura di morire - dice subito -. Chi è nato a Jabaliya ha imparato a convivere con la morte». E non è nemmeno per quelle parole che Intizar, sua madre, gli ha rivolto il giorno del «martirio» di Bassem. Redwan le ricorda ancora. «Mia madre mi chiese di giurarle che non avrei mai fatto quella cosa...Dopo la morte di mio padre avevo degli obblighi con la mia famiglia, dovevo pensare alle mie quattro sorelle...». Ma non è per questo che un giorno Redwan ha detto no al «reclutatore di shahid». Se lo ha fatto è perchè aveva incontrato il signor Faisal, il maestro che aveva fatto conoscere ai ragazzini di Jabailya la storia di «Grandi uomini» che avevano sconfitto armate potenti con la non violenza e la disobbedienza civile. «Grazie a lui abbiamo conosciuto la storia di Gandhi, di Mandela...». «Certo - aggiunge - loro non dovevano fare i conti con gli israeliani, però hanno fatto il bene di loro popoli. Hanno conquistato la libertà». Si può resistere senza trasformarsi in «shahid». Non è facile, ma è possibile. Si può vivere per un ideale senza che ciò significhi farsi strumento di morte. «Tra rassegnazione e terrorismo c’è una terza strada da battere: quella della intifada popolare non violenta», dice Hanan Ashrawi, già ministra dell’Anp, paladina dei diritti umani nei Territori. Redwan ne è convinto. E nasce da qui la sua storia di scudo umano. Nasce per difendere la casa di un suo vicino, Wael Barud, un comandante dei Comitati di resistenza militare (Crp), uno dei gruppi dell’intifada. «Nessuno me lo ha imposto - afferma deciso -. Ho visto delle donne che si radunavano attorno alla casa dei Barud. Le ho seguite. Era ancora notte. Sentivamo volare sopra di noi gli Apache (gli elicotteri da combattimento israeliani, ndr.). Il rumore era assordante. Poi sono arrivati i blindati e e i soldati. Avete mezz’ora di tempo per abbandonare la casa, poi inizieremo la demolizione, aveva avvertito un ufficiale israeliano». «Ma noi - dice orgoglioso Redwan - non ci siamo mossi. Ci siamo stretti uno accanto all’altro, abbiamo cantato, pregato. E abbiamo vinto». La casa difesa da Redwan è ancora in piedi. «I soldati israeliani - racconta - hanno minacciato di tornare. Ma noi saremo ancora qui ad aspettarli». Parola di Redwan Abu Daya
Entusiasta anche Michele Giorgio del MANIFESTO. "Gaza, l'Intifada sale sui tetti" si intitola il suo articolo, dove un'operazione a difesa dei terroristi viene presentata come l'inaugurazione di una nuova stagione di rivolta popolare non militarizzata.
Ecco il testo:
Per l'esercito israeliano è solo un «cinico sfruttamento come scudi umani di persone non coinvolte», ma tra i palestinesi cresce l'entusiasmo per la «difesa popolare» che comincia a scattare ogni volta che le forze armate dello Stato ebraico annunciano l'intenzione di distruggere l'abitazione di un militante dell'Intifada o di colpire un edificio in un'area densamente popolata di Gaza. Ieri c'è stato un nuovo caso, come quello di sabato notte, a Jabaliya. Alla notizia di un attacco imminente ad un palazzo, annunciato da Israele con un avvertimento agli abitanti del posto a lasciare subito la zona, decine di volontari chiamati a raccolta dagli altoparlanti delle moschee si sono disposti intorno alla casa presa di mira. Alcuni di loro hanno preso posto sul tetto sventolando bandiere. Hamas non ha mancato di cantare vittoria, descrivendo la tattica della «difesa popolare» come un nuovo successo contro Israele - lo stesso premier Haniyeh si è recato a far visita agli «scudi umani» che sabato proteggevano le case di Mohammed Baroud, dei Comitati di resistenza popolare, e di Mohammed Nawajeh, leader di Hamas nel nord di Gaza - ma l'accaduto rappresenta qualcosa di più significativo dei calcoli propagandistici di Hamas.
Nella mobilitazione di qualche settimana fa di decine donne intorno alla moschea di Beit Hanoun - due vennero uccise dal fuoco dei soldati israeliani - e in quelle avvenute in questi ultimi giorni si scorgono segnali di una rinnovata partecipazione della gente di Gaza, di una resistenza passiva, non armata, meno militante ma non per questo meno sentita, che potrebbe dare alla causa palestinese risultati più significativi, specie in termini di attenzione internazionale, rispetto all'inutile lancio di razzi artigianali che offre pretesti a Israele per attaccare Gaza e colpisce civili sull'altro versante. «Spero che l'accaduto rappresenti un cambiamento reale - dice al manifesto Jamal Zakut, noto esponente della società civile di Gaza - da sempre sono convinto che i palestinesi riusciranno a conquistare la loro libertà e indipendenza solo con una massiccia partecipazione popolare, con la resistenza passiva, con manifestazioni quotidiane di decine di migliaia di persone forti e determinate che nelle città, ai valichi, ai punti di transito (con Israele), armate di bandiere e striscioni, reclamino a gran voce i loro diritti. Non saranno un po' di mitragliatrici o qualche razzo artigianale a darci la libertà, ma il consenso internazionale alla nostra causa. È questo che teme Israele». Ieri tuttavia altri razzi Qassam sono stati lanciati da Gaza verso Israele dove hanno fatto solo danni leggeri. Intanto le Nazioni Unite hanno rinnovato la loro denuncia per il ferimento di due scolari palestinesi (uno ha 7 anni), colpiti due giorni fa da proiettili israeliani in una scuola dell'Unrwa, l'agenzia che assiste i profughi, nel nord della Striscia di Gaza. «I bambini non sono al sicuro neanche nelle classi delle Nazioni Unite», ha commentato John Ging, responsabile a Gaza dell'Unrwa. L'esercito israeliano sostiene di non aver svolto operazioni nell'area della scuola colpita.
Come è accaduto tante volte nei mesi passati, nel momento in cui viene dato per sicuro un accordo tra Hamas e Al-Fatah (il partito di Abu Mazen) per la formazione di un governo di unità nazionale, immancabilmente giunge dopo qualche giorno la notizia di una paralisi delle trattative. Nabil Amr, un consigliere di Abu Mazen, ha annunciato ieri che «le discussioni sono state sospese. Nessuno è soddisfatto dei risultati ai quali siamo giunti fino a questo momento». Le divergenze verterebbero non solo sul programma del futuro gabinetto ma anche sull'attribuzione di ministeri chiave, Finanze ed Interni, al quale Hamas - vincitore delle elezioni legislative dello scorso gennaio - non intende rinunciare. Il movimento islamico esige inoltre l'assicurazione che dopo la formazione del nuovo esecutivo di unità nazionale venga revocato il boicottaggio politico e finanziario imposto da Usa, Ue e Israele all'Autorità nazionale palestinese. Contrasti si registrano anche nel governo israeliano. Il quotidiano Ha'aretz ha riferito che il premier Olmert ha più di una volta respinto le richieste del ministro della difesa Peretz d'incontrare Abu Mazen dicendogli: «nessuno vedrà Abu Mazen prima di me». La disputa si è accesa quando Amir Peretz ha informato il premier Olmert di aver avuto una conversazione telefonica con il presidente palestinese.
Naturalmente né u.d.g. nè Giorgio si soffermano sul fatto che la tattica deglis cudi umani è stata possibile ed'è funzionata soltanto perché tutto ciò che hanno sempre scritto sull'esercito israeliano è falso e calunnioso.
Se l'esercito israeliano non avesse avvertito gli abitanti delle case che dovevano distruggere per esigenze militari i terroristi non avrebbero potuto chiamare la popolazione in loro soccorso.
Se Israele non avesse accettato di uccidere uomini e donne disarmati le case sarebbero comunque state distrutte.
L'esercito isrealiano ( e nessuno a quanto pare lo sa meglio dei terroristi) non uccide intenzionalmente civili.
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