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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
15.11.2006 D'Alema vuole trattare con l'Iran e continua a dare "buoni" consigli a Israele
Adriano Sofri difende la sua intervista all'Unità, ma non convince

Testata:La Repubblica - Il Foglio
Autore: Federico Rampini - Adriano Sofri
Titolo: «In Cina la crescita porterà la democrazia - Piccola posta»

Intervistato in Cina da Federico Rampini il ministro degli Esteri italiano Massimo D'alema ha modo di tornare anche sul Medio Oriente.
Ecco il testo dell'intervista, con i nostri commenti sulle parti che concernono quest'ultima regione ( sulla Cina osserviamo soltanto che l'indulgenza verso le dittature si sposa perfettamente al biasimo "sproporzionato" per le democrazie) :

FEDERICO RAMPINI
SHANGHAI - «Un salto di due secoli concentrato in trent´anni, è l´impressione che ti fa la Cina: da qui ci si rende conto che è il centro di uno dei più grandi fenomeni di sviluppo nella storia dell´umanità. L´Italia ha interesse ad agganciarsi a un evento di queste dimensioni, ad accompagnarlo, ad avere un ruolo. Alcuni imprenditori italiani lo hanno capito e sono stati premiati con successi notevoli. Tanti purtroppo hanno avuto paura, e il risultato è che tra i grandi paesi industrializzati siamo quello che investe di meno. La paura ha fatto male solo a noi, non è con la paura che possiamo frenare lo sviluppo cinese». Il ministro degli Esteri Massimo D´Alema conclude la sua missione in Cina con un appello al made in Italy: che non abbia solo la vecchia mentalità commerciale, il modello dell´export. «Oggi su mercati di questa dimensione non basta vendere, bisogna investire per conoscerli, per presidiarli».
La paura non è monopolio degli imprenditori. Una parte del mondo del lavoro, della sinistra, si interroga: è possibile competere con un colosso che non rispetta i diritti dei lavoratori, sfrutta i minori nelle fabbriche, non ha Welfare?
«Lo sfruttamento e la mancanza di diritti non è solo un male cinese, è comune a tanti altri paesi emergenti che non hanno questa forza propulsiva. E´ un errore ridurre a questo il dinamismo cinese: qui si respira una fiducia nel futuro, uno slancio collettivo, l´entusiasmo e l´orgoglio di una grande nazione. E´ chiaro che lo sfruttamento crea problemi e tensioni. In Cina ci sono i segni di un ciclo di conflitti operai. Il mondo del lavoro che è il motore della crescita comincia a chiedere il rispetto dei diritti, ci sono lotte spontanee, nuove forme di dissenso. La classe dirigente sembra consapevole che questi problemi vanno affrontati con flessibilità. Nel premier Wen Jiabao sento una sensibilità sociale nuova, si pone il problema di riequilibrare le diseguaglianze, di investire nella sanità, nelle regioni agricole più povere. Si prepara a varare una legge che, almeno sulla carta, garantisce il diritto alla contrattazione delle condizioni di lavoro. Non è simpatico che questa nuova legge cinese sia avversata da parte di grandi multinazionali, in particolare americane, espressione di quell´Occidente che si presenta come difensore dei diritti umani».
Quando lei ha posto la questione dello Stato di diritto, della libertà di parola, di religione, che reazione ha sentito? Non è deluso dalla lentezza della Cina in questo campo?
«Qualcosa si muove, per esempio con la recente riforma della pena di morte che consente l´appello alla Corte costituzionale: una novità che speriamo riduca l´applicazione della pena capitale. Con il ministro degli Esteri Li ho avuto un colloquio interessante a cena. Mi ha chiesto: lei che ha avuto esperienza di quel mondo, mi dica perché è fallita l´Urss di Gorbaciov. Poi ha fatto un grande elogio a Deng Xiaoping, per aver fatto uscire il paese dal caos avviandolo verso la modernizzazione. Io ho risposto: i dirigenti cinesi hanno capito che le riforme politiche se non poggiano su un´economia forte possono portare alla disgregazione, come nel caso dell´Urss. Però, ho aggiunto, l´economia di mercato spinge anche verso la democrazia politica. Li non ha risposto, ma assentiva in silenzio come a dire: lo sappiamo. Il loro grande problema è questo».
L´arretratezza cinese sui diritti umani rischia di essere contagiosa. Via via che estende la sua influenza nel mondo Pechino diventa il protettore di regimi oppressivi, come nel caso del Sudan.
«Ai miei interlocutori ho voluto ricordare la tragedia del Darfur. Ho detto chiaramente che critichiamo il sostegno che la Cina continua a offrire al governo del Sudan senza tener conto della terribile repressione di cui si macchia».
Sull´embargo europeo alle forniture militari lei ha ribadito una posizione che l´Italia ha da molti anni insieme con Francia e Germania: non si può mantenere una misura presa dopo la sanguinosa repressione del movimento democratico del 1989, perché la Cina di oggi non è la stessa del massacro di Tienanmen. La situazione non è certo quella del giugno ‘89, e tuttavia è davvero necessario vendere armi al regime di Pechino?
«Togliere l´embargo darebbe un segnale di normalità. L´embargo tra l´altro preclude a noi una cooperazione in molte tecnologie d´avanguardia, dal satellitare alle telecomunicazioni. Arrivare alla normalità significa applicare i criteri che usiamo per la maggioranza dei paesi del mondo: non vendiamo armi a chi fa la guerra, a Paesi che rappresentano una minaccia. Se la Cina si impone come una potenza pacifica e un fattore di stabilità non vedo perché dovremmo applicarle uno standard diverso. Fermo restando che dobbiamo continuare a incalzarla sui diritti umani».
Nello stesso giorno l´Iran conferma che manda avanti il suo programma nucleare; e il governo giapponese annuncia che potrebbe "legittimamente" costruirsi l´atomica, un´implicita reazione al test nordcoreano. L´escalation nucleare è una minaccia sempre più concreta. Ha come protagonisti due regimi, Teheran e Pyongyang, con cui la Cina ha robusti rapporti.
«I miei interlocutori a Pechino hanno ribadito l´assoluta contrarietà della Cina alla proliferazione nucleare. Sull´Iran abbiamo una forte convergenza: Cina e Italia sono convinte che la comunità internazionale deve esercitare la sua pressione su Teheran perché sospenda l´arricchimento dell´uranio. Il governo cinese è disposto a discutere anche delle misure contro l´Iran, purché siano proporzionate e reversibili, non siano un fine a se stesso bensì il mezzo per ritornare al dialogo. In Corea del Nord l´azione della Cina è apprezzata dagli Stati Uniti. La Cina si adopera per bloccare i progetti nucleari di Pyongyang, è preoccupata da una escalation del riarmo in Estremo oriente».

Di fatto però la Cina aiuta i programmi di Teheran, con il suo voto al Consiglio di sicurezza dell'Onu e con scambi tecnologici  sopratttutto nel settore missilistico

Cento persone sequestrate in un giorno a Bagdad. Mentre in America la sconfitta repubblicana rafforza il dibattito sul ritiro dalle truppe, si affaccia l´ipotesi di una tripartizione dell´Iraq tra una zona curda, una sunnita, una sciita.
«La ritengo rischiosa, potrebbe inasprire la conflittualità e perfino allargarla, per esempio con un conflitto tra curdi e Turchia. Sarebbe meglio un sistema costituzionale di forti autonomie dentro un patto federale. L´unica via è negoziare con le forze che si sono opposte alla presenza americana. Se è vero che si tratta di uno schieramento variegato, un accordo con sunniti e una parte degli sciiti può portare a isolare il terrorismo di Al Qaeda, che si è infiltrato in Iraq perché ha trovato delle solidarietà. Urge un negoziato aperto e spregiudicato».
Anche con l´Iran e la Siria?
«La soluzione del dramma iracheno comporta un impegno degli attori regionali.

L'Iran in realtà gioca un ruolo centrale nella destabilizzazione dell'Iraq. Affidarle il compito della sua stabilizzazione  sarebbe paradossale e rischioso.
Potrebbe avere l'effetto opposto a quello desiderato, dimostrando che l'appoggio al terrorismo paga.
 
Inoltre il regime degli ayatollah non sembra proprio disposto a nessuna concessione sui suoi obiettivi fondamentali: distruggere Israele ed esportare la rivoluzione islamica. Vogliamo offrirglieli come contropartita alla "stabilizzazione dell'Iraq" ?

Anche negli Stati Uniti oggi ci si pone il problema di cercare degli interlocutori. Senza una stabilizzazione del paese non è realistico che le truppe americane se ne vadano. L´America ha bisogno di essere aiutata. Si apre uno spazio di cooperazione tra l´Unione europea e gli Stati Uniti per disinnescare la crisi. Io continuo a pensare che per produrre una novità nel rapporto con il mondo islamico una chiave è fare dei passi avanti nello scenario israelo-palestinese. La leadership israeliana deve capire che è suo interesse migliorare rapidamente i rapporti con i palestinesi: è la condizione per evitare un ulteriore rafforzamento dei gruppi fondamentalisti tra i palestinesi.

"Migliorare i rapporti con palestinesi" evidentemente non dipende solo da Israele, ma anche dagli stessi palestinesi.
D'Alema non si è accorto delle ultime dichiarazioni degli esponenti di Hamas, che escludono categoricamente qualsiasi riconoscimento di Israele?
E del rapimento di Ghilad Shalit, e dei lanci di razzi kassam?

L´uso indiscriminato della forza non è conveniente neppure per Israele».

Israele non fa un uso "indiscriminato" della forza. Mira ai terroristi. Sono questi che deliberatamente compiono o cercano di compiere stragi indiscriminate.

La politica interna l´ha inseguita in un´aula universitaria di Pechino. Uno studente cinese le ha chiesto: ci spieghi qualcosa dei partiti italiani, la vostra politica così frammentata è incomprensibile. Una domanda forse ingenua, ma sembra che perfino in Cina arrivi l´immagine di un governo fragile, appena nato eppure già in crisi nel suo rapporto con l´opinione pubblica.
«A quello studente ho risposto che nonostante la complessità, la sostanza è che si confrontano un programma conservatore e uno di cambiamento del Paese; che abbiamo bisogno di evolverci verso un´alternanza imperniata su due grandi forze fondamentali; che nel centro sinistra stiamo cercando di costruirne una. Se lo si misura davanti alla sfida cinese, è ancora più evidente il grande lavoro che ci aspetta in Italia. Dobbiamo sapere che il rilancio della nostra competitività è un´azione che porterà frutti nel medio termine. Il valore di questa legge finanziaria è che prende di petto subito l´eredità negativa del passato anziché spalmarla gradualmente. Poi però è essenziale premere sull´acceleratore dello sviluppo, della crescita. I ritardi che abbiamo accumulato nell´economia globale sono la vera emergenza».

Di seguito, un articolo di Adriano Sofri, pubblicato dal FOGLIO , sulla precedente intervista di Adriano Sofri all'UNITA' :

Amicizia a parte, non sono persuaso che l’intervista di Massimo D’Alema all’Unità meritasse i rimproveri che ha raccolto. Ho letto il commento di Furio Colombo. Tengo in gran conto il sentimento di solitudine di Israele. Esso non può che influire sulle scelte dei suoi governanti, ma non toglie che possano essere sbagliate, o colpevoli. Dentro Israele la discussione su errori e colpe è libera e vivace, al punto di contraddire qualunque richiamo – e ricatto – del realismo politico o della ragion di stato. Nel mezzo di un duro scontro militare nel Libano la contestazione dell’operato dei capi militari non ha avuto riserve. Il presidente della Repubblica è stato incriminato per molestie sessuali. La protesta contro l’abuso di cluster bombs è più circostanziata e ampia che in qualunque altro luogo. Altrettanto netta è la protesta contro la pretesa che la tesi dell’“errore” a Beit Hanoun comporti l’impunità per i responsabili. Grossman non è solo, né dentro né fuori di Israele.

L'intervista a D'Alema andava decisamente oltre i legittimi dibattiti interni a Israele sulla legittimità e sull'opportunità delle singole azioni compiute in risposta all'aggressione terroristica che il paese subisce.
Perché dimenticava l'aggressione e negava
la legittimità della risposta. Per D'Alema Israele dovrebbe sempre e comunque "trattare" e "dialogare". Anche con chi non ne riconosce l'esistenza e la bombarda con i kassam, rapisce i suoi soldati , organizza attentati suicidi. Costui, secondo D'Alema, è un interlocutore legittimo ed obbligato per Israele nello stesso momento in cui conduce questa aggressione.
Vi sono per altro anche israeliani che condividono questa opinione. E' naturalmente un loro diritto, ma è anche diritto di chiunque altro considerare la loro posizione un pericolo per Israele.

 Ho una preoccupazione rispetto alla posizione di D’Alema, che non dipende tanto da quello che dice, ma da quello che non dice, o dice meno. Riguarda l’incombenza dell’Iran, che sta mutando l’intero paesaggio della questione mediorientale, e lo stesso scenario del conflitto fra Israele e Palestina.

Su questo, Sofri ha pienamente ragione. 

 Ne ho scritto molte volte, ne ho appena riscritto per la mia pagina di venerdì su Panorama, e a quella rimando.

Una ripetizione, però,  sarebbe apprezzata:  se si deve giudicare l'intervista a D'Alema non sembra proprio che la "dimenticanza" della minaccia iraniana sia un particolare laterale e secondario.

Mi pare invece un po’ forzato addebitare a D’Alema di ricadere nello stereotipo secondo cui gli ebrei, essendo stati vittime del più orrendo genocidio, sono tenuti a una speciale combattività contro i crimini e gli errori politici, e ancora più specialmente contro quelli di Israele.

Non sappiamo a chi si riferisca Sofri. Noi, per esempio, non abbiamo contestato a D'Alema questo stereotipo, ma la pretesa di dettare agli ebrei italiani la loro "corretta" posizione politica,  e l'attacco sconsiderato da parte di un rappresentante delle istituzioni al dissenso dalle sue posizioni politiche in seno alla comunità ebraica.

 Questo luogo comune è ignobile, anch’io l’ho denunciato molte volte (credetemi sulla parola, risparmiandomi le citazioni), ma mi pare che tutt’al più D’Alema abbia impiegato nell’intervista locuzioni frettolose – come quella: “Il mondo ebraico più democratico” – e che, piuttosto che a un supposto speciale dovere ebraico abbia fatto appello alla efficacia positiva che la libera voce di ebrei della diaspora può esercitare in una situazione in cui più drammatico è il bisogno di solidarietà di Israele, ma anche più allarmante la confusione e lo smarrimento della sua leadership politica.

"Amicizia a parte", questa sembra un'interpetazione troppo benevola delle parole di D'Alema

Non si è meno solidali con Israele, né più indulgenti con Hezbollah o con Hamas (e tanto meno con Ahmadinejad) se si riconosce il respiro corto e avventurista dell’invasione libanese e delle incursioni a Gaza, e la gravità delle vittime civili che provocano.

Si è "meno solidali" (eufemismo) con Israele se si nega che le vittime civili delle sue azioni militari non sono intenzionali e se le si attribuisce ad una sua politica e non alla necessità di difendersi (in un modo che può essere più o meno efficace ed intelligente) da un'aggressione. Che è quel che ha fatto D'Alema.

La guerra contro la Bosnia fu una delle occasioni nelle quali personaggi per il resto inerti quando non complici della sopraffazione si permisero di pretendere una speciale responsabilità dalla comunità ebraica. Ciò non impedì a suoi membri, e agli esponenti più rappresentativi, come Tullia Zevi, di evocare la propria esperienza della persecuzione per chiamare alla solidarietà con le vittime bosniache dell’intolleranza. “Noi ebrei non vogliamo far piangere. La Shoah è un documento di storia che ha una sua unicità. Ma… gli ebrei di allora sono i musulmani di Bosnia di oggi; c’è una forte analogia, lo sterminio continua”.
Mi pare che l’auspicio di D’Alema somigli a questo,

Non ci assomiglia per nulla, perché le politiche israeliane in Libano e a Gaza non hanno nulla a che vedere con l'aggressione serba alla Bosnia.

e non abbia a che fare con la melliflua e ignobile pretesa che gli ebrei, essendo stati sterminati, debbano militare come un sol uomo in un reparto speciale contro gli stermini e le cattive politiche.

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