Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Robert Fisk, il giornalista che piace a Bin Laden e se ne stupisce anche
Testata:Il Giornale - Il Manifesto Autore: Seba Pezzani - Michelangelo Cocco Titolo: ««Così Osama voleva arruolarmi» - Quel fuoco amico contro la democrazia»
Non è vero che, come afferma Robert Fisk nell'intervista rilasciata al GIORNALE dell'8 novembre 2006, nell'ambito della promozione del suo libro "Cronache mediorentali", nel 1948 l'esercito israeliano abbia espulso 750.000 palesstinesi. I profughi palestinesi, in numero probabilmente inferiore, abbandonarono le loro case per sfuggire alla guerra e su invito dei leader arabi. Solo in alcuni casi villaggi arabi furono evacuate dall'Haganah per necessità militari.
E solo un 'esempio delle molte distorsioni operate da questo giornalista così obiettivo da avere suscitato l'ammirazione di Bin Laden da definire il noto persecutore di ebrei e dissidenti iraniani Khatami "un grande personaggio", "integro, intellettualmente evoluto, propenso a far percorrere all'Iran una via illuminata".
Ecco il testo dell'intervista:
«Fu spaventoso. Fu uno dei momenti più terribili della mia vita». Robert Fisk vive da circa trent'anni nel Medio Oriente, spostandosi tra uno scenario bellico e l'altro, muovendosi a proprio agio in alcuni dei teatri di guerra più sanguinosi della contemporaneità. Eppure, il riferimento non è al sacrificio di una bomba umana su un autobus di Tel Aviv, alla morte di un bambino colpito da un proiettile vagante in un mercato di Bagdad e nemmeno all'esecuzione di un giornalista occidentale su una strada dell'Afghanistan a opera di una banda di predoni. Fisk si riferisce alla volta in cui bin Laden, dopo averlo incontrato, sostanzialmente cercò di reclutarlo alla causa di al Qaida. Il suo saggio Cronache Mediorientali (Il Saggiatore, pagg. 1184, euro 35) è un monumentale condensato di storie personali ed esperienze di vita a cui fanno da sfondo millenni di violenze e guerre senza soluzione. La dimensione del tomo potrebbe spaventare, ma lo stile partecipe e appassionato rende la lettura avvincente. Robert Fisk, inviato dell'Independent e della radio canadese, è una voce acuta e critica, sempre pronta a esprimere dissenso, se non addirittura sdegno, nei confronti di un Occidente che non si è mai spogliato completamente della propria vocazione colonialista così come del Medio Oriente musulmano, incapace di trovare un'unità di intenti e di superare le spinte fondamentaliste. Fisk resta un giornalista scomodo, inviso a vinti e vincitori in quasi tutti i contesti di guerra in cui si è venuto a trovare. Perché pensa che bin Laden abbia scelto di farsi intervistare proprio da lei? «In realtà, fu un amico comune saudita dotato di grande senso dell'umorismo a pensare che sarebbe stato buffo assistere a un incontro fra bin Laden e un giornalista occidentale. Da solo non ce l'avrei fatta. Certo, bin Laden deve aver considerato onesti e interessanti i miei articoli, visto che mi ha concesso altre due interviste. Io stesso ho fatto il prezioso, per non dargli la sensazione di morire dalla voglia di incontrarlo, e credo di essergli piaciuto quando gli ho chiesto di spiegarmi com'era stato combattere contro i russi in Afghanistan». Da bin Laden a Saddam Hussein. Che cosa pensa della sua condanna? «Questo non è un gran giorno per l'Irak, un Paese in fiamme. Se non fossi contrario alla pena di morte, direi che è giusto che Saddam venga impiccato. Però, il suo processo non si è uniformato agli standard internazionali della giustizia. Saddam dovrebbe essere giudicato dal Tribunale Internazionale dell'Aia. D'altra parte, giustiziare il mostro che noi occidentali abbiamo creato mi sembra una grande ipocrisia». La storica intolleranza per lo straniero e un più recente fondamentalismo religioso sembrano gli elementi comuni del tormentato Medio Oriente. Come commenta questa situazione? «Una insegnante al Trinity College di Dublino, dove mi sono laureato, mi ha fatto leggere alcune opere teatrali scritte da autori spagnoli del XVI secolo, all'indomani dell'espulsione dei Mori e dei Giudei dall'Andalusia. Sono testi satirici, estremamente irrispettosi nei confronti del profeta Maometto. Prima di allora, l'Occidente aveva già mostrato di che pasta era fatto con le Crociate. Nell'XI secolo, i crociati vinsero la fame divorando i cadaveri dei loro nemici a Homs. Oggi, invece, assistiamo a un'erronea interpretazione dell'Islam secondo cui si tratterebbe di una religione votata alla guerra. Non si parla mai di Islam e Cristianesimo, bensì di Islam e Occidente, perché i musulmani hanno conservato la loro fede mentre i cristiani l'hanno persa». La questione palestinese è al centro del suo libro. Ci sono speranze? «Solo restaurando i confini che hanno preceduto i fatti del 1967 si può pensare a una risoluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano. C'è stato un momento in cui persino i palestinesi si erano rassegnati a una riduzione del loro territorio. Ora, invece, anche loro si sono radicalizzati». Non le sembra bizzarro che, in un'epoca in cui la tecnologia dovrebbe aver preso il sopravvento anche in campo militare, siano ancora le figure carismatiche a far volgere le sorti di un conflitto? «Non mi piace la parola “carisma”. Non mi piacciono nemmeno le parole “terrorismo”, “crociata” e “processo di pace” perché sono diventate dei cliché. Ma è pur vero che certi grandi personaggi del passato non ci sono più. Gente come Churchill, per esempio. Oggi lo scenario internazionale è popolato da nanetti che noi vorremmo fossero titani. Ho incontrato gente di notevole levatura, come l'ayatollah Khomeini. Non so se avesse carisma. Quel che so è che certe vibrazioni, per quanto sinistre, le ho percepite. Un grande personaggio l'ho conosciuto. Mi riferisco a Khatami, un uomo integro, intelligente, intellettualmente evoluto, propenso a far percorrere all'Iran una via illuminata. Peccato che l'Occidente volesse qualcosa d'altro». Guerra di civiltà, cioè crociata. Un'espressione usata tanto da Bush quanto da bin Laden. Questione di carisma o di propaganda? «Credo che sia sempre la violenza e non la personalità di un individuo a cambiare il corso della storia. Comunque è vero, sia l'uno sia l'altro hanno utilizzato quell'espressione». Lei ha più volte dichiarato che la democrazia non si costruisce sulla sabbia, bensì sulla giustizia. Che cosa intende dire? «Che per avere un futuro di pace in Medio Oriente è fondamentale iniziare ad ammettere alcuni errori commessi. Per esempio, la creazione di un tiranno come Saddam Hussein, l'espulsione di 750mila palestinesi dalle loro case a opera dell'esercito israeliano nel 1984, la gestione poco illuminata dei profughi ebrei dopo la seconda guerra mondiale, il genocidio armeno a opera dei turchi, la sperequazione delle forze nel conflitto fra palestinesi e israeliani, la necessità di assicurare a Israele la sicurezza all'interno dei suoi confini». Pensa che la mancanza di unità degli arabi abbia impedito al conflitto mediorientale di assumere una portata più vasta? «Dopo la prima guerra mondiale, molti diplomatici americani in Medio Oriente chiesero al loro governo di favorire la nascita di una grande nazione araba che andasse dalla Mesopotamia al Mediterraneo e al Mar Rosso. Uno stato arabo moderno ispirato a principî democratici avrebbe forse posto le basi per un futuro diverso. Sappiamo che la democrazia non si crea nello spazio di una notte, ma certo sarebbe stato un inizio. Le cose andarono diversamente, anche perché l'allora presidente degli Stati Uniti stava morendo. Inoltre, in certi casi, l'Occidente tarpò le ali a movimenti insurrezionali che si proponevano di instaurare modelli di governo alternativi alle tirannidi imperanti in molti stati mediorientali».
Intervistato dal MANIFESTO Fisk diventa più esplicito: rifiuta di utilizzare la parola terrorismo e ribalta i rapporti causali gli attacchi di Al Qaeda e la risposta militare occidentale. Ecco il testo:
«Mi ricordo una perquisizione americana di case a Baghdad, subito dopo la cattura di Saddam: fu tutto un abbattere porte a calci e uno strillare e un fottiti qui e fottiti là. A qualche metro di distanza, qualcuno aveva da poco tracciato un messaggio sul muro, con la vernice spray e non a mano libera, ma con una mascherina: "Soldati americani corretevene a casa vostra prima di essere un corpo in un sacco nero e finire buttato in un fiume o in una valle"». Così Robert Fisk, nel suo Cronache mediorientali (pubblicato da il Saggiatore, pp. 1180, euro 35) racconta uno dei tanti episodi che hanno contribuito al fallimento dell'esportazione della democrazia con le armi. Il libro del corrispondente da Beirut del quotidiano britannico The Independent è il frutto di sedici anni di lavoro, di un pellegrinaggio quasi ininterrotto tra Gerusalemme, Baghdad, Kabul e i luoghi simbolo del Medio Oriente, a cavallo di tutti i conflitti che hanno sconvolto quella parte di mondo negli ultimi tre decenni. Ne abbiamo parlato con l'autore, a Roma per presentare il suo libro. Lei sostiene che gli Usa abbiano invaso l'Iraq per cambiare la mappa del Medio Oriente, come i britannici della generazione di suo padre fecero ottant'anni fa. A che punto è questo processo? Il loro progetto è fallito. L'America ha invaso l'Iraq senza un piano per il dopoguerra, solo con l'ideologia. «Esportare la democrazia con le armi». Ma se quando vai in guerra per interessi nazionali puoi vincere, quando affronti un conflitto per motivi ideologici perdi. Se attacchi per motivi ideologici il Medio Oriente - dove la popolazione è musulmana - fallisci due volte. Durante la Seconda guerra mondiale, nel 1941, prima dell'assalto dell'Unione sovietica da parte dei tedeschi, il primo ministro Churchill creò a Londra un comitato per esaminare la condotta da tenere dopo la vittoria e l'occupazione della Germania. Fece quella mossa quattro anni prima della fine del conflitto. Gli americani non hanno fatto nulla di simile, nemmeno quattro giorni prima della caduta di Baghdad. Ora il pericolo è che prenda fuoco tutta la regione e che gli Usa possano chiudersi in un nuovo isolazionismo come quello della presidenza Wilson, dopo la prima guerra mondiale. Il suo non è un libro di «storia diplomatica», nel racconto viene riservato un ruolo importante alle vittime. Chi sono le persone che subiscono questa cosiddetta «guerra al terrorismo»? Bush e Blair hanno dichiarato che l'11 settembre ha cambiato il mondo. Non è vero, sono loro che ne hanno approfittato per ignorare le risoluzioni (come quelle sulla Palestina) e le convenzioni internazionali (come quelle di Ginevra), per varare una serie di leggi emergenziali negli Usa come in Gran Bretagna e altrove. Guantanamo, Bagram e Abu Ghraib sono i simboli più evidenti di questo stravolgimento di valori. Se accetteremo questi cambiamenti, allora Al Qaeda avrà vinto, perché sarà riuscita a distruggere la libertà delle nostre società. Le vittime in carne e ossa di questa guerra invece vivono in Medio Oriente e nella stragrande maggioranza dei casi sono musulmane. Le loro case e le loro vite vengono distrutte da armi fabbricate da noi in Occidente. Alla fine stiamo tutti diventando vittime delle bugie (come quella sull'esportazione della democrazia) di un numero ristretto di potenti. Siamo tutti governati da quello che io chiamo «Ministero della paura». Che cosa rapresenta la condanna a morte di Saddam Hussein? Un'ipocrisia totale. Saddam Hussein è certamente un mostro - responsabile della morte di centinaia di migliaia di persone - ma è il nostro mostro. L'abbiamo creato noi, ma nel corso del procedimento legale non gli è stato permesso di parlare delle sue relazioni passate con gli Stati Uniti - gli Usa gli hanno fornito i gas con i quali ha compiuto alcuni dei suoi massacri - perché il processo che ha portato alla condanna alla pena capitale riguardava, guarda caso, la strage di Dujail nella quale i gas non c'entravano. Leggendo i capitoli dedicati all'Afghanistan sembra che gli errori fatti dai britannici oggi a Kabul siano gli stessi che fecero i sovietici quasi trent'anni fa. Come è possibilie che non abbiano imaparato nulla dalla storia? Nel 1980, quando invasero il paese, partecipai a una conferenza stampa tenuta da un generale sovietico alla base aerea di Bagram: disse che stavano ripulendo le montagne degli ultimi rimasugli di banditi. Nel 2002 tornai nello stesso posto, questa volta per ascoltare il discorso di un generale statunitense: annunciò che presto avrebbero spazzato via dai monti le ultime sacche di resistenza dei taliban. Da un lato, una volta che si mette in moto una macchina bellica, è difficile fermarla. Dall'altro gli afghani - che subiscono quotidianamente vittime civili nella caccia occidentale a bin Laden - aspettano, per vedere se l'Occidente è in grado di portare loro aiuto. Se riterranno di no, annienteranno le truppe straniere, preferendo il governo dei taliban a quello corrotto del presidente Karzai. Lei è molto critico nei confronti del modo in cui i media trattano i conflitti, se la prende anche con la Bbc che qui da noi è quasi un mito... Il loro lavoro dovrebbe essere quello di sfidare, controllare l'autorità, i governi, non semplicemente di fungere da loro portavoce. Guarda questo articolo (Fisk tira fuori la prima pagina del Los Angeles Times del 16 novembre 2005). È un pezzo sull'Iraq e su Al Zarqawi. Ecco le fonti: un membro del governo dice che..., fonti dell'esecutivo riferiscono che..., secondo le autorità americane..., l'anti-terrorismo ritiene che..., le autorità giordane concludono che... Guarda le conferenze stampa alla Cnn: un giornalista fa una domanda ed esordisce: Signor presidente. E Bush, come rivolto a un amico: sì John, dimmi. Molti giornalisti hanno paura di sfidare il potere, soprattutto in una nazione che è in «guerra contro il terrorismo». Che cos'è oggi il terrorismo di matrice islamica? Io non uso la parola terrorismo. Si tratta di un termine che viene utilizzato a sproposito dai potenti e dal quale finiamo per essere ossessionati, perdendo di vista il vero problema: c'è una Al Qaeda e colpirà di nuovo. Il grosso cambiamento è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale: nel passato potevamo permetterci delle avventure all'estero, potevamo mandare i nostri eserciti in Corea ed esser certi che nessun nordcoreano sarebbe venuto a far esplodere la metropolitana di Londra, potevamo andare in Vietnam e stare sicuri che nessun vietcong sarebbe andato a farsi saltare in aria a Washington. Ora tutto ciò è cambiato non possiamo essere sicuri né in Gran Bretagna né negli Usa né in Italia. Possono venire da noi. E lo faranno. Perché la gente che ha i propri villaggi bombardati in Afghanistan non può essere più sicura e così non lo siamo noi: è questa l'equazione portata da bin Laden e Al Qaeda.
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