Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Polemiche in Israele per l'incontro in cella tra l'assassino di Rabin e la moglie la cronaca di Davide Frattini e il commento di Elena Loewenthal
Testata:Corriere della Sera - La Stampa Autore: Davide Frattini - Elena Loewenthal Titolo: «Il killer di Rabin vuole un figlio Dieci ore in cella con la moglie - L'imperativo della Bibbia»
Dal CORRIERE della SERA del 25 ottbre 2006:
GERUSALEMME — La prima notte di nozze è cominciata verso le nove del mattino. Nella piccola stanza, un letto matrimoniale, un tavolino, la televisione, un bagno, la doccia. Tendine blu ricamate di bianco per nascondere le sbarre e niente telecamere. L'occhio elettronico che segue ogni movimento di Yigal Amir è rimasto spento. Per dieci ore, le guardie carcerarie non hanno potuto controllare l'unico detenuto della sezione numero 15. Dieci ore per incontrare una moglie che ha sposato per procura due anni fa, dopo aver contrabbandato l'anello fuori dalla cella. È la prima visita protetta dagli sguardi dei secondini. Perché l'assassino di Yitzhak Rabin e Larissa Trimbobler hanno ottenuto di provare a fare un figlio. Vestita di nero, con un cappello e una sciarpa turchesi, Larissa si è presentata con molti sorrisi e poche parole («è una questione privata») all'appuntamento che ha indignato gli israeliani. Nelle borse di plastica, quello che il direttore della prigione di Ayalon le ha concesso: frutta secca, qualche biscotto, mandorle. Amir è arrivato dalla sua cella, a pochi metri dalla «camera matrimoniale», portando due bottiglie di bibite e il pranzo preparato dai cuochi del carcere. Kosher. Sono tutt'e due religiosi e tutt'e due credono che dio farà nascere un figlio, perché è un loro diritto. Che fosse un diritto ha dovuto deciderlo la Corte Suprema, dopo mesi di battaglie legali, sostenute da alcuni attivisti per le libertà civili: «È una autorizzazione che viene concessa anche ai terroristi arabi». La maggior parte degli editorialisti considera la visita un affronto alla memoria di Rabin (avviene a pochi giorni dall'anniversario dell'omicidio, 4 novembre 1995) e un vero pericolo per la democrazia israeliana. «Le fazioni dell'estrema destra — scrive Nehemia Shtrasler sul quotidiano Haaretz — non considerano l'assassinio di un primo ministro un grande problema. Altri potenziali killer sanno come Yigal Amir sia diventato un divo tra le ragazzine degli avamposti illegali e adesso vedono che pian piano la punizione si ammorbidisce». Il ministro della Difesa Amir Peretz, laburista, si è opposto all'incontro, criticato anche da Yariv Oppenheimer, segretario di Peace Now, e da Yossi Lahmani, direttore del centro Rabin: «Lo Stato avrebbe dovuto impedire che quest'assassino godesse degli stessi diritti garantiti ad altri detenuti. Perché l'omicidio è stato commesso contro lo Stato e contro la democrazia». La sinistra accusa Amir di aver ammazzato con tre colpi di pistola anche il processo di Oslo. «Ci sarebbe stato un accordo di pace con i palestinesi, Hamas non sarebbe al governo — continua Shtrasler — e la nostra situazione politica e sociale sarebbe immensamente migliore». Un anno fa, nei giorni del decimo anniversario della morte di Rabin, la famiglia di Amir aveva lanciato un appello perché venissero migliorate le sue condizioni in carcere e venisse tolto dall'isolamento. «Quello che è successo ha dimostrato che il primo ministro aveva commesso un crimine contro la sua gente, svendendo la sicurezza e le vite degli israeliani al nostro peggiore nemico». La madre Geula ieri ha dichiarato «non mi sembra che l'accoppiamento di Larissa e Amir sia una questione a cui deve prendere parte l'intero Paese». I parenti hanno protestato perché il giorno della visita è stato reso pubblico: «I politici non sono riusciti a uccidere questo figlio prima ancora che nascesse — ha commentato Amital, il fratello più giovane — e adesso cercano di distruggere l'orgoglio della coppia. Non ci resta che aspettare la nascita di un meraviglioso bambino». Yigal e Larissa si erano conosciuti agli inizi degli anni Novanta a Mosca, dove lui era andato a insegnare l'ebraico. Dopo l'assassinio, la donna aveva cominciato a scrivergli in carcere e, immigrata in Israele dall'ex Unione Sovietica, aveva avuto il permesso per le visite. Ultraortodossa, divorziata con quattro figli, ha scritto un romanzo in russo ( Uno specchio per un principe) ed è laureata in filosofia. Chi l'ha incontrata racconta del suo sorriso dolce e delle parole amorevoli che cerca per spiegare una relazione considerata oltraggiosa da molti israeliani. La coppia non è riuscita a ottenere di potersi sposare in carcere e la cerimonia è stata celebrata al telefono da rabbini che poi hanno convalidato l'unione. La prima vittoria legale di Yigal e Larissa è arrivata quando sono riusciti a farsi riconoscere il diritto all'inseminazione artificiale. Ma prima che la direzione della prigione desse il via libera alla procedura, Amir è stato sorpreso dalle guardie mentre cercava di passare alla moglie un contenitore con del seme. Lo Shin Bet, il servizio segreto interno, si era sempre opposto alle visite riservate, a telecamere spente. Il capo Yuval Diskin ha dato il via libera la settimana scorsa sostenendo che l'incontro non costituiva un rischio per la sicurezza. Ha precisato che Amir continua a rappresentare un pericolo e che le sue posizioni politiche sono rimaste estremiste. Quando Rabin venne assassinato, il muro attorno alla residenza ufficiale del primo ministro a Gerusalemme venne alzato di due metri. Dopo il ritiro da Gaza nell'agosto 2005, i servizi considerano gli ultrà della destra religiosa una minaccia ancora più grave contro la vita del premier Ehud Olmert e hanno richiesto che a quella recinzione vengano aggiunti altri dieci metri. Il livello di allarme si misura in metri.
Dalla STAMPA, il commento sulla vicendadi Elena Loewenthal:
LA licenza di intimità - dieci ore da trascorrere anima e corpo con la moglie ancora sconosciuta biblicamente - concessa a Igal Amir, assassino di Rabin, solleva una congerie contraddittoria di sentimenti. Essa è soprattutto l’improbabile incrocio di leggi e di universi opposti fra loro. Da una parte si staglia l’imperativo biblico. Quel «prolificate, moltiplicatevi» che è una specie di ritornello nel primo capitolo della Genesi. È il dettato ripetuto ai pesci e alle bestie selvatiche, persino a «ogni sorta di esseri striscianti», prima ancora che ad Adamo ed Eva. E’ la voce di un’ecologia primigenia, dove il destino di tutte le creature s’accomuna nella fatica e nella gioia di perpetuarsi. Se nell’ebraismo non esiste peccato originale, è proprio grazie a questo comando che la gravità di quell’originaria trasgressione si offusca: ogni volta che un bambino viene al mondo, il suo vagito è come se riconciliasse Iddio con l’umanità, mitigasse la Sua collera di fronte all’antica scena del frutto incautamente assaggiato da Eva. «Prolificate e moltiplicatevi» è il suggello di ogni matrimonio ebraico, ne è la fondamentale (pur se non l’unica) ragion d’essere. Ma come si concilia questa visione della vita in quanto bene di per sé - talmente prezioso da fare passare in second’ordine (senza tuttavia perdonare) la colpa di Eva e Adamo - con il principio di concedere la vita a chi, uccidendo, ha dimostrato di sprezzarla? Quanto e se è giusto permettere ad un assassino di riprodursi, di ottemperare a quel primo comando divino? E’ una contraddizione in termini. Una vita che si crea attraverso la morte, e non a dispetto di questa. Se mettere a disposizione una stanza «da riproduzione» per i detenuti è consuetudine nelle carceri israeliane, il caso di Amir è più problematico. E non solo per ragioni di sicurezza legate all’eventuale passaggio, fra le lenzuola del penitenziario, di insidiosi messaggi politici. È una ragione più profonda quella che turba, immaginando l’assassinio di Rabin intento a ottemperare a quell’antico comando di vita che, se visto in un’ottica non biblica ma darwinista, in fondo si chiama legge di sopravvivenza. Primo perché egli è un assassino che in quanto tale nega la vita e tutto il valore che le assegna la Bibbia. Secondo, perché Amir non è un assassino comune bensì il simbolo di quel trauma esistenziale collettivo seguito in Israele alla morte di Rabin - e mai sopito nei pensieri più riposti d’ogni ebreo. Dentro e fuori da Israele. Il trauma di vedere la morte entrare per una volta non entro i propri confini geografici, dove la guerra e il terrorismo fanno parte di una sfiancante quotidianità. Una morte diversa, che arriva dall’interno, per mano di qualcuno che dice di credere nel tuo stesso Dio e di amare la tua stessa terra e di far parte della tua stessa, ancora mai spezzata ma sempre a repentaglio, catena di generazioni. Questo ha rappresentato per il popolo ebraico l’assassinio di Rabin ad opera di quel ragazzo cui ora è concessa la facoltà di riproduzione: scoprire la morte - e non la vita - dentro di sé. Un trauma che ancora mette paura e fa guardare con inesprimibile inquietudine verso quella stanza di penitenziario dove l’imperativo biblico non potrà che sentirsi fuori luogo. Elena.loewenthal@lastampa.it
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