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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - La Stampa - L'Unità Rassegna Stampa
18.09.2006 Gian Enrico Rusconi, Marco Politi e Amos Luzzato danno a Ratzinger la colpa dell'intolleranza islamista
due editoriali e un'intervista

Testata:La Repubblica - La Stampa - L'Unità
Autore: Marco Politi - Gian Enrico Rusconi - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «La ragione incendiaria - «Anche su Auschwitz si sentì frainteso, il Papa sia più chiaro»»
Anziché riflettere sul tentativo del fondamentalismo islamico di conculcare con l'intimidazione e la violenza la libertà di espressione di chiunque, pontefici compresi (non che un Papa abbia più diritto di un vignettista a dire ciò che vuole, ma è un fatto che nella storia la libertà è stata da prima la libertà di alcuni , di più o meno ristrette aristocrazie di eguali e soltanto con difficoltà e lotte talora violente è stata in seguito estesa a tutti: è chiaro allora che se si mette in questione persino la lbertà di espressione di un leader religioso universalmente rispettato, considerato da milioni di cattolici il vicario di Cristo, per di più capo, assoluto, di uno Stato sovrano, è perché si è deciso di farla  semplicemente finita con la libertà, ovunque, sempre e per tutti) Marco Politi su REPUBBLICA del 18 settembre 2006 indica nell'abbandono della strategia, da lui attribuita a Giovanni Paolo II,  del dialogo ad ogni costo con il fondamentalismo islamico la responsabilità della  "débacle in cui è precipitata la Santa Sede" e della crisi tra Chiesa cattolica e islam .
Il  vaticanista di REPUBBLICA evidentemente non vuole tener conto delle persecuzioni anticristiane da tempo in corso nel mondo islamico, nè della natura pretestuosa dell'attuale sollevazione fondamentalista.
Soprattutto, non vuole chiedersi se il dialogo sia sempre possibile e proficuo, anche con interlocutori che  tappano la bocca con la violenza e le minacce a chiunque osi formulare una critica.
Ecco il testo: 


La débacle in cui è precipitata la Santa Sede dopo Regensburg, una vera e propria Waterloo che ha costretto il pontefice a scusarsi personalmente e pubblicamente, è molto più che un incidente di comunicazione. L´infelice citazione anti-Maometto, seguita dalle violenti reazioni del mondo islamico e dall´amara indignazione dei musulmani moderati europei, ha portato violentemente alla luce lo strappo compiuto da Ratzinger nei confronti della strategia condotta per oltre due decenni con successo da Giovanni Paolo II.
Papa Wojtyla era tutt´altro che un buonista. Era perfettamente consapevole sia degli elementi di violenza presenti nella tradizione islamica sia delle pulsioni aggressive e intolleranti
Pulsioni che contraddistinguono alcune parti del Corano e delle sue interpretazioni e che sempre hanno convissuto con il comandamento della tolleranza e del rispetto per i fedeli dei grandi monoteismi ebraico e cristiano.
Wojtyla non si nascondeva nulla e meno che mai la pericolosità del rinascente fondamentalismo, che con l´avvento di Khomeini ha caratterizzato proprio l´inizio del suo pontificato. Lo sanno i suoi intimi, lo sanno le personalità che hanno potuto affrontare con lui l´argomento.
Mistico di animo, ma anche filosofo della storia e leader religioso-politico, Giovanni Paolo II ha però costruito su questa analisi spassionata della realtà una strategia di sistematico dialogo e coinvolgimento delle élite islamiche di tutto il mondo. Da Casablanca al Cairo, dal Sudan alla Siria, a qualsiasi angolo in cui fosse presente una rappresentanza musulmana significativa Giovanni Paolo II ha predicato la fede comune nell´unico Dio dei figli di Abramo, la loro preghiera comune – il suo sogno era di realizzarla anche sul Monte Sinai – e il comune impegno di ebrei, cristiani e musulmani a favore della pace e della giustizia. Non era retorica. Era la volontà di mettere insieme nel segno della fratellanza spirituale una piattaforma condivisa da cui partire per ripudiare la violenza religiosa, il terrorismo religiosamente motivato e qualsiasi manipolazione del nome di Dio per giustificare di progetti sanguinari.
Con questa impostazione Giovanni Paolo II ha creato una rete di contatti e di rapporti di estrema importanza in un´epoca in cui la «questione Islam» è esplosa a livello planetario. Il Papa di Roma è diventato nel mondo musulmano un leader spirituale rispettato e ascoltato, comunque mai identificato dalle élite religiose e politiche come un «nemico occidentale».
Tutto questo si è tragicamente spezzato con i fatti di Regensburg (e vedremo se Ratzinger e il suo Segretario di Stato riusciranno a rimontare la china), ma le origini risalgono all´inizio dell´attuale pontificato. Già nella messa inaugurale Benedetto XVI ha cancellato il riferimento ai rapporti fraterni con il monoteismo islamico. Di colpo quel triangolo costruito da Giovanni Paolo II ha perso un pezzo, restando solo il rapporto speciale tra ebraismo e cristianesimo. Poi Benedetto XVI ha archiviato il ruolo autonomo del Consiglio per il dialogo interreligioso, guidato da un esperto islamista di prima qualità come mons. Michael Fitzgerald, mandato in esilio diplomatico al Cairo. L´apice di questo progressivo declassamento si è raggiunto con il ventennale della grande preghiera interreligiosa di Assisi, che papa Wojtyla convocò nel 1986. Quando l´anno scorso i responsabili della Comunità di Sant´Egidio hanno chiesto a Ratzinger come intendesse commemorare l´evento, si sono sentiti rispondere garbatamente che non c´era particolare motivo per celebrare un ventennale. Alla fine la commemorazione si è fatta – ristretta in due giorni – e si è gridato al miracolo per un messaggio di incoraggiamento del pontefice, che gli stessi organizzatori fino alla vigilia non erano sicuri potesse arrivare.
Conta però, al di là delle dovute parole di elogio rivolte al predecessore, l´insistenza con cui Benedetto XVI ha voluto rimarcare che ognuno doveva pregare per conto suo, che non si dovessero fare confusioni, che si dovessero evitare «relativismi». Insomma, la teoria del dialogo ma con ognuno ben trincerato a casa propria.
Il fatto che Benedetto XVI in varie occasioni abbia poi ribadito la volontà di perseguire il dialogo con l´Islam, non cambia il mutamento qualitativo operato nel suo approccio. Invece di partire dal Dio comune, Joseph Ratzinger è tormentato dalle preoccupazioni che nascono dai messaggi di violenza intessuti nel Corano, è dubbioso sulle reali capacità della religiosità islamica di misurarsi con il problema della laicità, è assillato dagli interrogativi riguardanti una fede che per lungo tempo ha ridotto gli spazi di una interpretazione flessibile del testo sacro e che oggi in molte parti del mondo è sottoposta ad una deriva fondamentalista di cui fanno parte come propaggine estrema le schegge impazzite terroriste.
Ragionamenti giusti, interrogativi fondati che il pontefice ha cercato di sciogliere disegnando all´ateneo di Regensburg l´immagine di una fede che si coniuga alla razionalità e che per ciò stesso deve essere aliena dalla violenza. Ma il mondo non è un´aula universitaria e i mutamenti in altre società religiose non avvengono ex cathedra come Benedetto XVI consciamente o inconsciamente sembra portato a credere.
In Vaticano una strategia verso l´Islam ora è tutta da ricostruire

Analoga, inquietante distorsione dei termini del problema si trova nell'articolo di Gian Enrico Rusconi "La ragione incendiaria", pubblicato sulla prima pagina della STAMPA, dove si sostiene che  Ratzinger avrebbe dovuto aggiungere al suo discorso un' "autocritca" per le passate compromissioni con la violenza da parte della Chiesa.
Nulla di più falso: oggi è il fondamentalismo islamico che perseguita i cristiani, alimenta gli scontri settari all'interno del mondo musulmano e il terrorismo anti-occidentale, che predica l'antisemitismo e la distruzione di Israele.
La Chiesa invece non solo ha abbandonato le condotte che Rusconi le imputa, ma ha anche già chiesto perdono per esse sotto il pontificato di Giovanni Paolo II
Dire che il Papa avrebbe dovuto, rivolgendosi all'islam, ripetere una richiesta di scuse già pronunciata è come sostenere che nel secolo scorso la condanna delle persecuzioni antireligiose comuniste avrebbe dovuto accompagnarsi a un "mea culpa" per la condotta  dei predecessori delle vittime.
E' falso e perverso: perché è  alle vittime si chiede perdono, non ai persecutori. 
Ecco il testo:

 
SONO vivamente rammaricato per avere fatto dichiarazioni involontariamente offensive per l'Islam» - ha detto pubblicamente il Papa. E' un atto di grande ragionevolezza che non credo si sia mai registrato nella storia moderna del papato. A suo modo è un gesto inaudito.
Ma intanto il discorso di Regensburg e le sue conseguenze segnano una cesura irreversibile non solo nel rapporto tra Islam e Chiesa cattolica ma nell'immagine pubblica stessa del Papa in Occidente.
D'ora in avanti non ci sarà più spazio per le retoriche del dialogo interreligioso che non entrano a fondo nel merito delle incompatibilità tra le religioni stesse. Che senso ha pregare insieme se il Dio invocato è tanto diverso? Se è persino incompatibile per i diversi credenti?
Nel caso di Ratzinger è tragico che un discorso intenzionalmente dedicato al «ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione» abbia provocato un’eccitazione collettiva violenta di segno opposto. E' tragico che la reazione degli islamici offesi si traduca esattamente nella violenza che si intendeva esorcizzare. Un circolo diabolico in nome di Dio.
Ma come è stato possibile un così grave errore di valutazione e comunicazione da parte del Pontefice? E' stato davvero soltanto un difetto comunicativo? Un semplice fraintendimento?
A prima vista sembrerebbe di sì. Si è detto che il «professore» Ratzinger ha incautamente preso la mano al «Pontefice» Ratzinger. Ma non è esattamente così. Un buon professore infatti non fa una citazione micidiale (dell'ormai notissimo imperatore bizantino Manuele II Paleologo, secondo cui Maometto avrebbe portato «soltanto cose cattive e disumane come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede») senza contestualizzare in modo critico la citazione stessa. Ratzinger invece si limita a dire che si tratta di «un testo medioevale che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale».
Nessuno dubita di questo, ma nell'impianto del discorso di Regensburg le tesi di Manuele II svolgono un ruolo decisivo. La sua affermazione «Non agire secondo ragione (con il logos) è contrario alla natura di Dio» ritorna ben cinque volte nel testo.

Se insistiamo su questo punto, non è per pignoleria; ma proprio per non banalizzare il discorso ratzingeriano, di cui a torto sono state lanciate nel circuito mediale mondiale esclusivamente le famigerate citazioni, sopra riportate, estrapolate dal discorso complessivo.
Ebbene, questo discorso è assai impegnativo: i suoi concetti guida sono logos, razionalità, ragionevolezza. Questi concetti collocano e ripensano l'identità cristiana dentro al processo di razionalizzazione occidentale. Si tratta di una razionalizzazione declinata in termini di «ellenizzazione del cristianesimo». Ma come corollario sull'Islam si proietta l'ombra dell'irrazionalità, della irragionevolezza. Questo è il punto.
La condanna alla «guerra santa» islamica si colloca all'interno di un ragionamento basato sul contrasto tra il Dio-Logos greco-cristiano è il Dio-Arbitrio dell'Islam. Tra la razionalità occidentale e l'irrazionalismo orientale.
Questa è la vera questione storica, filosofica e teologica che meriterebbe un dibattito ampio e forte. Non solo tra Islam e Cristianesimo ma nella riflessione dell'Occidente come tale.
In questa prospettiva appare debole ed elusiva la tesi difensiva vaticana che «non era nelle intenzioni del Pontefice svolgere uno studio approfondito sulla jihad e tanto meno offendere la sensibilità dei credenti musulmani».
Se è così, allora la condanna della violenza religiosamente motivata, formulata come rimprovero all'Islam, avrebbe dovuto accompagnarsi con una franca autocritica. In alcuni momenti storici infatti il cristianesimo stesso ha legittimato religiosamente la violenza (dalle crociate classiche ad episodi più recenti del XX secolo, che non a caso si sono autoqualificati come «crociate» - contro il bolscevismo spagnolo o sovietico).
So che molti occidentali, credenti e non, sono insofferenti verso quello che considerano un antistorico esercizio autoflagellatorio. Ma in un ampio discorso critico sulla violenza religiosamente motivata, un cenno autocritico sarebbe stato in sintonia con lo spirito di razionalità/ragionevolezza che oggi si vuole promuovere.
E' vero che il Pontefice a Regensburg non poteva affrontare uno «studio approfondito sulla jihad». Ma doveva fare alcune precisazioni sulla impropria identificazione della jihad con la violenza armata, sui diversi e complessi significati che questa espressione ha nella teologia più qualificata. In questo modo Ratzinger si sarebbe sottratto all'accusa di non conoscere la cultura islamica e di coltivare semplicistici pregiudizi anti-islamici.
Un motivo ricorrente di questo Papa è l'invito accorato a non escludere Dio dalla sfera pubblica. E' un invito che talvolta, a torto, irrita i laici. In realtà, l'incidente di Regensburg sta a dimostrare che alla Chiesa non basta avere accesso alla grande sfera pubblica perché sia convincente. Al contrario, come non mai oggi la sfida del confronto tra credenti, non credenti e diversamente credenti è diventata imprevedibile.

Un caso particolare di queste ditorsioni si trova nell'intervista di Umberto De Giovannageli ad Amos Luzzato, che certamente dovrebbe parlare a titolo personale e non come ex presidente delle comunità ebraiche italiane (come recita la presentazione di De Giovannangeli).
Sostiene Luzzato che, sebbene questo non significhi "giustificare reazioni violente" sbaglia chi, ponendosi "sullo scranno dei giudici" ha "rimproverato i musulmani per le loro "esagerate" reazioni". "Pare" infatti a Luzzato che "quando una persona , volutamente o inavvertitamente, causa dolore ad un'altra persona , è paradossale, per non dire altro, rimproverare l'offeso perché reagisce dichiarandosi offeso".
Anzitutto, va notato che le reazioni violente, in via di fatto o sul piano delle minacce, ci sono state, per cui Luzzato dovrebbe chiarire se almeno riguardo a queste è giusto parlare di "esagerazione" e "salire sullo scranno dei giudici" per prendersi la responsabilità morale (che  a noi sembra ineludibile) di condannarle.
In secondo luogo, l'idea che il semplice fatto che qualcuno si senta offeso da un'affermazione basti a condannarla  è, tanto per incominciare, del tutto assurda e, per finire, una minaccia mortale alla libertà di espressione.
E' assurda, perchè nel mondo gruppi contrapposti di fanatici possono decidere di sentirsi  offesi, rispettivamente, da una qualsiasi affermazione e dalla sua negazione. Ed'è una minaccia mortale alla libertà di espressione, perché volendo  trarne delle conclusioni pratiche si arriverebbe facilmente a un mondo come quello descritto da Ray Bradbury in "Fahrenheit 421", dove appunto  tutti i libri vengono proibiti perché ognuno di essi potrebbe dispiacere a questo o  a quel gruppo umano.
Ecco il testo:

«A me pare che quando una persona, volontariamente o inavvertitamente, causa un dolore ad un'altra persona, è paradossale rimproverare l'offeso, perché reagisce dichiarandosi offeso. Ed è ancor più paradossale sostenerlo quando gli offesi sono oltre un miliardo di persone». Non usa mezzi termini Amos Luzzatto, già presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, figura di primo piano dell'ebraismo europeo, nel contestare politici e intellettuali nostrani scesi in campo per difendere a spada tratta Benedetto XVI dopo la rivolta nel mondo islamico provocata dal discorso del Papa di Ratisbona. La categoria del «fraintendimento», utilizzata dalla Santa Sede anche dopo le reazioni del mondo ebraico al discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz, non convince Luzzatto: «Non mi convince - spiega - anche perché tra i doveri di una personalità di grandi responsabilità e di rilevanza internazionale qual è il Papa, vi è anche quello di comunicare in una forma non equivocabile».
Alla base della rivolta islamica contro Benedetto XVI c'è solo, come sostiene la Santa Sede, un fraintendimento del discorso di Ratisbona?
«Direi proprio di no. È molto difficile parlare di fraintendimento. Guardiamo le cose come sono: il Papa è andato indietro di sette secoli, citando un brano nettamente ostile all'Islam che appartiene ad un altro contesto storico e politico, nel quale si potrebbe anche capirlo. La domanda è: fra tanti brani citabili, tante opinioni espresse in questi sette secoli, per quale motivo il Papa è andato a scegliere proprio quello?».
Domanda cruciale. E qual è la risposta di Amos Luzzatto?
«La risposa, difficile di per sé, è resa ancora più complicata dall'atteggiamento assunto in questi giorni burrascosi dalla gerarchia vaticana. Il Papa ha dichiarato dopo due giorni di tempesta di essere dispiaciuto. Alcuni personaggi che si pongono sullo scranno dei giudici hanno rimproverato i musulmani per le loro "esagerate" reazioni. A me pare che quando una persona, volutamente o inavvertitamente, causa dolore ad un'altra persona, è paradossale, per non dire altro, rimproverare l'offeso perché reagisce dichiarandosi offeso, il che, naturalmente, non significa giustificare reazioni violente. Io credo che vi siano due maniere per uscire da questo impasse: la prima, che non mi permetto di suggerire al Papa, è di trovare un'altra citazione più adeguata al dialogo….»
Nell'Angelus, Benedetto XVI ha rinnovato le sue scuse invitando al dialogo e al rispetto reciproco…
«Mi auguro aiuti a far sbollire la tensione, tuttavia la domanda del perché della scelta di quella infelice citazione resta ancora senza risposta…».
E la seconda maniera per uscire dall'impasse?
«La seconda, è quella di rifiutare di trasformare il grave conflitto politico ed economico che si sta svolgendo nel mondo, in un conflitto teologico. Questo è un compito che non spetta soltanto al Papa ma a tutte le forze sociali, religiose, politiche dei Paesi d'Europa ed anche dei Paesi musulmani».
Professor Luzzatto, è la seconda volta che ci troviamo a riflettere su un controverso discorso di Benedetto XVI. La prima fu in occasione della visita del Papa ad Auschwitz. Anche allora vi furono reazioni critiche da parte del mondo ebraico. Anche allora la Santa Sede parlò di fraintendimenti.
«Sarebbe oltremodo imbarazzante se un personaggio di rilievo internazionale e di grandi responsabilità, ed il Papa lo è certamente, dovesse ritenere ripetutamente di essere stato frainteso. Questo perché appartiene ai suoi doveri anche la capacità di comunicare in una forma non equivocabile. Credo altresì che sia questa l'occasione per esaminare più a fondo le prospettive del dialogo interreligioso ed eliminare dal suo contesto qualsiasi tesi secondo la quale dovrebbe esserci, a priori, comunque una maggiore consistenza di verità in una fede piuttosto che in altre».
A esprimere forti critiche alle affermazioni del Papa sono stati anche numerosi esponenti dell'Islam moderato.
«Ritengo di essere moderato anch'io, ma non posso fare a meno di notare che queste "incomprensioni" pesano sullo sviluppo positivo del dialogo interreligioso. Guai a noi se rispolverassimo, innervandolo di presunte superiorità di fede religiosa, quel colonialismo culturale che era e resta alla base del razzismo».

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