Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La giustizia di fronte ai crimini di Saddam Hussein le analisi di Daniel Pipes e Christopher Hitchens
Testata:La Repubblica - Corriere della Sera Autore: Riccardo Staglianò - Christopher Hitchens Titolo: «"Alle vittime l'ergastolo non basta" - Un'eredità da cancellare per voltare pagina»
Dalla REPUBBLICA del 7 novembre 2006:
Ogni condanna ha le sue controindicazioni. L´ergastolo evita malumori umanitari ma lascia a bocca asciutta le vittime. La pena capitale chiude il capitolo ma spalanca le polemiche. E anche la tortura potrebbe essere un´opzione. Daniel Pipes non si scandalizza di niente. Grande esperto di Medio Oriente il direttore del Middle East Forum è un neocon anomalo. Condivide la teoria di cambiare il mondo con le armi ma poi, in pratica, critica la gestione bushana della guerra. Dice: «Sulla filosofia concordiamo, sulla tattica no». Cosa si dovrebbe fare con un dittatore come Hussein? «È un problema con cui gli Stati Uniti si sono misurati a partire dal 1945. A Norimberga condannarono a morte due dozzine di alti ufficiali nazisti. Il problema per Hitler non si pose perché si suicidò prima. E fortunatamente a Mussolini ci pensarono i partigiani mentre all´imperatore del Giappone fu concesso di restare in carica sino al 1989». Con Saddam gli americani hanno pensato di cavarsela rimettendo la decisione ai giudici iracheni? «Sì, ma i dilemmi non mancano. Se lo si lascia marcire in carcere si evitano problemi politici ma non si rende giustizia alle vittime. Ucciderlo, invece, è un punto finale emotivo ma può provocare ulteriori violenze». Il raìs ha chiesto almeno di essere fucilato, da militare... «Impiccagione o plotone di esecuzione sono due modi relativamente indolori, una soluzione decente. Sottoporlo alle stesse torture che ha inflitto al suo popolo funzionerebbe da ricompensa psicologica per le vittime e da deterrente per gli altri dittatori. Infine, farlo giudicare dai suoi connazionali evita una grana agli Usa ma esacerba le tensioni tra sciiti e sunniti. Insomma, non esistono scelte facili». Che influenza avrà la condanna sulle elezioni di mid term? «Difficile dire. Avvantaggerà i repubblicani ma in maniera modesta. È solo l´ultimo di una serie di eventi. E, se si passa dai simboli alla realtà, renderà la situazione sul terreno ancora peggiore». Alcuni importanti neocon, Richard Perle in testa, hanno cambiato parere sulla guerra. Tornassero indietro non la farebbero più. E lei? «Non sono d´accordo con loro. Per me è stata e resta la cosa giusta da fare. Ma l´errore fondamentale è stato quello di assumersi la responsabilità del futuro dell´Iraq. Un errore che continuiamo a fare». Cosa intende dire, precisamente? «Che, anche se abbiamo rimosso un dittatore, non siamo tenuti ad occuparci della ricostruzione democratica di quella nazione. Anche in Somalia c´è un´escalation islamista: dobbiamo intervenire? No. E lo stesso si applica all´Afghanistan. Non vale la regola di Pottery Barn (una catena di negozi di accessori per la casa, ndr) per cui chi rompe paga... «. Propone il ritiro delle truppe, quindi? «No, preferisco una via di mezzo. Restare ma cambiando marcia. Intendo dire spostare le truppe dalle città, le più sanguinose, a quelle più disabitate. Così si ridurrebbero molto le vittime limitando i compiti al pattugliamento di funzioni vitali. Ovvero che gas e petrolio continuino ad arrivare. Che la Siria e l´Iran non si facciano venire strane idee. Che le milizie non procedano a qualche forma di genocidio». Una "terza via" tra andare e restare, insomma... «Sarebbe un ruolo utile per i nostri soldati. Non perderemmo influenza ma non avremmo una responsabilità totale. E non sarebbe per sempre, ma per un tempo significativo».
Dal CORRIERE della SERA, un editoriale di Christopher Hitchens:
Di tutte le frasi che ha urlato alla fine dell'udienza — Allahah akbar, Dio è grande, resta una delle sue esclamazioni preferite, Corano in pugno — certo quella di «Viva i Curdi!» è stata la migliore. Per quanto ne sappia io, è la prima volta che Saddam Hussein si lascia andare a questi sentimenti. Ma l'ironia, se di ironia si tratta, va nel senso contrario, perché il presidente dell'Iraq, il leader curdo Jalal Talabani, si oppone per principio alla pena capitale. Appena prima dell'arrivo delle forze della coalizione in Iraq, uno dei leader più rispettati del Kurdistan, Barham Salih, è scampato a un attentato per mano del gruppo Ansar-al-Islam. Diversi suoi collaboratori hanno trovato la morte. Gli attentatori sono stati catturati, processati e condannati a morte. Salih è oggi il vice primo ministro dell'Iraq, ma all'epoca spettava a lui firmare le condanne capitali nel Nord del Paese. Salih si rifiutò di firmare le condanne di coloro che avevano assassinato i suoi amici e per poco non avevano ucciso anche lui. All'epoca, mi disse che sperava che nel nuovo Iraq la pena capitale sarebbe stata abolita, «anche quando prenderemo Saddam Hussein». Secondo Salih, l'Iraq avrebbe iniziato la sua nuova vita senza la pena capitale. Ho parlato a lungo con molti dissidenti iracheni che condividono questa convinzione. Quasi tutti i precedenti cambi di regime nel Paese si sono contraddistinti per l'esecuzione degli esponenti della precedente leadership: forse è giunta l'ora di liberarsi di questa sconfortante eredità. A maggior ragione oggi, che persino la Turchia, Paese confinante, ha abolito la pena di morte, per adeguarsi alle direttive dell'Unione Europea. Perché mai l'Iraq non dovrebbe segnalare, allo stesso modo, la sua appartenenza alla comunità delle nazioni civili? Sono completamente d'accordo con questo punto di vista: il simbolo speciale dell'Iraq sotto Saddam Hussein era il boia. L'intero Paese era un campo di concentramento in superfice, e una fossa comune sotto terra. Anche se il nome di «Abu Ghraib» ha acquisito di recente nuove e ripugnanti associazioni, io non dimenticherò mai la vista di quelle forche e quei ganci, appesi sopra buche di calcestruzzo, dove decine di migliaia di vittime venivano quotidianamente giustiziate per strangolamento, o peggio. Mettere fine a tutto questo è un obiettivo giusto e meritevole. Ma l'argomento a favore della pena capitale, o a favore del silenzio se questa verrà comminata, è il seguente: Saddam Hussein è stato processato sotto la legge irachena, la medesima in vigore anche sotto la sua dittatura, ed è stato condannato secondo quella legge. Anzi, Saddam Hussein ha avuto quel processo spesso negato alle sue vittime, ed è giusto che la sentenza venga rispettata, anche se il parlamento iracheno deciderà in seguito di abolire la pena di morte. Questo potrebbe essere tecnicamente corretto, ma fino a poco tempo fa altrettanto corretta è stata la difesa per il principio del sovereign immunity, «l'immunità del sovrano», che stabiliva che i capi di Stato non potevano essere processati sotto la normale giurisdizione. In parte respinta dalla Camera dei Lord britannica nel caso di Pinochet, e dal processo a Slobodan Milosevic, questa dottrina sta cedendo il passo all'idea di una «giurisdizione universale», per la quale crimini come la tortura e il genocidio vengono equiparati alla pirateria e sono perseguibili in qualunque luogo si trovi l'imputato. Nel caso in questione, il tribunale iracheno dovrebbe conformarsi a uno standard di procedura universale, che potrebbe non prevedere quanto accaduto nel processo a Saddam, come la recente sostituzione del presidente del collegio giudicante, che si era dimostrato troppo accomodante verso l'imputato. Vi è però un altro argomento, che non ha nulla a che vedere con la legislazione e riguarda lo strano concetto di «chiusura» del caso. Un termine più indicato sarebbe «catarsi». Ad esempio, dopo il 1945, sarebbe stato grottesco pensare allo sterminio di milioni di ebrei, polacchi, russi e zingari, mentre i loro assassini erano ancora in vita, a rilasciare interviste e a scrivere le loro memorie. L'impiccagione dei principali criminali nazisti è stata un'operazione più igienica che legale, l'unica che abbia dato la certezza assoluta alle vittime superstiti (come pure ai simpatizzanti rimanenti) che non ci sarebbe stato un ripetersi dell'orrore. La nostra umanità, in questo caso, sta dalla parte della pena capitale. Norimberga ha dato il colpo di grazia al corpo in decomposizione del fascismo e ha consentito ad altri di respirare liberamente. L'Iraq è un Paese in preda alle convulsioni febbrili delle voci e della paranoia: non finisco mai di meravigliarmi al vedere il fremito di terrore che passa sul volto della gente al solo sentir menzionare il nome del loro sanguinario dittatore. Milioni di persone non potranno nemmeno cominciare a rilassarsi se non saranno sicure che il grande lupo mannaro non tornerà più. In questo senso, si potrebbe sostenere che impiccare il principale boia e aguzzino sarebbe un atto di emancipazione di massa. Ma questo mi sembra ancora un esorcismo più che un'esecuzione, una concessione alla superstizione e alle emozioni più primitive. E di queste ne abbiamo già abbastanza nell'Iraq di oggi. Una forte obiezione a tutte le esecuzioni è che comportano la distruzione dell'evidenza. Una volta rimosso dalla scena, l'imputato non è più in grado di far luce sul crimine, mentre le indagini spesso devono essere riaperte. Il processo a Saddam Hussein, come quello di Pinochet e di Milosevic, avrebbe dovuto essere l'occasione per raccogliere un immenso archivio di prove conclusive, da preservare per tutti i tempi come monumento alla giustizia e garanzia contro un possibile, successivo «revisionismo». Se Saddam cadrà giù nella botola, non avremo più modo di ascoltare le sue spiegazioni di due avvenimenti storici importantissimi: la campagna «Anfal» per lo sterminio dei curdi negli anni Ottanta, e il modo sanguinario in cui si ristabilì al potere dopo la guerra contro il Kuwait. E resterà sempre il sospetto che avrebbe potuto puntare il dito contro la complicità dell'Occidente in entrambi questi tremendi episodi. Saddam avrebbe dovuto essere processato molto prima del 2003 da un tribunale internazionale e il rifiuto dei governi britannico e americano di accogliere questa proposta resterà una macchia sul nostro sistema di governo. Ho sempre trovato assurdo il termine «giustizia del vincitore», dato che i tribunali sono invariabilmente allestiti dai poteri in carica. Come sarebbe apparsa la «giustizia del perdente» a Norimberga o all'Aia? Ma è per i perdenti, o in altre parole le vittime, che occorre ricercare innanzitutto la giustizia. È deplorevole che i curdi non sono stati chiamati a svolgere un ruolo centrale in questo processo, come pure è ammirevole vedere che i loro leader sono i più favorevoli alla clemenza. E questo, tra l'altro, è il popolo che, a sentire i liberal di tutto il mondo, dovremmo abbandonare al suo destino.