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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Unità - Europa - Il Manifesto Rassegna Stampa
14.09.2006 Per due quotidiani Hamas è pronta per le trattative
per uno vuole continuare la "resistenza"

Testata:L'Unità - Europa - Il Manifesto
Autore: Umberto De Giovannangeli - Yaniki Cingoli - Michele Giorgio
Titolo: ««Hamas-Fatah, il futuro governo pronto a colloqui con Israele» - Una nuova opportunità - Anp, Hamas non rinuncia alla resistenza»
Presentato encomiasticamente come "l'uomo delle verità difficili da digerire" Ghazi Hammad, portavoce di Hamas, intervistato da Umberto De Giovannangeli sull'UNITA' del 14 settembre 2006 dice abbastanza chiaramente che Hamas non rinuncia la terrorismo , che l'accettazione del negoziato con Israele e dell'obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza riguarda il  governo di unità nazionale e non Hamas.
E' u.d.g. che vuole illudersi di sentire un discorso diverso e conduce un'intervista acritica funzionale alla propaganda di Hamas, intitolata dalla redazione del giornale, per completare l'inganno  «Hamas-Fatah, il futuro governo pronto a colloqui con Israele».
Ecco il testo: 


È l'uomo delle verità difficili da digerire. È il dirigente che nelle ultime settimane ha anticipato le svolte di Hamas. Ghazi Hamad, portavoce di Hamas, è colui che nei giorni scorsi, e in un'intervista a l'Unità, aveva denunciato il caos che regna nei Territori, evidenziando per la prima volta le responsabilità delle varie fazioni palestinesi: il disordine, la guerra per bande, la corruzione, la mancanza di prospettive, aveva sottolineato Hamad, non sono imputabili solo all'occupazione israeliana. Vicino al premier Ismail Haniyeh, Hamad è uno degli esponenti di punta dell'ala "pragmatica" di Hamas, tra i più convinti sostenitori del nascente governo di unità nazionale: "Realizzarlo - dice - è nell'interesse della causa palestinese». In una recente intervista a l'Unità, Saeb Erekat, capo negoziatore dell'Anp, tra i più stretti collaboratori del presidente Abu Mazen, aveva definito il nuovo esecutivo come il «governo della svolta». Un governo di pace. Ed è proprio da questa considerazione che prende avvio il nostro colloquio con Hamad.
Dopo mesi di frenetiche trattative, i mesi segnati dall'assedio di Gaza e dalla guerra in Libano, sta finalmente per nascere il governo di unità nazionale palestinese. Saeb Erekat lo ha definito il «governo della pace». Condivide questa sottolineatura?
«Il nuovo governo nasce per tutelare i supremi interessi nazionali del popolo palestinese e se questi interessi possono essere difesi attraverso il negoziato Hamas non ha pregiudiziali di principio».
Insisto su questo punto: fino ad oggi Hamas aveva sempre negato la possibilità di avviare trattative dirette con Israele. E adesso?
«Trattare non significa arrendersi o accettare accordi che equivalgono a una svendita dei nostri interessi nazionali. Lo ripeto: non abbiamo alcun problema a che il nuovo governo palestinese avvii colloqui di pace con Israele. Ciò che abbiamo a cuore è la difesa dei diritti del popolo palestinese».
Questa è una affermazione molto importante. È condivisa da tutte le componenti di Hamas?
«Il via libera alla formazione del nuovo governo non nasce come una forzatura di pochi imposta al movimento. Sul "documento dei prigionieri" (che è alla base della formazione del nuovo governo, ndr.) si è aperto un dibattito vero in Hamas. Abbiamo discusso e infine deciso. La mia risposta alla sua domanda è "sì", Hamas non si oppone a trattative dirette con Israele».
Via libera alle trattative, dunque. Ma con quali finalità. Per Hamas l'obiettivo strategico resta quello indicato nella sua carta costitutiva, vale a dire la distruzione di Israele?
«Il nostro obiettivo, quello per cui combattiamo, quello che è al centro del programma del governo di unità nazionale è la costituzione di uno Stato indipendente di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967. Uno Stato con Al Quds (Gerusalemme, ndr.) come sua capitale. Nulla di più, nulla di meno. Il nuovo governo nasce su queste basi e non sulla carta costitutiva di Hamas».
Tra le questioni cruciali legate alla formazione del nuovo governo c'è la fine del terrorismo.
«Lei parla di terrorismo, io preferisco riferirmi al diritto alla resistenza armata di un popolo oppresso, umiliato, depredato delle sue terre, costretto a vivere in città e villaggi trasformati da Israele in prigioni a cielo aperto. Il "documento dei prigionieri" è su questo punto molto chiaro: la resistenza entro i territori occupati è una delle forme di espressione della volontà, condivisa da tutti i movimenti di palestinesi, di battersi per l'autodeterminazione nazionale. Uno degli strumenti, non l'unico».
La responsabilità della conduzione dei negoziati è affidata all'Olp e al presidente Abu Mazen.
«Aggiungo che il presidente coordinerà i suoi sforzi e ne verificherà i risultati in stretto collegamento con il primo ministro (il riconfermato Hanyeh, ndr.) e l'eventuale accordo sarà comunque sottoposto all'approvazione del Consiglio legislativo palestinese (il parlamento dei Territori, ndr.) e, se necessario, ad un referendum popolare esteso ai palestinesi della diaspora. Il presidente Abu Mazen ha questo mandato ma dubito fortemente che riuscirà a ottenere risultati significativi».
Da cosa nasce il suo pessimismo?
«Dalla convinzione che Abu Mazen non avrà nulla da Israele. Perché la logica che muove gli israeliani è quella che stanno attuando nella Striscia di Gaza, con la costruzione del muro dell'apartheid, con le punizioni collettive, le eliminazioni mirate. Abu Mazen ha il mandato per negoziare ma non ha la bacchetta magica per trasformare la testa di Israele».
Hamas spera che la nascita di un governo di unità nazionale possa modificare l’atteggiamento europeo verso il boicottaggio dell’Anp?
«È più di una speranza. I segnali giunti da vari leader europei è che la formazione del nuovo governo può portare ad un ripensamento dell’Europa verso il boicottaggio. D’altro canto, la guerra in Libano ha ha persuaso l’Europa ad assumere un atteggiamento più equilibrato, davvero super partes, nel conflitto arabo-israeliano».

EUROPA pubblica un articolo di Janiki Cingoli, bizzantino nel sostenere che da parte di Hamas vi sarebbe, se non un riconoscimento di Israele, almeno "un superamento del rifiuto di principio al riconoscimento", quanto reciso nel dichiarare fallito l' "unilateralismo".
Ma se gli eventi successivi ai ritiri dal Libano e da Gaza bastano a dichiarare fallita la strategia dei ritiri unilaterali, che cosa si dovrebbe dire dei negoziati che, iniziati nel 1991, non hanno portato  a Israele altro che terrore e insicurezza, per tutti i 15 anni successivi.
Ecco il testo:

L’accordo interpalestinese raggiunto tra il presidente Abu Mazen e il premier Ismail Haniyeh assume un rilievo sempre maggiore. La Comunità internazionale e l’Europa devono cogliere questa nuova finestra di opportunità, oltre gli schemi astratti della Road Map, araba fenice della diplomazia mediorientale.
A base dell’accordo non vi sarebbe solo il “Documento dei prigionieri”, reso noto nei mesi scorsi, ma anche il Piano arabo del 2002, e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che postulano una restituzione dei Territori palestinesi occupati nel ’67 in cambio della pace.
Nel “Documento dei prigionieri” vi erano alcuni punti chiave: rivendicazione di uno stato palestinese entro i confini del ’67, e quindi non comprendente anche Israele, con un suo riconoscimento implicito; creazione di un governo di unità nazionale; riforma e democratizzazione dell’Olp, in cui con- fluirebbero anche le organizzazioni islamiche; delega ad Abu Mazen, in quanto presidente dell’Olp (e non in quanto presidente dell’Anp), a trattare con Israele, salvo sottoporre i risultati alla approvazione del Consiglio legislativo palestinese, o se questa venisse meno, di un referendum popolare, che sicuramente lo approverebbe. Inoltre, il Piano arabo del 2002, che viene ugualmente richiamato, contiene un riferimento più diretto ad Israele, che tutti gli stati arabi si erano espressamente impegnati a riconoscere, stabilendo normali relazioni diplomatiche, una volta che questo avesse consentito la creazione di uno stato palestinese, basato sui confini del ’67, con capitale Gerusalemme Est, e assicurato una soluzione «equa e concordata» della questione dei rifugiati.
Il riferimento al Piano arabo comporta perciò per Hamas, se non un riconoscimento preliminare di Israele, come richiesto dalle tre condizioni poste dalla Comunità internazionale per aprire rapporti con la organizzazione islamica, un superamento del rifiuto di principio al riconoscimento, che nel “Documento dei prigionieri” restava solamente implicito.
Così dicasi per le già ricordate risoluzioni del Consiglio di sicurezza.
Una scelta fatta malgrado la tenace resistenza di Meshall, il leader di Hamas all’estero, che vive a Damasco. D’altronde, Israele ha già trattato con la Siria, che non lo riconosce, senza particolari problemi.
Per quanto riguarda le altre due condizioni, rispetto alla rinuncia alla violenza il “Documento dei prigionieri” afferma l’esigenza di rinunciare alle azioni esterne ai territori occupati, e cioè dentro Israele. Per quel che riguarda questi ultimi, il diritto alla resistenza all’occupante è sancito dal diritto internazionale, e per questo aspetto appare sostanzialmente corretto che si parli di tregua anche di lungo periodo (hudna), cui Hamas si dichiara disposta. Più controverso il terzo aspetto, quello del rispetto dei trattati precedentemente sottoscritti, a partire da quelli di Washington del ’93. Su questo si hanno ancora dichiarazioni contraddittorie di Hamas.
Ma è vero che quegli accordi furono sottoscritti dall’Olp, e non dalla Anp che non esisteva ancora, ed è appunto all’Olp, e al suo presidente Abu Mazen, che viene confidato il compito di negoziare con Israele. Peraltro negli accordi di Washington si afferma che l’Anp non ha competenze in materia di politica estera e di sicurezza, dato che non è uno stato.
Lo schema è il seguente: un governo di unità nazionale, basato su quel documento, i cui ministri di maggiore rilevanza internazionale non siano nelle mani di Hamas (si parla di figure indipendenti e indiscusse come Salam Fayyad alle finanze e di Hanan Ashrawi agli esteri), presieduto da un leader di Hamas che riconosca tuttavia i principi espressi dall’accordo: potrebbe probabilmente superare l’attuale embargo internazionale, far riaprire la valvola degli aiuti internazionali, ed essere considerato meno impresentabile anche da Israele. Hamas non parteciperebbe alle trattative, delegate a Abu Mazen, che potrebbe tuttavia andare al tavolo negoziale più forte, sulla base di un mandato largo e non a titolo quasi personale, come rinfacciatogli da Israele negli ultimi mesi.
Va detto, infine, che Israele appare oggi privo di una proposta politica rispetto ai palestinesi, che non sia la pura conservazione dello status quo, dato che la proposta di un nuovo ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, su cui Olmert si era presentato alle elezioni vincendole, è oramai considerata caduta, dopo la disastrosa esperienza libanese, che ha dimostrato il sostanziale fallimento dell’approccio unilateralista.

Privo di reticenze e ipocrisie, Il MANIFESTO ammette apertamente che Hamas non riconosce Israele e non rinuncia il terrorismo.
Poi chiarisce da che parte sta, intitolando la cronaca
di Michele Giorgio Anp, Hamas non rinuncia alla resistenza
Ecco il testo:


Differenze tra Fatah e Hamas riemerse nelle ultime ore rischiano di allungare i tempi della formazione del governo palestinese di unità nazionale. Il movimento islamico ha ribadito che la sua decisione di favorire la nascita di un nuovo esecutivo sulla base del Documento dei prigionieri non rappresenta un riconoscimento di Israele. "Di quell'importante documento accetteremo solo le parti che non sono in contrasto con l'interesse generale palestinese. Hamas non darà mai legittimità all'occupazione", ha precisato il portavoce del movimento islamico Sami Abu Zuhri in risposta alle dichiarazioni fatte dal presidente Abu Mazen sulla "creazione di un esecutivo che rispettera' gli accordi (con Israele) firmati dall'Olp" e promuoverà la ripresa del negoziato di pace sulla base della Road Map per la creazione "di uno Stato palestinese accanto a Israele". In più il sito online Palestine-info, legato a Hamas, ha puntualizzato che "certe parti che amano pescare in acque torbide hanno accusato Hamas di aver abbandonato i propri principi. Il movimento islamico non si sposta di un pollice dal proprio programma politico che si fonda sulla scelta della resistenza". Contrasti sono esplosi anche sulla ripartizione dei portafogli. Hamas non ha alcun intenzione di rinunciare alle finanze e agli interni, due ministeri importanti per le dinamiche interne palestinesi - i dirigenti islamici vogliono mantenere il controllo sui dicasteri sociali lasciando la diplomazia e i rapporti internazionali ad Al-Fatah - e sta facendo sentire il peso della sua netta vittoria elettorale dello scorso gennaio. Dalle "48 ore" per la formazione del nuovo governo adesso si parla più realisticamente di "almeno due settimane". Non è servito a migliorare il clima la conferma, giunta ieri da Abu Mazen, che sarà il premier uscente di Hamas Ismail Haniyeh a guidare il nuovo governo di unità nazionale. Non è noto quando verrà formalizzato l'incarico,forse domenica.
Al momento c'è una sola certezza. Il nuovo esecutivo - agli esteri viene confermata l'attivista dei diritti civili Hanan Ashrawi che ha esortato gli Usa a cambiare atteggiamento verso i palestinesi - punta con decisione a rompere l'isolamento internazionale che sta strangolando l'economia dei Territori occupati e sgretolando l'Anp. Non è solo la politica a richiederlo ma anche la disastrosa situazione in cui vivono centinaia di migliaia di palestinesi. Ieri la Banca Mondiale ha avvertito che il taglio dei finanziamenti internazionali all'Anp e il blocco dei fondi palestinesi da parte di Israele (circa 400 milioni di dollari negli ultimi sette mesi) fanno del 2006 il peggior anno per l'economia di Cisgiordania e Gaza. Il reddito delle famiglie è precipitato del 40% mentre la povertà e la disoccupazione hanno toccato rispettivamente il 67% e il 40%. Terribili gli ultimi mesi, soprattutto per i 165mila dipendenti pubblici - in sciopero dal 2 settembre - rimasti senza stipendio dallo scorso marzo. Da parte americana e israeliana tuttavia non sono giunti segnali di apertura dopo l'annuncio della prossima formazione di un governo palestinese di unità nazionale. Al contrario Washington e Tel Aviv ribadiscono che anche il nuovo esecutivo dovrà rispettare le condizioni poste dal Quartetto (Usa, Russia. Onu e Ue), riguardanti in particolare il riconoscimento dell'esistenza di Israele prima di qualsiasi ipotesi di ripresa delle dialogo.
Se Abu Mazen teme di non riuscire a rompere l'embargo economico nonostante gli importanti sviluppi politici in corso in casa palestinese, Hamas al contrario ostenta fiducia e afferma che i paesi europei hanno fatto capire che quando nascerà l'esecutivo di unità nazionale, l'Ue avrà un atteggiamento diverso, rispetto a quello tenuto negli ultimi mesi. Secondo Ahmed Yusef, consigliere del premier uscente Haniyeh, l'Europa ha promesso di avere un approccio "più bilanciato" al conflitto israelo-arabo e in effetti lo stesso il ministro degli esteri spagnolo Miguel Moratinos, in una intervista, ha descritto il futuro governo palestinese «un passo positivo» e ha lodato i passaggi dell'accordo per il governo nei quali Hamas promette di accettare l'iniziativa di pace araba che prevede il riconoscimento di Israele in cambio del ritiro dello Stato ebraico dai territori che ha occupato nel 1967

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