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L'Opinione Rassegna Stampa
26.10.2006 Oggi anche l'opinione pubblica è un campo di battaglia
l'analisi di Daniel Pipes sulla guerra al fondamentalismo islamico

Testata: L'Opinione
Data: 26 ottobre 2006
Pagina: 0
Autore: Daniel Pipes
Titolo: «In guerra anche le parole sono proiettili»

Da l'OPINIONE  del 26 ottobre 2006

Un tempo, soldati, marinai e avieri determinavano l’esito della guerra, ma non è più così. Oggi, produttori televisivi, columnist, predicatori e politici svolgono un ruolo fondamentale nel decidere il giusto modo in cui l’Occidente debba combattere. Questo cambiamento ha delle grosse implicazioni.
In un conflitto convenzionale come la Seconda  guerra mondiale, i combattimenti si fondarono su due prodromi così elementari da passare pressoché inosservati. Il primo di essi consistette in ciò: le forze armate convenzionali ingaggiarono un’accanita lotta, volta a conseguire la vittoria. Gli avversari dispiegarono file serrate di soldati, file di carri-armati, flotte navali e squadre aeree. Milioni di giovani andarono in guerra, mentre i civili subirono privazioni. Strategia e intelligence furono importanti, ma la densità della popolazione, l’economia e gli arsenali contarono ancora di più. Un osservatore poteva valutare il progresso della guerra tenendo conto di fattori oggettivi come la produttività siderurgica, le scorte petrolifere, la cantieristica navale e il controllo di terra. Il secondo prodromo consistette in ciò: la popolazione di ogni parte in guerra appoggiò la sua leadership nazionale. Sicuramente, traditori e dissidenti andavano stanati, ma i governanti godettero di un ampio consenso. Questo in particolar modo in Unione Sovietica, dove perfino le folli uccisioni di massa di Stalin non fermarono la popolazione dal sacrificare la propria vita per la “Madre Russia”.

Entrambi gli aspetti di questo paradigma sono adesso scomparsi in Occidente. Innanzitutto, l’idea di combattere accanitamente per ottenere la vittoria contro le forze nemiche convenzionali è pressoché scomparsa, rimpiazzata dalla sfida più indiretta di operazioni di guerriglia, insurrezioni, intifada e atti di terrorismo. Questo nuovo schema è stato applicato ai francesi in Algeria, agli americani in Vietnam e ai sovietici in Afghanistan. Attualmente, esso si applica agli israeliani contro i palestinesi, alle forze di coalizione in Iraq e nella guerra al terrorismo. Questo cambiamento implica che ciò che l’esercito americano definisce “la conta del fagiolo” - computare il numero delle armi e dei soldati - è oggi pressoché irrilevante, come lo sono le diagnosi dell’economia o il controllo del territorio. Le guerre asimmetriche sono simili alle operazioni di polizia molto più che le battaglie delle ere precedenti. Come nella lotta al crimine, la parte che gode di una vasta superiorità di forze agisce in base a un’ampia gamma di costrizioni, mentre la parte più debole infrange apertamente leggi e tabù nel perseguire senza scrupoli i propri obiettivi. In secondo luogo, la solidarietà e il consenso di una volta non esistono più. Questo processo di disfacimento è in corso da oltre un secolo (a partire dalla posizione assunta dall’opinione pubblica britannica riguardo alla Guerra anglo-boera del 1899-1902). Come scrissi nel 2005: “Il concetto di fedeltà e lealtà è sostanzialmente cambiato. Tradizionalmente, una persona era fedele alla sua comunità d’origine. Uno spagnolo o uno svedese erano devoti al loro monarca, un francese alla sua Repubblica e un americano alla sua Costituzione. Oggi, questo presupposto è obsoleto ed è stato rimpiazzato da un senso di fedeltà ad una società politica, come il socialismo, il progressismo o l’islamismo, tanto per citare alcune opzioni. I legami geografici e sociali rivestono un’importanza minore rispetto a una volta”.

Con i vincoli di fedeltà adesso tirati in ballo, le guerre vengono decise più sulle pagine degli editoriali e in misura minore sul campo di battaglia. Buone argomentazioni, efficace retorica, sagaci presentazioni dei fatti in una luce favorevole a un governo e la guerra di cifre dei sondaggi contano molto più che prendere una collina o attraversare un fiume. Solidarietà, morale, lealtà e comprensione sono le nuove armi. Gli opinion leaders sono le nuove bandiere e i nuovi generali. Perciò, come scrissi nell’agosto 2005, i governi occidentali “devono considerare le public relations come parte integrante della loro strategia”. Perfino nel caso dell’acquisizione di armi atomiche da parte del regime iraniano, la soluzione è rappresentata dall’opinione pubblica occidentale e non dagli arsenali dell’Occidente. Se uniti, gli europei e gli americani avranno buone probabilità di dissuadere gli iraniani dall’andare avanti con le armi nucleari. Se saranno invece disuniti, gli iraniani si sentiranno incoraggiati a portare a compimento l’impresa. Ciò che Carl von Clausewitz definisce “il centro di gravità” della guerra si è spostato dalla forza delle armi ai cuori e alle menti dei cittadini. Gli iraniani accettano le conseguenze delle armi nucleari? Gli iracheni accolgono le truppe della coalizione come dei liberatori? I palestinesi sono disposti a sacrificare le loro vite negli attentati suicidi? Europei e canadesi desiderano avere una credibile forza militare? Gli americani vedono nell’Islamismo un potenziale pericolo?

Gli strateghi non-occidentali riconoscono la supremazia della politica e si focalizzano su di essa. Una serie di trionfi - in Algeria nel 1962, in Vietnam nel 1975, e in Afghanistan nel 1989 - sono tutti dipesi dall’erosione della volontà politica. Il numero due di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ha di recente codificato questa idea, osservando che oltre la metà delle battaglie islamiste “si svolgono sul campo di battaglia dei media”. L’Occidente è fortunato a predominare nelle arene militari ed economiche, ma esse non sono più sufficienti. Insieme ai suoi nemici, esso deve prestare la dovuta attenzione alle pubbliche relazioni della guerra.

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