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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Avvenire - Il Foglio Rassegna Stampa
24.10.2006 Il velo islamico: simbolo di sottomissione della donna ed elemento della strategia islamista
la denuncia di Daniela Santanché, Magdi Allam , Souad Sbai e Lafif Lakhdar

Testata:Corriere della Sera - Avvenire - Il Foglio
Autore: Magdi Allam - Souad Sbai - la redazione
Titolo: «Gli strateghi che guidano la guerra pro-hijab - Le donne musulmane chiedono di essere libere davvero - “Il velo è un modo per discriminare le donne”, ci dice Lakhdar - Tacchi combattenti»

Magdi Allam sul CORRIERE della SERA denuncia l'uso del velo islamico all'interno delle strategia fondamentalista dei Fratelli Musulmani.

Ecco il testo:



Dietro alla battaglia del velo esplosa nel nostro Paese c'è la strategia internazionale promossa dai Fratelli Musulmani per imporre il loro potere sull'insieme dei musulmani in Europa attraverso la sottomissione delle donne. Una strategia ufficializzata il 12 luglio 2004 dall'«Assemblea per la protezione del hijab» (www.prohijab.net), riunitasi a Londra con il patrocinio del sindaco Ken Livingstone, alla presenza dei suoi principali esponenti: il predicatore Youssef Qaradawi e l'intellettuale Tariq Ramadan. Con loro c'erano 300 delegati provenienti da 15 paesi, tra cui l'Italia.
Fu deciso di sostenere a livello europeo e internazionale la legittimità del velo islamico quale diritto di «libertà religiosa», di «proteggere il diritto della donna musulmana di indossare il velo», di «impegnarsi a realizzare questo obiettivo a nome di tutte le donne musulmane nel mondo». Furono costituiti dei comitati pro-hijab in ogni paese europeo coordinati da un organismo centrale che fa capo a Qaradawi. Questi è il leader spirituale e giuridico dei Fratelli Musulmani in Europa, presiede il «Consiglio europeo della fatwa e delle ricerche» e dell'«Unione internazionale degli ulema» con sede a Dublino, dirige il «Consiglio scientifico» dell'«Istituto europeo di scienze umane» della Fioe (Federazione delle organizzazioni islamiche in Europa) con sede a Markfield (Leicestershire, Gran Bretagna), che è la cornice unitaria delle varie sigle che in Europa aderiscono ai Fratelli Musulmani.
Ebbene Ali Abu Shwaima, l'auto-proclamato imam della moschea di Segrate a Milano, che ha accusato l'onorevole Daniela Santanchè di essere una «infedele» e condannato come «non musulmane» le donne che non portano il velo, è legato a Qaradawi nella sua veste di responsabile della Da'wa, ovvero della propaganda islamica, della Fioe. Mentre a Tariq Ramadan, presidente dell'Emn (European Muslim Network), è legato Hamza Roberto Piccardo, segretario dell'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), nella sua veste di portavoce dell'Emn.
A Londra si pianificò una strategia di lungo termine basata sull'impegno di ciascun comitato pro-hijab «di istruire i mass media, i politici, gli insegnanti e l'opinione pubblica sulla questione del velo e della libertà religiosa». Una rappresentanza dei comitati pro-hijab si è impegnata a «convincere l'Unione Europea a porre fine alla diffusione nei paesi europei del divieto del velo imposto dalla Francia». In Italia l'Ucoii promosse delle manifestazioni di protesta di fronte all'ambasciata francese a Roma e il consolato francese a Milano, risoltesi in un fallimento per la scarsa partecipazione dei musulmani.
La posizione di Qaradawi sul velo è netta: «La donna musulmana deve indossare il velo che copra l'intero corpo a eccezione del volto, delle mani e, secondo alcuni giureconsulti, dei piedi», ha sentenziato con una fatwa, un responso legale, «Mostrare altre parti del corpo è assolutamente proibito. Il marito musulmano deve ordinare alla moglie di indossare il velo e le mogli devono obbedire. La donna deve indossare il velo perché glielo ordina Dio. Ma se la moglie rifiutasse di portare il velo, il marito la deve ripudiare». Tuttavia Qaradawi, in una fatwa redatta per consentire alle donne di Hamas di diventare delle terroriste suicide, ha sentenziato che solo a loro è consentito uscire di casa senza il velo e senza preoccuparsi che le loro parti intime vengano viste dagli estranei dopo il loro «martirio». «Le operazioni di martirio sono il livello supremo della Jihad (guerra santa) per la causa di Dio. Quando la Jihad diventa un dovere individuale, la donna ha il diritto di parteciparvi al fianco dell'uomo», recita la fatwa,
«la donna pertanto può disfarsi del velo dal momento che si appresta a morire per la causa di Dio e non per mostrare la sua bellezza».
E' questo il referente giuridico e spirituale a cui obbediscono i nostri Abu Shwaima, Piccardo e Dachan. Pertanto non deve stupire che sostengano che il velo è un obbligo divino e che chi non lo indossa o chi lo contesta deve essere condannato anche fino alla morte. E se la sentenza non la eseguono direttamente loro per ragioni di opportunità, ci penserà comunque Dio a punire gli «infedeli» e gli «apostati».
Eppure gli italiani sono assai confusi. Nell'ultima puntata di Domenica In, condotta da Massimo Giletti su Raiuno, è emersa un'immagine schizofrenica dell'Italia che crede in tutto e nel contrario di tutto. Il pubblico ha applaudito ininterrottamente sia quando si è affermato il principio della libertà del singolo di indossare il velo sia quando si è denunciata la realtà di sottomissione della donna che si cela dietro il velo. E' un'Italia auto-referenziale che fatica a accettare la realtà oggettiva per il timore di violare il principio teorico. Ma se ci guardasse attorno e se si conoscesse la storia, si comprenderebbe che è proprio la negazione della realtà che porta alla morte del principio.

Da AVVENIRE, un editoriale di Souad Sbai:

ll velo fa discutere, divide gli animi, suscita interrogativi. E certe incaute dichiarazioni, come quelle rilasciate due giorni fa dall'imam di Segrate durante una trasmissione televisiva, non fanno che buttare benzina su un materiale già altamente infiammabile. Molti pronunciamenti appaiono ispirati più da motivi ideologici, politici o pseudo-religiosi. Almeno quattro sono i luoghi comuni dell'islamically correct con cui fare i conti.
1. Il velo, si dice, è parte integrante della religione e della cultura del mondo musulmano. Non è così: non c'è un solo testo religioso che faccia del velo un pilastro dell'islam. L'imposizione del velo obbedisce ad una visione gerarchica e patriarcale della società islamica, che ruota intorno alla figura dell'uomo padre e padrone. La riprova è che le donne lo indossano quando questa visione diviene dominante, se ne liberano non appena il dominio si indebolisce o si allenta. In Tunisia, Marocco, Giordania, l'uso del velo comincia ad essere scoraggiato e messo in discussione. È qualcosa che dovrebbe far riflettere i sostenitori di casa nostra.
2. Il velo, si sostiene, è un simbolo di pudore e di modestia delle donne musulmane. Al contrario, è l'esibizione di un messaggio politico e di potere. È il pubblico sigillo della sottomissione della donna alle leggi e alle tradizioni più aberranti. La donna col velo è colei che può essere lapidata se commette adulterio, non può uscire di casa senza il permesso del marito, deve accettare maltrattamenti e violenze se mette il rossetto o frequenta un occidentale, subire l'infibulazione o la poligamia, essere costretta a sposare a 12 anni un uomo che non ha mai visto.
3. Le immigrate, si dice ancora, portano il velo per una libera scelta. Nella stragrande maggioranza dei casi, esse arrivano in Europa senza il velo. Sono costrette a indossarlo per ordine di mariti, padri e fratelli istigati e appoggiati dai predicatori di alcune moschee. Anche perché non è solo un'insegna di potere, è uno strumento di controllo. Ha il compito di isolare le donne delle comunità, impedire che entrino in relazione con la società, tenere lontano «l'altro», il nemico, il rivale, l'infedele. Il velo dice alle donne: restate chiuse nelle vostre case e siate ciò che dovete essere, fabbriche di figli, senza volontà e senza diritti. Se parlate con le immigrate comuni, le immigrate della porta accanto, è questo che vi diranno.
4. Proibire l'uso del velo nelle scuole e nei luoghi di lavoro è un atto di prepotenza che incoraggia lo scontro di civiltà. In realtà, misure come queste vanno nella direzione opposta: tendono una mano alla parte più viva e avanzata delle comunità musulmane. In Francia dall'anno scorso c'è una legge che vieta l'uso del velo nelle scuole pubbliche. Dopo le proteste scatenate dai fondamentalisti nei primi tempi, i sondaggi dicono che la stragrande maggioranza delle allieve e delle donne delle comunità si sono apertamente schierate a favore della legge. Ora ci sentiamo più libere, confessano: più libere di parlare, di vivere, di essere noi stesse. Detto questo, è evidente che il problema è innanzitutto culturale, e si affronta con un dibattito ampio ed aperto. Più che perdersi in dibattiti politicamente corretti sulle proibizioni, è molto più utile e realistico difendere il diritto delle donne a non indossarlo.
Riassumendo: l'imposizione del velo rivela una concezione del mondo che non vela soltanto la donna ma anche l'uomo, la società, la mente. Che mortifica la sua parte migliore, la sua storia di civiltà e di creatività. Ogni immigrata che rinuncia al velo non lo fa perché sceglie l'Occidente corrotto. Lo fa perché sceglie e ama il vero islam, non la sua copia deforme. È da riflessioni come queste che dovremmo partire quando affrontiamo una questione così importante per il futuro dell'integrazione. Chi oggi in Italia applaude al velo e ne fa solo un problema di centimetri di pelle da scoprire, mostr a purtroppo di non averlo ancora compreso.

Dal FOGLIO,  un'intevista al giornalista e filosofo tunisino Lafif Lakhdar:

Tunisi. “Accettare il velo significa credere nell’inferiorità della donna”, dice al Foglio Lafif Lakhdar, giornalista e filosofo tunisino, al telefono dalla sua casa a Parigi. Lakhdar, uno degli intellettuali più progressisti del mondo arabo, è stato definito dal quotidiano israeliano Haaretz lo “Spinoza del medio oriente”, e gli scrittori tunisini lo considerano la “voce liberale del mondo arabo”. Nel 2002, il quotidiano saudita con base a Londra al Hayat lo licenziò per avere pubblicamente condannato su al Jazeera le “barbarie” dei regimi arabi, tra cui le mutilazioni e le punizioni corporali. Nel 2004, Lakhdar ha attirato l’attenzione dei mass media internazionali per aver inoltrato una petizione alle Nazioni Unite chiedendo un tribunale non soltanto per i terroristi, ma anche per le figure religiose che istigano alla violenza e all’odio. Per Lakhdar, anche se alcune ragazze musulmane scelgono liberamente di indossare “l’abito settario”, il velo rimane un accessorio da bandire: “In passato, alcuni schiavi accettavano il proprio status, ma ciò non significa che la schiavitù non dovesse essere abolita – sostiene Lakhdar – Allo stesso modo, non posso permettere che una donna copra il proprio volto, accettando di essere un essere inferiore all’uomo”. Lakhdar ricorda anche che in Tunisia esiste il decreto 108 del 1981, che vieta di indossare il velo nei luoghi pubblici. “La legge è fatta per essere rispettata e non per essere infranta da persone che sostengono di potersi eccitare sessualmente se i capelli di una donna non sono coperti”, dice Lakhdar, che non risparmia dure parole neppure per l’Europa, che non sa difendere i dissidenti del mondo musulmano. Per le sue opinioni infatti il giornalista tunisino vive con la certezza di poter essere ucciso in qualsiasi momento. Rachid Ghannouchi, leader del movimento islamista al Nahda, lo ha condannato a morte con una fatwa, accusandolo di avere offeso in un libro – che Lakhdar non ha mai scritto – il Profeta Maometto. In un articolo apparso sul portale saudita Elaph.com, si richiedeva l’impiccagione pubblica dell’intellettuale tunisino. “Quando Ghannouchi prenderà il potere in Tunisia, instaurerà l’obbligo del velo e della barba e la leicità della poligamia – scriveva l’articolo – Ghannouchi, poi, farà prelevare da Parigi Lakhdar e anche la scrittrice eretica, Raja Ben Slama, per impiccarli nella piazza centrale di Tunisi”. Ben Slama, autrice e docente, come Lakhdar, si è espressa più volte contro il velo – dichiarando che la “questione femminile è inscindibile da quella islamica” – e ha anche criticato pubblicamente i “deliri” del leader di al Nahda, che vive a Londra e lavora assieme al popolarissimo sceicco al Qaradawi. In questi ultimi anni, Lakhdar ha cercato di intentare una causa contro Ghannouchi al governo britannico, ma senza alcun successo. “Secondo le leggi inglesi, una persona che incita alla violenza non è colpevole fino a quando non uccide qualcuno – commenta Lakhdar – La giurisprudenza europea deve essere modernizzata, perché oggi giorno non protegge il cittadino, ma incoraggia il terrorismo”. La lotta contro il velo s’inserisce secondo il giornalista tunisino in questo contesto di dissidenza. “Qualche anno fa, Ghannouchi aveva una trasmissione televisiva, in cui obbligava le musulmane ad adottare il velo – racconta Lakhdar – Gli islamisti credono, infatti, che il corpo femminile debba essere completamente coperto, perché, in quanto impuro, può provocare turbamenti sessuali nell’uomo”. Un altro modo per condannare le donne all’inferiorità.

Dalla prima pagina un articolo sulle minacce a Daniela Santanchè: 

Daniela Santanchè adesso ha la scorta, e un po’ di gente volgare avrà voglia di riderci sopra, perché figuriamoci se una deputata con i tacchi a spillo e i cappelli da cowboy dice cose serie. Figuriamoci se ha ragione, figuriamoci se rischia qualcosa, figuriamoci se non ha esagerato. Anche se una ragazza di ventidue anni è stata appena ammazzata a pietrate, anche se un’altra camminava per strada senza velo e un parente l’ha investita con la macchina per lavare la vergogna. Daniela Santanchè, con un bel po’di femminismo volitivo, vorrebbe strappar via tutti i veli, i foulard, i burqa, i niqab, tutto quel che considera un simbolo di sottomissione, paura, ombra. Lo fa coi capelli sciolti e le borsette di Hermes, occidentalissima donna moderna che risponde seria alle urla scomposte di un imam ed è fiera, finalmente, della propria identità e libertà. Non chiede scusa per i colpi di sole o per le vacanze con Flavio Briatore e non teme di non essere abbastanza multiculturale: lotta per il volto scoperto con l’appoggio di Dunia Ettaib, rappresentante delle donne marocchine d’Italia. Anche la Ettaib era, qualche sera fa, ospite nella trasmissione di Sky in cui l’imam di Segrate ha urlato alla Santanchè: “Lei è un’ignorante e falsa, lei semina odio, è un’infedele”, salvo poi dichiarare che “questa vicenda è un attacco deliberato contro i musulmani e contro le moschee” e che la Santanchè desidera sentirsi minacciata: la Ettaib non porta il velo, anzi lo detesta, e allora l’imam le ha sibilato, fuori onda, che lei non è una musulmana. Sono praticamente le sole femmine, in Italia, a lottare per le femmine, a gridare lo sdegno, a lanciare la discussione con toni veri, e accesi, a dare risposte appassionate alla retorica del buon senso di campagna, quello che se ne frega e guarda altrove. Daniela Santanchè considera il velo che copre il volto, i capelli, il collo, il velo che nasconde la donna e la lascia in un angolo ben poco luminoso, un passo indietro e addosso la paura, un arcaismo incompatibile con la società democratica: è questa un’altra posizione rispetto alla forzatura francese del divieto di ostensione di simboli religiosi, è un’azione sociale per riconoscere dignità, esistenza, per smetterla di raccontarci quanto dona al viso, e perché un imam surriscaldato (o un Adel Smith qualunque) non si permetta mai più di dire a una donna, velata o no, o anche a un uomo che esprima un pensiero non allineato: infedele, deficiente, ignorante. Daniela Santanchè è una femminista vera, ma non recita il bollettino parrocchiale e si mette in costume anche coi fotografi a mezzo metro, batte i maschi in competenza sulla Finanziaria e non si fa problemi per le scollature. Una donna libera che vuole affermare un’identità, si indigna per Ayaan Hirsi Ali che ha scritto gli undici minuti del film di Theo van Gogh e persino in Olanda viveva da dissidente perché denunciava gli sbagli di una religione che “cammina nella storia con la faccia rivolta all’indietro”, si indigna per quel che è successo a lei e soprattutto per il silenzio delle altre: “Dove sono le femministe?”, chiede, ma le femministe sbuffano perché la Santanchè ha troppi tacchi, troppi orecchini, troppi amici, neanche un capello grigio e niente lamenti ma vividi attacchi e larghi sorrisi. Sta accanto, da anni, a Milano, a donne musulmane bastonate, impaurite, sole, velate, inorridite da chi decanta il valore estetico del velo, ammutolite per sempre da quel bel drappo. Daniela Santanchè ha raccolto le loro storie in un libro molto bello, “La donna negata – dall’infibulazione alla liberazione”, e ovviamente hanno detto che non l’aveva scritto lei, che si era probabilmente anche inventata la scomunica di una radio di Teheran, tanto per fare notizia. Lei pensa, come Chahdortt Djavann, la sociologa di origine iraniana che ha scritto “Giù i veli”, al chador (e agli altri tipi di fazzoletti coprenti) come alla stella gialla delle donne musulmane, la macchina da guerra di un sistema ideologico che sta cercando di imporsi anche in Europa. Vorrebbe un divieto o, come Jack Straw, deputato laburista ed ex ministro di Tony Blair, vorrebbe che le musulmane smettessero, felicemente, di coprirsi. Fa opera di deterrenza culturale, si batte contro il velo come contro l’infibulazione e le botte, incassa parecchie critiche, ironie e qualche imbarazzata e doverosa solidarietà. Non s’interessa al basso profilo perché è impegnata ad affermare un po’ di libertà e identità: i mocassini, magari, un’altra volta.

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