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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
27.10.2006 Iraq, guerra al terrorismo, Medio Oriente
come cambierà la politica americana dopo le elezioni di Midterm ?

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - la redazione - Christian Rocca
Titolo: «Come battere George Bush con le sue armi - Alla frontiera di mid-term»

Si avvicinano negli Stati Uniti le elezioni di Midterm per il Congresso.
Si tratta, evidentemente, di una consultazione  che influenzerà anche la guerra contro il fondamentalismo terrorista e la politica statunitense in Medio Oriente.
Per questo, segnaliamo alcuni utili approfondimenti.
Dalla STAMPA, un articolo di Maurizio Molinari sull'emergere di candidati democratici conservatori sui valori religiosi e famigliari e (ciò che più ci interessa)  decisi a rivelaggiare con i repubblicani nell'intransigente difesa della sicurezza nazionale  americana ( e dunque nella lotta al terrorismo):

I cani blu stanno andando all'assalto degli Stati rossi e se riusciranno nell'impresa il 7 novembre l'America cambierà volto. I cani blu (Blue Dogs) sono i candidati di orientamento moderato, se non addirittura conservatore, grazie ai quali il partito democratico tenta di fare breccia negli Stati rossi - i «Red States» repubblicani - come Ohio, Indiana, Missouri, Tennessee, North Carolina e Virginia per vincere le elezioni di Midterm e tornare a conquistare il controllo di entrambi i rami del Congresso per la prima volta dopo dodici anni.
Sebbene guidati da un presidente ultraliberal come Howard Dean, i democratici si affidano ai cani blu perché facendo leva su fede, patria e famiglia possono insinuarsi nei dubbi che l'elettorato conservatore ha nei confronti dei repubblicani del presidente George W. Bush a causa del perdurare delle violenze in Iraq, dell'aumento della spesa pubblica come di numerosi scandali finanziari e sessuali. Nelle file della «Blue Dogs Coalition» vi sono personaggi come Brad Ellsworth, lo sceriffo dell'Indiana nemico giurato di aborto e nozze gay, Heat Shuler, l'ex quarterback dei Washington Redskins che si candida in North Carolina assicurando che non voterà mai un liberal doc alla guida della Camera dei Rappresentanti, e Harold Ford, rampante afroamericano del Tennessee, figlio di ricchi «con la fede nel cuore». Il testimonial nazionale di questa offensiva di candidati locali è Barack Obama, il senatore dell'Illinois stella della Convention di Boston del 2004 che professa «Dio e pluralismo», vuole «inseguire ovunque i terroristi» ed è circondato da folle di sostenitori pronti a versargli fiumi di dollari che lui poi recapita ai singoli candidati. Obama è in questi giorni il politico più popolare degli Stati Uniti ed il fatto che si tratti di un quarantenne afroamericano che sprona i liberal ad evitare derive pacifiste e laiciste svela la mutazione a cui i democratici affidano le speranze di un riscatto dal tracollo del 1994.
Riuscendo a conquistare la Camera, come i sondaggi suggeriscono, e forse anche il Senato i democratici coglierebbero due successi. Primo: il presidente Bush diventerebbe un'anatra zoppa, obbligato a patteggiare con il Congresso ogni decisione, a cominciare dai fondi per le truppe in Iraq. Secondo: il successo nei «Red States» ed il tramonto anticipato di Bush aprirebbero subito la corsa alla Casa Bianca nel 2008.
Ma al verdetto delle urne mancano ancora undici giorni. Anche nel 2002 e nel 2004 i democratici arrivarono favoriti all'Election Day per uscirne poi sconfitti. L'architetto di quelle vittorie repubblicane, Karl Rove, è convinto che riuscirà ancora a beffare gli avversari con l'operazione «ultime 72 ore» ovvero la mobilitazione capillare di tutti i potenziali elettori nei collegi decisivi, facendo ricorso ad un misto fra patriottismo, nuove tecnologie e volontariato. E se riuscisse a scongiurare la valanga democratica a dispetto di tutte le previsioni Rove consegnerebbe a Bush l'alloro dell'invincibilità.

Dalla prima pagina del FOGLIO, un'intervista a Richard Perle, già consiglere del Pentagono nell'amministrazione Bush ed esponente del pensiero neo-con, ma democratico, che proprio sui temi  della sicurezza nazionale critica il suo partito:


Washington. “Sono un democratico. Il presidente Ronald Reagan mi nominò al dipartimento della Difesa e non mi chiese mai di cambiare il partito cui ero iscritto, né mai io l’ho fatto”. Richard Perle – consigliere del Pentagono fino all’ultima tornata elettorale, considerato il più falco dei falchi neocon, il feticcio di tutti i liberal radicali, che lo considerano l’uomo nero che da dietro le quinte manovra George W. Bush come un burattino – dice al Foglio che non sono le compagini a cambiare il mondo, ma le idee.
Le sue idee sono chiare da sempre, da quando è stato assalito dalla realtà e ha cominciato a guardare il suo partito con occhio critico: oggi dice che “è in una forma pessima, soprattutto sui temi di sicurezza e di politica estera”. Basta vedere Joe Lieberman, il senatore del Connecticut – e amico di Perle – che si è visto scalzare alle primarie da un miliardario ispirato da Michael Moore e che ora deve correre da indipendente: “Sono sicuro che Joe vincerà – dice Perle con tono rassicurante – e che porterà qualche democratico a ripensare a quanto sia pericoloso che il partito si sia spostato troppo a sinistra”. A Washington gira voce che Perle voglia tornare a fare politica con la sinistra. Lui non conferma e non smentisce, dice “beh, sono un democratico” con fare evasivo, ma poi aggiunge che il cambiamento d’equilibrio al Congresso – l’ultimo sondaggio di Zogby (lo stesso che dava John Kerry presidente nel 2004) concede un vantaggio di undici punti percentuali ai liberal – non sarà così “significativo” come molti sostengono. “I democratici possono arrivare a vincere alla Camera – dice – ma non di tantissimo. Qualcosa muterà, soprattutto in politica interna”. Sulla scena internazionale molto meno, quasi per niente, secondo Perle. Il quale confida in un suo amico, il democratico Tom Lantos, che dovrebbe prendere la guida della commissione per le Relazioni internazionali: “Porterà avanti i lavori in modo intelligente. Le conseguenze in politica estera non saranno così profonde come molti dicono”. La dottrina Bush non morirà: “L’assalto da parte della sinistra più dura non riguarda i neocon, è un attacco al ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Un attacco a Israele e al sostegno di Washington alle politiche di Gerusalemme”. Non è uno scontro tra partiti, ma tra idee, e alcuni democratici stanno già rendendosi conto che certe politiche sono indispensabili per la sicurezza del paese. Perle cita Barack Obama, “un giovane, intelligente ed energico, che – se riuscirà ad applicare la sua intelligenza ai vari temi – avrà un grande futuro”. Ma per il 2008 il cuore di Perle sobbalza per Rudy Giuliani, repubblicano ex sindaco di New York: “La sua candidatura mi renderebbe entusiasta”.

Sempre dal FOGLIO, un articolo di Christian Rocca sulla politca dell'amministrazione Bush in Iraq, e sulle  possibili ripercussioni delle elezioni su questo fronte: 

New York. Iraq e immigrazione. C’è un gran via vai alla Casa Bianca, a pochi giorni dalle elezioni di metà mandato del 7 novembre. Ieri mattina, circondato dai leader del Congresso, George W. Bush ha firmato la legge anti immigrazione che, tra le altre cose, prevede la costruzione di una barriera protettiva lungo il confine con il Messico. Non è la sua legge, questa. Bush avrebbe voluto legalizzare, sia pure temporaneamente, la presenza degli immigrati clandestini che lavorano negli Stati Uniti, ma il Congresso ha deciso di adottare un provvedimento molto più restrittivo. Gli esperti sostengono che questa firma aiuterà i candidati repubblicani a recuperare nei collegi, ma la questione principale resta quella dell’Iraq. Fino a un paio di giorni fa la regola della campagna elettorale era questa: i repubblicani evitano di parlare di Iraq, concentrandosi sulle questioni di sicurezza nazionale e magari sull’economia, mentre i democratici cercano di ricordare in ogni modo possibile il fallimento dell’intervento militare deciso da George W. Bush (con il loro consenso). Lo schema è stato seguito alla perfezione dall’opposizione democratica, mentre i repubblicani – travolti da scandali sessuali e continue cattive notizie provenienti dall’Iraq – non sono riusciti a spostare l’attenzione sulla guerra al terrorismo, salvo nei giorni intorno al quinto anniversario dell’11 settembre. Senonché, due giorni fa, è stato Bush stesso a far saltare la regola, a cambiare registro e a puntare ancora una volta sull’Iraq per vincere le elezioni o, almeno, per non perderle. La nuova strategia di comunicazione ha avuto tre momenti chiave. Nel weekend, in uno dei giardini della Casa Bianca è stato impiantato un tendone che poi, lunedì, ha ospitato la diretta dei più importanti talk show radiofonici conservatori del paese. Condi Rice, Karl Rove e altri senior advisor della Casa Bianca si sono alternati per tutta la mattina ai microfoni delle “conservative talk radio” per spiegare l’importanza del voto di metà mandato e della vittoria in Iraq. Mercoledì mattina Bush ha convocato i giornalisti per una conferenza stampa, introdotta da un suo lungo intervento centrato quasi esclusivamente sull’Iraq. Subito dopo, nello studio ovale, il presidente ha ricevuto una decina di editorialisti conservatori, da Mark Steyn a Charles Krauthammer a Michael Barone, con i quali ha di nuovo parlato di Iraq. La parola d’ordine non è più “stay the course”, cioè mantenere la rotta, ma “flexibility”, flessibilità. Esattamente come i democratici non usano “cut and run”, cioè scappare a gambe levate, per definire la loro politica irachena, preferendo “redeployment”, nuova dislocazione delle truppe. (segue dalla prima pagina) Gli strateghi elettorali hanno suggerito a Bush di non usare più la frase “stay the course”. Continuare a ripetere di voler mantenere la rotta in Iraq, secondo gli esperti, lascia intendere che la Casa Bianca non si renda conto delle difficoltà sul campo e non abbia alcun piano alternativo per cambiare, piuttosto, il corso di una guerra che non sta andando come si prevedeva. Agli editorialisti conservatori, Bush ha spiegato che, in realtà, “stay the course” vuole dire “vinceremo”, una cosa diversa dal “non cambieremo tattica” percepito dagli americani. Bush ha fatto un esempio: “La scorsa primavera pensavo che saremmo stati in grado di dire agli americani che presto avremmo avuto meno truppe in Iraq. Sapete perché pensavo questo? Perché era il pensiero del generale Casey. Lui credeva che la situazione stesse progredendo al punto da consentire agli iracheni di potersi difendere da soli, ma a causa della violenza settaria ispirata da al Qaida non è andata così. Ora mi ha detto, guarda, abbiamo bisogno di più truppe, non meno”. E avrà più truppe. “I nostri obiettivi non stanno cambiando, siamo però flessibili nei metodi per raggiungere questi obiettivi”. Nessun cambiamento di strategia in corso, soprattutto del tipo proposto dai settori più tradizionali del Partito repubblicano che suggeriscono di abbandonare i sogni democratici. I giornali liberal parlano da tempo del rapporto, non ancora pubblicato, dell’Iraq Study Group guidato dall’ex segretario di stato di Bush senior, James Baker. Secondo le indiscrezioni, il gruppo di studio sull’Iraq proporrebbe al presidente di lasciar perdere il futuro democratico della regione e di coinvolgere Iran e Siria. Bush si è rifiutato di commentare le voci, riservandosi di rispondere alle proposte di Baker una volta che si conoscerà il testo. Difficilmente, però, prenderà in considerazione il suggerimento, anche perché ha centrato la sua intera presidenza post 11 settembre sulla democratizzazione del medio oriente. C’è anche un’altra parola, “benchmark”, parecchio usata da Bush negli ultimi giorni. Alla conferenza stampa di mercoledì è stata pronunciata 13 volte. I benchmark sono i paletti che la Casa Bianca vorrebbe che il governo iracheno rispettasse, quanto a diminuzione della violenza e a capacità di usare le proprie forze di sicurezza. Il premier al Maliki ha detto che il suo governo non si fa imporre il programma da altri e Bush non ha voluto dire se ci saranno conseguenze in caso di mancato rispetto di questi obiettivi. Ai contrari alla guerra resta il monopolio della frase “exit strategy”, un altro modo per dire andiamocene via il prima possibile. In un editoriale dal titolo “Cut and run?”, l’Economist ha scritto che gli americani, con il voto di metà mandato, hanno il diritto di punire la politica irachena di Bush, ma dovrebbero farlo evitando di punire anche il popolo iracheno.

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