Riflettori puntati, sulla stampa italiana . sulla pubblicazione del libro del giornalista Bob Woodward "State of Denial", che critica la gestione della guerra in Iraq da parte del segretario alla Difesa Rumsfeld e del presidente Bush, e la presunta sottovalutazione del terrorismo da parte di Condoleezza Rice.
La REPUBBLICA propone un brano del libro, accennando soltanto, presentandolo, a una non meglio motivata "smentita" della Casa Bianca.
Ecco il testo:
Pubblichiamo alcuni brani del nuovo libro di Bob Woodward "State of Denial", in cui il giornalista che rivelò lo scandalo Watergate accusa il presidente Bush di aver mentito sulla guerra in Iraq e di non essere riuscito a mettere da parte il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, giudicato incapace da molti suoi collaboratori. La Casa Bianca ha reagito smentendo le rivelazioni e ribadendo il sostegno a Rumsfeld.
Nel novembre 2004, dopo la rielezione di Bush alla Casa Bianca si doveva rispondere a una domanda cruciale: Rumsfeld deve restare? Il segretario generale della Casa Bianca, Andrew H. Card Jr. dovette affrontare la questione con grande cautela. A farsi sentire più di qualunque altra a favore di un cambiamento era la voce del segretario di Stato uscente, Colin Powell, che nel corso di un colloquio disse a Card: «Se vado via io, anche Don dovrebbe andarsene». Bush infatti aveva già deciso di sostituire Powell con la Rice, ma non era ancora chiaro chi volesse alla Difesa.
Nell´elenco di Card sugli 11 possibili sostituti per Rumsfeld figuravano il senatore Joe Lieberman, democratico del Connecticut candidato alla vice-presidenza insieme ad Al Gore nel 2000 e il senatore Repubblicano dell´Arizona John McCain. Ma il sostituto migliore sarebbe stato James A. Baker III. «Signor Presidente, le consiglio una cosa», disse Card. «Al dipartimento della Difesa metta un diplomatico». Parve che al presidente il consiglio interessasse davvero. Card parlò anche a Rumsfeld, che dava per scontato che non ci sarebbe stato alcun cambiamento. Karl Rove ebbe un peso determinante: si stava per avvicinare una sessione alquanto problematica con il Congresso. Chiaramente la guerra in Iraq sarebbe stato il tema centrale delle audizioni di conferma per qualsiasi persona Bush avesse nominato come segretario della Difesa. Rove disse che non dovevano fare assolutamente nulla che potesse far scaturire nuove audizioni. A metà dicembre il presidente prese la decisione: Rumsfeld sarebbe rimasto, non poteva sostituirlo: «Questo non significa che non volesse farlo» disse Card più tardi.
Card cercò di avere un colloquio schietto con Laura Bush. La first lady era angosciata per la guerra e preoccupata che Rumsfeld potesse danneggiare suo marito e la sua opinione pareva riflettere quella della Rice su Rumsfeld, le preoccupazioni che lei nutriva per il suo stile dispotico e la sua tendenza a sovrastare gli altri. Card sapeva che la first lady e la Rice nei weekend a Camp David andavano spesso a fare lunghe passeggiate insieme. Card le espose i suoi dubbi in relazione a Rumsfeld e le disse che credeva fosse ormai giunto il momento di sostituirlo. La first lady (riferendosi al marito, ndt) disse: «A lui sta bene così, ma a me no». In un´altra occasione, invece, disse: «Non so proprio perché questa situazione non gli crei problemi».
Il nuovo segretario di Stato, Condoleezza Rice, assunse un vecchio amico, Philip Zelikow, come consigliere per il Dipartimento di Stato, un posto poco in vista ma di grande influenza. Dopo poco lo mandò in Iraq insieme a un piccolo gruppo di persone. Il 10 febbraio, quattordicesimo giorno da segretario di Stato della Rice, Zelikow le consegnò un rapporto segreto di 15 pagine, con l´intestazione «Secret/NoDis», che significa da non divulgare a nessun altro. La Rice lesse il rapporto che conteneva le seguenti frasi: «A questo punto l´Iraq resta ed è uno Stato fallito, tormentato da una violenza incessante e dal cambiamento politico rivoluzionario in corso». Dopo due anni, migliaia di vite e centinaia di miliardi di dollari, il concetto di «Stato fallito», Stato mancato, per lei fu uno shock.
Nel luglio 2006 ho intervistato Rumsfeld per due pomeriggi di seguito. Della situazione nel suo complesso ha detto: «La nostra exit strategy è avere un governo iracheno e forze della sicurezza in grado di occuparsi di un livello inferiore di guerriglia e in definitiva di avere la meglio sulla stessa, reprimendola nel corso del tempo. Ma potrebbe occorrere un periodo di tempo parecchio lungo e noi potremmo benissimo non avere più molti uomini in Iraq».
Ho chiesto a Rumsfeld quale sia, secondo lui, lo scenario migliore e più ottimistico per una conclusione positiva della guerra in Iraq. «Questa è una brutta faccenda. E´ dura. Non c´è un´ipotesi più rosea. Ci troviamo alle prese con un nemico che può repentinamente cambiare le cose; può fare quello che vuole». Gli ho chiesto: «E ottimista?» Rumsfeld ha guardato verso di me e ha continuato a parlare. Tre dei suoi collaboratori seduti al tavolo con noi nel suo ufficio non hanno potuto di fare a meno di sorprendersi del fatto che Rumsfeld stesse andando avanti a parlare senza darmi una risposta. «Stiamo combattendo la prima guerra della storia del nuovo secolo» ha poi continuato. «E lo stiamo facendo con tutte queste nuove realtà, con un´organizzazione da età industriale in un ambiente che non si è adattato o adeguato. E un´opinione pubblica che non si è adattata né adeguata».
(Copyright Newsweek-La Repubblica, traduzione di Anna Bissanti)
Ennio Caretto sul CORRIERE della SERA riduce la replica della Casa Bianca a un accusa di "mitomania" nei confronti di Woodward:
WASHINGTON — Due volte, subito dopo le elezioni del 2004 e un anno più tardi, i consiglieri di Bush, appoggiati prima dalla first lady Laura, poi dal segretario di Stato Condolezza Rice, tentarono invano di convincere il presidente a disfarsi del controverso ministro della Difesa Donald Rumsfeld, il principale responsabile della catastrofe in Iraq. Nella Casa Bianca spaccata in due, prevalsero i falchi, i protettori del ministro, fautori della guerra a oltranza contro gli insorti, il vicepresidente Cheney e il guru elettorale Karl Rove. La prima volta, dovette andarsene la colomba Colin Powell, l'allora segretario di Stato.
La seconda volta, Bush risolse il confronto tra Rumsfeld e la Rice, subentrata nel frattempo a Powell, ordinando al ministro di «rispondere alle telefonate di lei», ossia di tenere un dialogo costruttivo.
Questa una delle rivelazioni più importanti di un libro sull'Iraq di Bob Woodward, il vicedirettore del
Washington Post che 32 anni fa, assieme a Carl Bernstein, denunciò lo scandalo Watergate, e spinse il presidente Richard Nixon a dimettersi. Il libro, «State of denial» («Stato di diniego») sostiene che Bush è isolato sull'Iraq; che ha mentito e mente sull'andamento della guerra; che l'amministrazione s'illude ancora della vittoria, a causa soprattutto della sua «mente occulta», Henry Kissinger, l'ex re della diplomazia, mentre in realtà si profila una disfatta simile a quella del Vietnam. La Casa Bianca e Kissinger naturalmente smentiscono. Ma a un mese dalle elezioni che potrebbero sottrarre il controllo del Congresso ai repubblicani, è difficile immaginare un libro più dannoso per il presidente e più utile ai democratici.
«State of denial» è il terzo libro di Woodward sull'Iraq dopo «Bush in guerra» e «Piano di attacco», ma a differenza dei primi due, favorevoli al presidente, è una aspra denuncia del suo operato: non a caso la Casa Bianca, che collaborò agli altri, lo boicotta, e dà del «mitomane» all' autore. In risposta, Woodward ha rilasciato una dura intervista alla tv
Cbs, e il Washington Post ha pubblicato un grafico in cui contrappone le rosee asserzioni di Bush ai rapporti negativi dell'intelligence e del Pentagono. Ne è emerso un quadro allarmante: fin dal giugno del 2003 i critici della guerra dell'Iraq ammonirono Rumsfeld che aveva commesso tre gravi errori, le purghe del partito Baath, delle forze armate e dei leader politici, ma furono tacitati. Oggi il capo del comando centrale, il generale Abizaid, dichiara che il ministro «non ha più credibilità».
Tra le tante rivelazioni del libro, spiccano quelle su Kissinger e sulla Rice. Secondo Woodward, Kissinger è chiamato alla Casa Bianca almeno una volta al mese da Bush o da Cheney. Ma interpreterebbe la lezione del Vietnam alla rovescia: mai ritirarsi dall'Iraq. La Rice invece è tirata in ballo per la mancata prevenzione dell'attentato dell'11 settembre 2001. Nel luglio di quell' anno, racconta Woodward, il direttore della Cia George Tenet avvertì la Rice, allora consigliere della sicurezza della Casa Bianca, che Al Qaeda avrebbe attaccato gli Stati Uniti. Ma lei non gli prestò ascolto, e l'agosto successivo Bush liquidò Tenet. Il punto centrale del libro resta comunque lo scontro su Rumsfeld a fine 2004. Stando a Woodward, l'allora capo di gabinetto Andrew Card chiese le dimissioni del ministro e la sua sostituzione con James Baker, l'ex segretario di Stato di Bush padre, una colomba che aveva bloccato l'invasione dell'Iraq nella guerra del Golfo Persico del '91. La first lady Laura lo appoggiò dicendo del marito: «Non capisco come faccia a non essere infuriato» (con Rumsfeld). Ma il presidente rifiutò. Card ritornò alla carica a fine 2005. Nuovamente respinto, nonostante le proteste della Rice alle cui telefonate Rumsfeld non rispondeva, Card rassegnò le dimissioni.
Un altro libro, «Soldato: la vita di Colin Powell» di un'altra giornalista del Washington Post, Karen Deyoung, scuote la Casa Bianca. Powell — che l'ha confermato di persona — non si dimise dopo le elezioni del 2004, fu defenestrato da Bush perché contrario alla guerra in Iraq.
Più corretto Paolo Mastrolilli sulla STAMPA, che informa schematicamente anche sui contenuti della replica (il passaggio è sottolineato da noi nel testo) e precisa che le critiche di Woodward son rivolte alla gestione della guerra e non alla decisione di intraprenderla:
Il mito del Watergate contro il presidente Bush. Dopo l’imbarazzante rapporto dell’intelligence americana, che accusa la guerra in Iraq di aver alimentato il terrorismo invece di ridurlo, Washington ora parla solo del nuovo libro di Bob Woodward, «State of Denial», che rimprovera all’amministrazione di aver compromesso l’intervento a Baghdad. Brutto colpo, a poche settimane dalle elezioni parlamentari del 7 novembre.
Woodward è il giornalista del Washington Post che insieme a Carl Bernstein cavalcò lo scandalo Watergate, ma ha reputazione di essere vicino ai repubblicani e aveva già scritto due libri, «Bush at War» e «Plan of Attack», che dipingevano il capo della Casa Bianca quasi come un eroe. Ora ha cambiato opinione. La lista delle rivelazioni contenute in «State of Denial», che già dal titolo accusa l’amministrazione di negare la realtà in Iraq, è assai lunga.
Il 10 luglio del 2001 l’allora consigliere per la Sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, aveva liquidato senza troppa attenzione il capo della Cia, George Tenet, che l’avvertiva della minaccia di un imminente attacco terroristico. Dopo l’11 settembre lo stesso Tenet, il segretario di Stato Colin Powell, e persino Bush padre, avevano seri dubbi sull’invasione dell’Iraq, ma nessuno ne aveva parlato al capo della Casa Bianca. Cominciata la guerriglia, che il presidente non voleva chiamare «insurrezione», l’amministrazione non ha considerato varie richieste per aumentare le truppe in Iraq, venute dagli uomini sul campo come il «governatore» Bremer. Visti i problemi, dopo le elezioni del 2004 il capo dello staff della Casa Bianca, Andrew Card, aveva sollecitato due volte Bush a licenziare il leader del Pentagono Donald Rumsfeld, con la collaborazione della first lady Laura. Il presidente però aveva rifiutato, perché il vice Dick Cheney lo aveva convinto che questa mossa sarebbe stata interpretata come una sconfessione della sua strategia. Eppure lo stesso generale Abizaid, capo delle forze impegnate in Iraq, aveva dichiarato che «Rumsfeld non ha più alcuna credibilità», mentre le tensioni fra il ministro della Difesa e il nuovo segretario di Stato Rice erano salite al punto che il primo non rispondeva alle telefonate della seconda.
Bush, però, non aveva mollato: «Non ritirerò le truppe, anche se Laura e il mio cane Barney rimanessero gli unici a sostenermi». A quel punto, una volta deciso di andare avanti per la stessa strada, sono cominciate le negazioni della realtà. Nel febbraio del 2005, ad esempio, un rapporto della diplomazia aveva definito l’Iraq come «uno Stato fallito», ma nessuno lo aveva preso in considerazione. Oggi, secondo Woodward, il presidente continua a non dire la verità agli americani sulla gravità della situazione, anche se sul terreno avviene un attacco ogni 15 minuti.
Il colpo è stato così forte che la Casa Bianca ha pubblicato una smentita ufficiale, intitolata «Cinque miti chiave nel libro di Bob Woodward». Il primo mito è che un rapporto dell’intelligence del 24 maggio 2006 smentiva le valutazioni ottimistiche sulla guerra date dal presidente nei suoi discorsi; il secondo è che l’amministrazione ha ignorato le richieste di mandare più truppe; il terzo è che la Rice aveva liquidato gli allarmi di Tenet; il quarto sono le critiche di Abizaid a Rumsfeld; il quinto è il complotto di Card e Laura per licenziare il capo del Pentagono. Card, però, non ha negato di aver proposto la sua sostituzione con l’ex segretario di Stato Baker.
Il libro di Woodward mette in discussione più la gestione della guerra che non la sua razionalità, ma i limiti di giudizio evidenziati nel governo fanno dubitare anche del processo che ha portato a decidere l’invasione. E un’altra biografia in arrivo, «Soldier: The Life of Colin Powell», di Karen DeYoung, mette il dito pure nella piaga della scelta strategica. I difensori della Casa Bianca dicono che Woodward attacca per rifarsi una reputazione, dopo le critiche ricevute per gli altri due libri troppo teneri con Bush. Bob però non fa parte della schiera dei «democratici disfattisti», e la sua denuncia corrode la pietra angolare della sicurezza, su cui i repubblicani hanno costruito la campagna per le elezioni di novembre.\
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