Dall'UNITA' dell' 8 ottobre 2006 un articolo di Paolo Prodi che definisce Israele uno Stato non democratico e confessionale.
Ecco il testo:
Credo sia opportuno approfittare di questa pausa del conflitto israelo-palestinese (spero duri ancora quando questo articolo uscirà ma nessuno può esserne sicuro) per una riflessione che superi la cronaca di questa guerra infinita. È inutile riprendere tutta la storia dalla nascita dello Stato d'Israele, dal 1948 sino ad oggi, come inutile è ripetere ancora una volta il rito psicanalitico collettivo di noi europei basato sul senso di colpa che abbiamo dopo la shoah,
La memoria della Shoah e la vigilanza verso il risorgere dell’antisemitismo che l’ha prodotta vengono preventivamente ridotte a "rito psicanalitico collettivo".
Si capisce già da questo inizio che Prodi vuole scrivere qualcosa contro Israele, e qualcosa di grave.
al quale si è sovrapposto con il passare degli anni un nuovo senso di colpa nei riguardi del popolo palestinese cacciato dalla sua terra.
Il popolo palestinese non è stato "cacciato dalla sua terra". Ha abbandonato la Palestina per sfuggire a una guerra scatenata dai suoi dirigenti e da quelli dei paesi arabi. Una guerra che mirava ad annientare Israele
All'antico genocidio si sono sovrapposte le immagini delle repressioni di Shabra el Shatila
Di Sabra e Chatila sono responsabili i falangisti cristiani libanesi
e quelle della miseria di un popolo intero.
Della miseria di molti palestinesi sono responsabili gli Stati arabi che hanno voluto tenerli nei campi profughi per utilizzarli come argomento di delegittimazione di Israele, e una classe dirigente nazionale che, quando si è installata in Cisgiordania e Gaza, si è rivelata corrotta e inefficiente.
Mi sembra molto spiegabile che queste contorsioni abbiano colpito soprattutto il popolo della sinistra. Nei decenni in cui Israele è stato l'avamposto dell'occidente, in un medio oriente percorso dai fremiti dell'anticolonialismo e il popolo palestinese è divenuto l'icona dei popoli del terzo mondo sfruttati e poveri, è stato fatale che crescesse un sentimento anti-Israele che a mio avviso non aveva e non ha nulla a che fare con l'antisemitismo tradizionale.
Nulla a che fare? Quando Israele viene delegittimato e demonizzato, quando su di esso si concentra un biasimo che non viene mai riservato ai veri stati criminali del mondo, quando gli viene addebitata l’instabilità del mondo, è sicuro Prodi che l’antisemitismo non c’entri nulla?
Dopo la fine della guerra fredda e il disfacimento dei due blocchi tutto il quadro è divenuto ancora più complesso: da una parte, con la prima guerra del Golfo, Israele è divenuto un problema per tutta la strategia americana nei riguardi del Medio Oriente e dei paesi arabi produttori di petrolio. Dall'altra l'estremismo islamista ha cercato di coinvolgere i palestinesi proprio per la loro debolezza all'interno di una spirale di violenza e di panterrorismo per tenere tutta la regione in uno stato continuo di convulsioni.
L’"estremismo islamista " non è una realtà esterna al popolo palestinese. Hamas è parte del fondamentalismo terrorista ed’è un’espressione della politica palestinese. Haji Amin al Hussein, il primo leader nazionale palestinese, proclamò la jihad contro gli ebrei d’Israele. Abdullah Azzam, l’ideologo che ha ispirato la jihad globale di Osama Bin Ladene e di Al Qaeda, era palestinese.
Così Israele è diventato l'epicentro di un sistema sussultorio di terremoti geopolitici che hanno prodotto e producono eruzioni periodiche in tutta la regione. In questo quadro sono nati gli incontri di Camp David ed è stata definita la road map , il percorso per raggiungere la pace che si è tentato di attuare sino ad ora, con il principio del riconoscimento reciproco dei due Stati e la restituzione, almeno parziale, dei territori che Israele aveva occupato con le guerre dei decenni precedenti.
Quale restituzione? Uno Stato palestinese non è mai esistito nella storia. Ciò che Israele ha tentato di fare a Camp David è stato di cedere dei territori conquistati agli Stati arabi che l’avevano aggredito per risolvere la questione palestinese e ottenere la pace.
Ha invece ottenuto un’ aggressione terroristica senza precedenti.
Oggi dobbiamo ancora continuare a puntare in questa direzione: mi sembra che la politica estera italiana si muova nella giusta direzione e che l'Europa stia anch'essa uscendo almeno parzialmente dalla sua paralisi e dai suoi sensi di colpa approfittando dei nuovi spazi che si aprono con l'apertura degli Usa al multilateranismo.
Ma sappiamo che questo non è sufficiente. Ed è a questo punto che si apre la proposta di Marco Pannella di inglobare Israele in Europa e imboccare quindi una nuova via che ne garantisca la permanenza e la sicurezza in modo stabile. In questi termini, nella visione di una geopolitica tradizionale questa proposta appare utopica è irrealistica, ma credo che sia molto importante perché ci costringe forse per la prima volta ad uscire tutti, noi ed Israele, dal nostro passato e a guardare al futuro. Pensare infatti ad un semplice inglobamento tipo "allargamento" è una semplice follia: bisognerebbe certo comprendere in questa operazione anche lo Stato palestinese e introdurre quindi forse ulteriori motivi di turbamento. Per essere presa sul serio questa proposta deve mettere in discussione lo stesso progetto costituzionale dell' Europa unita e la nostra democrazia partendo da una riflessione sulla natura costituzionale dello Stato di Israele.
Lo Stato d'Israele non ha, come è noto, una carta costituzionale: non ha una costituzione scritta e nemmeno una costituzione non scritta derivante da una storia secolare, come quella inglese dalla Magna Charta del 1215 in poi: non ha una costituzione scritta, nonostante essa sia in progetto sin dal 1948 e se ne discuta ancora presso l'apposita commissione "for the Constitution, Law and Justice" della Knesset,
Israele ha leggi fondamentali di rango costituzionale, ha una Corte suprema che difende rigorosamente i diritti individuali e l’eguaglianza tra i cittadini
perché non si è potuta superare la contraddizione fondamentale già evidente molto prima della fondazione dello stato, sin dai primi progetti dei movimenti sionistici, sul principio di appartenenza e di cittadinanza. L'ethos fondamentale è quello di uno Stato "ebraico e democratico": ma può essere democratico uno Stato basato sull'appartenenza religiosa?
I cittadini non ebrei godono in Israele degli stessi diritti, civili e politici di quelli ebrei.
Lo Stato è liberale perché i loro diritti individuali sono garantiti, ed’è democratico perché il loro voto conta per uno.
Questi valori sono rimasti sempre in tensione e non solo tra la maggioranza ebraica e le minoranze arabe (ancora oggi il 20% della popolazione all'interno dei confini pre-1967 è di minoranza araba) ma anche all'interno della stessa maggioranza ebraica.
La mancata definizione dei criteri di appartenenza e di cittadinanza e la persistenza di due legislazioni diverse, quella laica e quella religiosa-rabbinica (dalla quale ad esempio dipendono tutte le norme relative al matrimonio e al divorzio) provocano conflitti e tensioni continue in una società che diviene sempre più secolarizzata secondo lo schema di tutto il mondo occidentale. Sino ad ora la compattezza dello Stato d'Israele è stata garantita, oltre che dalla saggezza di una Corte costituzionale - che ogni giorno difende i diritti umani universali,
Prodi qui si smentisce da solo e rivela l’inganno del suo articolo. E’ infatti costretto ad ammettere che la Corte costituzionale "difende" i diritti umani universali.
Aggiunge che li difende "ogni giorno", costruendo la falsa immagine di un paese nel quale "ogni giorno" viene messo in atto un assalto ai diritti umani universali.
Ciò che non scrive è che la "difesa" della Corte suprema non consiste solo in vane dichiarazioni senza effetto; i pronunciamenti di quest’organo sono vincolanti, hanno forza di legge. E vengono rispettati.
Prodi dovrebbe dunque ammettere che Israele rispetta i "diritti umani universali", in modo anche più attento di quei paesi nei quali esiste magari una costituzione scritta, ma non un organo dotato del potere di farla applicare nei singoli casi.
che ha saputo mediare in questi ormai sessanta anni i conflitti più forti -, proprio dalla necessità di difesa della sopravvivenza statale nei confronti di un ambiente totalmente ostile: Israele è paradossalmente unita dal fatto di essere continuamente sotto attacco ( forse con qualche analogia storia con la storia dei ghetti ebraici che hanno garantito nei secoli passati il mantenimento di un'identità dolorosa che si sarebbe persa con l'assimilazione).
Questa situazione non è un fatto di Israele ma anche un fatto nostro: in esso si gioca non soltanto la sopravvivenza dello stato d'Israele e la sua appartenenza all'Occidente ma anche la sopravvivenza delle stesse libertà costituzionali dell'Occidente intero. Se infatti sino a qualche tempo fa era possibile concepire Israele come un'anomalia in un quadro di democrazie consolidate e stabili poste a base di stati sovrani e compatti, con qualche problema ( anche tragico, ma risolvibile) di minoranze oppresse, oggi questo è totalmente modificato nel quadro della crisi del potere sovrano degli Stati occidentali e dell'affermarsi prepotente dei fondamentalismi come tentativo di costruzione di nuove identità collettive che superino quella classica della nazione: in questo quadro il caso di Israele cessa di essere un fenomeno in qualche modo di retroguardia, un residuo del passato, e si trasforma invece nell’anticipazione di un futuro che presto o tardi è destinato ad avvolgerci tutti.
Le considerazioni geopolitiche correnti su Israele appaiono quindi generalmente miopi non tanto per il persistere di tendenze antisemite ma in quanto prive della prospettiva della sua storia costituzionale. Questa miopia ostacola anche la comprensione dei nostri problemi: se la sovranità statale è in frantumi in tutto l'Occidente (pur essendo lo Stato come sistema sociale ed economico destinato a durare a lungo), la ridefinizione delle identità collettive deve essere ricondotta ad altre dimensioni che non siano quelle classiche e statiche del territorio, popolazione, potere statale, a dimensioni più vicine a quelle che caratterizzano la vita dello stato israeliano.
In realtà Israele appare ora la punta più avanzata dell'esperienza politica occidentale, verso le nuove frontiere non territoriali del futuro: da una parte rappresenta il laboratorio del costituzionalismo come processo e dall'altra mette in rilievo nel proprio esperimento le contraddizioni interne che da noi sono ancora in incubazione. Dobbiamo abituarci forse a studiare lo Stato sionista non tanto per il suo passato quanto per l'anticipazione di un futuro che può essere realtà diffusa nei territori dell'area islamica o cristiana e che può avere sviluppi in direzioni opposte.
La strada può essere davvero quella di inserire lo Stato d'Israele e la Palestina nel quadro costituzionale europeo, ma questa inserzione non può consistere in una semplice annessione (che del resto in questa situazione sarebbe impossibile) bensì implica un ripensamento della nostra democrazia e dei nostri diritti costituzionali. Il problema d'Israele è ormai un nostro problema, un problema di tutti noi: se vogliamo evitare la barbarie dei fondamentalismi e le nuove guerre di religione o di civiltà dobbiamo re-inventare un'appartenenza multipla, riscoprire sulla base dell'esperienza ebraico-cristiana, la secolarizzazione della politica nei nuovi panorami mondiali.
Dal CORRIERE della SERA del 9 ottobre, riportiamo un articolo di Fabrizio Roncone sulle reazioni all'articolo di Prodi.
Poco convincente quella di Furio Colombo, che sottolinea positiviamente il riferimento di Prodi alla Corte costituzionale israeliana.
Riferimento dal quale però manca un dato cruciale: che cioè la "difesa" asseritamente "quotidiana" dei "diritti umani universali" attuata dalla Corte suprema israeliana è efficace ed ha forza di legge.
Nell'articolo di Prodi quelle della Corte potrebbero invece anche sembrare vane parole, a conferma di comuni pregiudizi che dipingono Israele come Stato violatore dei diritti umani.
Ecco il testo:
ROMA — Prima pagina del quotidiano l'Unità, ieri mattina. Articolo di Paolo Prodi (docente universitario, storico, fratello di Romano). Titolo dell'articolo: «Vedi alla voce Israele». Titolo eloquente per una lunga riflessione sulla storia moderna di un popolo. Dal 1948 a oggi. Una riflessione che porta Paolo Prodi a porre alcune questioni.
La prima. «Lo Stato d'Israele non ha — scrive il fratello del premier — una Carta costituzionale... l'Ethos fondamentale è quello di uno Stato "ebraico e democratico": ma può essere democratico uno Stato basato sull'appartenenza religiosa?».
Può. Sicuro che può, risponde Leone Paserman, il capo della comunità ebraica romana. «Però dobbiamo innanzitutto capirci su cosa si intende per appartenenza religiosa: in Israele, infatti, il 20% della popolazione non è ebrea, più di un milione di persone sono arabe, e di queste la maggior parte è di fede musulmana, mentre una parte più modesta è cristiana. Ci sono inoltre 300 mila israeliani ortodossi di origine russa e... poi, comunque, la maggioranza degli israeliani è laica». Laica? «Assolutamente sì». Questa potrebbe sembrare un'affermazione sorprendente... «No, non lo è. Ma, se si preferisce, potremmo anche dire che la società israeliana è ebraica con lo stesso spirito con cui molti, per esempio qui in Italia, si dicono cattolici senza mettere piede in una chiesa per anni».
Per questo, spiega Paserman, lo Stato d'Israele è democratico e basta. «D'altra parte, aggiunge Riccardo Pacifici — che della comunità romana è vice-presidente oltreché portavoce — Paolo Prodi dovrebbe ricordare che Israele nasce sì, su un'idea di Stato a maggioranza ebraica, ma con un'assoluta parità di diritti tra le confessioni religiose». Assoluta parità, Pacifici? «Assoluta. La religione ebraica non incide nella vita quotidiana». Faccia un esempio. «I cartelli stradali. Hanno tutti tre scritte: ebraico, arabo, inglese e, talvolta, adesso, anche il russo».
Tuttavia — è ancora Paolo Prodi che scrive — «la mancata definizione dei criteri di appartenenza e la persistenza di due legislazioni diverse, quella laica e quella religiosa-rabbinica provocano conflitti e tensioni...».
La verità, interviene il senatore ulivista Furio Colombo, è che Israele non solo, come tra l'altro giustamente sottolinea lo stesso Paolo Prodi, è dotato di una straordinaria Corte costituzionale, abilissima nel districare ciò che è laico da ciò che è religioso, la verità è che Israele ha accettato, inglobato frammenti di Costituzioni passate divenendo così un perfetto Stato laico benché, come sappiamo, fin dalla sua nascita si sia dato un'identità religiosa».
Per questa ragione, riflette Giuseppe Caldarola, deputato diessino e attento osservatore delle vicende mediorientali, «quello di Israele è un vero miracolo di democrazia: è uno Stato multietnico e al tempo stesso, grazie alla sua origine sionista, quanto di più multiculturale possa esserci». Uno Stato modello, secondo lei. «Israele è un modello di democrazia da esportare. Infatti sono anche d'accordo con la seconda parte del ragionamento di Paolo Prodi...».
Scrive Paolo Prodi: «In realtà Israele appare ora la punta più avanzata dell'esperienza politica occidentale... da una parte rappresenta il laboratorio del costituzionalismo come processo e dall'altra mette in rilievo nel proprio esperimento le contraddizioni interne che da noi sono ancora in incubazione».
Un modello (per Caldarola) o un laboratorio (per Paolo Prodi), comunque uno Stato che Marco Pannella propone di inglobare in Europa, anche per imboccare una via che ne garantisca la permanenza e la sicurezza. Lei, Leone Paserman, cosa ne pensa? «Penso che gli israeliani sono occidentali a tutti gli effetti e che questa di Pannella, però, ha il limite d'essere un'idea che, ovviamente, non piace nemmeno un po' alla sinistra italiana».
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