Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Dialogare, ma con chi? le soluzioni di Soros sono perfette in teoria, ma dimenticano la realtà del Medio Oriente
Testata: Corriere della Sera Data: 31 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: George Soros Titolo: «Il labirinto della guerra infinita»
Le soluzioni politiche sono migliori di quelle militari, un accordo negoziato è migliore di una decisione unilaterale. Come non essere d'accordo con George Soros quando, in un articolo pubblicato dal CORRIERE della SERA del 31 agosto 2006, ribadisce queste generiche ovvietà?
Peccato che manchi un passo fondamentale. L'indicazione dei modi per metterle in pratica in Medio Oriente. Con chi trattare se i nemici di Israele non ne riconoscono nemmeno il diritto all'esistenza e, dichiarandolo o no, rifiutano di rinunciare alla violenza anche in seguito ad accordi provvisori, intesi come semplici tregue?
Ecco il testo:
L'insuccesso di Israele nel domare Hezbollah dimostra i molti punti deboli della cosiddetta «guerra al terrore». Il primo è che, pur essendo i terroristi i principali bersagli, le vittime risultano spesso civili innocenti, e le loro sofferenze rafforzano la causa dei terroristi. In reazione agli attacchi di Hezbollah, Israele aveva ragione da vendere a voler annientare le milizie nemiche e a proteggersi contro la minaccia dei missili sui suoi confini. Ma Gerusalemme doveva stare più attenta a limitare al massimo i danni collaterali. Le perdite civili e i danni materiali inflitti al Libano hanno infiammato i musulmani e l'opinione mondiale contro Israele, trasformando Hezbollah da aggressori ad eroi della resistenza. Il Libano, così indebolito, avrà inoltre molte più difficoltà nel tenere sotto controllo le milizie di Hezbollah. Un altro punto debole della «guerra al terrore» è che fa affidamento sull'azione militare, escludendo l'approccio politico. Israele si è ritirato dal Libano e poi da Gaza unilateralmente, anziché negoziare soluzioni politiche con il governo libanese e le autorità palestinesi, e il rafforzamento di Hezbollah e Hamas ne è la conseguenza diretta. Il concetto di «guerra al terrore» rende impossibile riconoscere questo fatto, perché separa «noi» da «loro» e respinge l'ipotesi che le nostre azioni possano generare le loro reazioni. Una terza debolezza è che la «guerra al terrore» accomuna diversi movimenti politici che fanno uso di tattiche terroristiche, senza fare distinzione tra Hamas, Hezbollah, Al Qaeda o l'insurrezione sunnita e le milizie Mahdi in Iraq. Eppure tutte queste manifestazioni terroristiche sono diverse ed esigono una risposta differenziata. Né Hamas né Hezbollah possono essere considerati semplicemente terroristi, perché non solo hanno radici profonde nella loro società, ma sono separati da profonde divergenze. Quando Mahmoud Abbas è stato eletto presidente dell'autorità palestinese, Israele avrebbe dovuto fare di tutto per sostenere sia lui che la sua équipe riformista. Quando Israele si è ritirato da Gaza, James Wolfensohn, già presidente della Banca mondiale, ha elaborato un piano in sei punti a nome del Quartetto che si adopera per la pace in Medio Oriente, cioè Russia, Usa, Unione europea e Onu. Il programma prevedeva l'apertura dei varchi tra Gaza e la Cisgiordania, un aeroporto e un porto marittimo a Gaza, la riapertura della frontiera con l'Egitto e il trasferimento delle serre abbandonate dagli israeliani in mano araba. Nessuno dei sei punti è stato mai attuato, e questo ha contribuito alla vittoria elettorale di Hamas. Il governo Bush, pur avendo sostenuto le elezioni, successivamente ha appoggiato il rifiuto di Israele di trattare con Hamas. Il risultato è stato quello di infliggere ancora maggiori sofferenze ai palestinesi. Malgrado tutto, Abbas è stato capace di stipulare un accordo con il braccio politico di Hamas per la formazione di un governo di unità nazionale. Ed è stato per far naufragare tale accordo che il braccio militare di Hamas, manovrato da Damasco, ha ordito le provocazioni che hanno scatenato una dura rappresaglia da parte di Israele, il che ha a sua volta aizzato Hezbollah a nuove provocazioni, aprendo un secondo fronte. Ecco come gli estremisti si strumentalizzano l'un l'altro per distruggere ogni possibilità di progresso politico, e Israele ha fatto la sua parte nel gioco, coinvolgendo Bush in questa politica incancrenita, con il suo sostegno acritico di Israele. Gli avvenimenti hanno dimostrato che una simile politica conduce solo a un'escalation della violenza. Il processo è arrivato al punto in cui la pur indubbia superiorità militare di Israele non basta più a eliminare le conseguenze negative della sua politica. L'esistenza stessa di Israele oggi è più in pericolo di quanto non lo fosse all'epoca degli accordi di Oslo. Allo stesso modo, la sicurezza degli Usa è a rischio da quando Bush ha dichiarato guerra al terrore. È ormai giunta l'ora di rendersi conto che la politica attuale è controproducente. Non ci sarà fine al circolo vizioso della violenza senza una soluzione politica della questione palestinese. Anzi, la prospettiva di iniziare adesso stesso i negoziati è più favorevole di qualche mese fa. Israele deve accettare che il deterrente militare non basta più alla sua sicurezza. E gli arabi, che oggi si sono riscattati sul campo di battaglia, potrebbero essere più disposti ad accettare un compromesso. Se voci autorevoli affermano che Israele non deve mai negoziare da una posizione di debolezza, si sbagliano. Anzi, se seguirà questa rotta, la posizione di Israele rischia di indebolirsi sempre di più. Allo stesso modo Hezbollah, che ha gustato il senso, ma non la realtà, della vittoria, potrebbe, sobillato da Siria e Iran, tirarsi indietro. Ma è qui che entra in gioco la differenza tra Hezbollah e Hamas. Il popolo della Palestina vuole vedere la pace e la fine delle sue sofferenze. L'ala politica di Hamas — distinta da quella militare — ha il dovere di rispondere a questa esigenza. E non è troppo tardi per Israele dare il suo incoraggiamento a un governo palestinese di unità nazionale guidato da Abbas, come primo passo verso un approccio più equilibrato. Finora all'appello manca solo un governo americano che non sia ostinato a perseguire ciecamente la sua «guerra al terrore».
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera