Da LIBERAZIONE del 30 agosto 2006, un editroiale di Rina Gagliardi:
Sgomberiamo subito il campo da un’equazione, tanto infondata quanto strumentale, che però continua a circolare, a trovare adepti, ad essere brandita come arma di delegittimazione politica e, di più, come marchio di infamia morale. L’equazione è quella tra critici, o anche avversari, della politica di Israele, e antisemitismo, più o meno consapevole, più o meno violento: secondo questa tesi, chi oggi denuncia i drammatici errori della politica del governo Olmert (o ieri quelli della politica del governo Sharon), altro non farebbe che mettere in discussione l’esistenza dello Stato di Israele, altro non preconizzerebbe che nuovi “ghetti” o, peggio, nuove persecuzioni del popolo ebraico.
Nessuno formula l'equazione criticata dalla Gagliardi, che attua una deformazione di comodo delle posizioni degli avversari.
"Antisemitismo" si ha quando Israele viene demonizzato, descritto come aggressore quando è aggredito, imputato di colpire deliberatamente e crudelemente la popolazione civile quando cerca di evitarlo mentre i suoi nemici se ne fanno scudo, additato come stato costituzionalmente aggressivo, imperialista e razzista, quando è l'unico stato del Medio Oriente che rispetta i diritti di tutti i suoi cittadini.
"Antisemitismo" si ha quando si nega il diritto all'esistenza di Israele e, con esso, il diritto degli ebrei a costitursi in nazione e quindi in Stato, come qualsiasi altro gruppo nazionale.
"Antisemitismo" si ha quando a Israele si applicano standardiversi da quelli utilizzati per gli altri stati: negando il suo diritto all'autodifesa, il suo dovere di proteggere i propri cittadini.
Per chi è cresciuto in una cultura antifascista e democratica, per chi sui banchi di scuola ha appreso gli orrori dello shoah, per chi è stato “imprintato” da film come “Il grande dittatore”, un’accusa di questo genere è insopportabile - lo ha scritto ieri Ennio Remondino sul manifesto, non possiamo che associarci a questo sentimento, fatto anche di dolorosa emotività.
La Gagliardi e Remondino rivendicano in sostanza il diritto di "chi è cresciuto in una cultura antifascista e democratica" a dire qualsiasi cosa senza potere essere mai accusati di antisemitismo. Si autodefiniscono come parte di un'aristocrazia morale e politica che non deve rendere conto a nessuno dei propri atti e delle proprie parole.
Una posizione assurda, che si confuta da sè.
Purtroppo, non è solo da destra che viene questa campagna: intellettuali e democratici degnissimi (come Furio Colombo e, ora, Piero Citati), pur di non prendere mai le distanze critiche dai comportamenti politici - e dalle guerre - dei governi israeliani, non resistono alla tentazione di bollare come “antisemiti” tutti coloro che, a sinistra, la pensano diversamente. E non si accorgono di cadere in una posizione politico-culturale alquanto curiosa: che nei fatti assume Israele non come uno Stato, con i suoi governi, il suo parlamento, la sua società civile stracolme di dialettica, differenze e contraddizioni (come accade del resto in tutti i consessi umani, democratici e non), ma come un “Metastato” compatto, anzi monolitico. Un’essenza soprastorica, nella quale non si danno né destra né sinistra, né evoluzioni o involuzioni, né strategie buone o strategie cattive, ma sempre e soltanto, appunto, l’essenza del diritto ad esistere (e a garantire la propria sicurezza), in nome della quale tutto è giustificabile (anche mille civili libanesi massacrati dalle bombe) e nessuna critica è concessa. In termini certo assai diversi, si comportavano (circa) così i (pochi) esponenti sovietici che capitava di incontrare alla fine degli anni ’70: non appena provavi a chiedere conto delle persecuzioni contro i dissidenti o, più in generale, della mancanza di libertà politica e civile che dominava i sistemi del “socialismo reale”, l’unica risposta che si riusciva ad ottenere era sempre la stessa: “Il nostro Paese, l’Urss, è assediato dall’imperialismo mondiale, perciò per noi la libertà è un lusso”. E se persistevi nel dubbio, puntuale era l’accusa: come minimo, eri “anticomunista” o vittima della propaganda antisovietica. No, certo, l’analogia può risultare, in gran parte risulta, fuorviante. Eppure, l’appiattimento sulle scelte politiche e strategiche dei governi di Israele, compiuto dai vari Colombo, Citati, Caldarola e così via, ci appare davvero acritico, quasi religioso, proprio come acritica, religiosa e un po’ cieca era la difesa o l’autodifesa dell’Urss brezneviana. Ma - ecco un gruppo di obiezioni alla quale siamo molto sensibili - non si rischia così di sottovalutare gravemente il problema della sicurezza dello Stato di Israele e del suo popolo? Non ci si rende conto che l’antisemitismo non solo non è affatto morto, ma tende a ritornare, come un mostro dalle mille teste? E non si vede che, proprio nelle file della sinistra, cova da anni un odio così profondo verso Israele da assumere i contorni di un vero e proprio “antisemitismo di sinistra”? Sono tutti interrogativi ai quali, se posti in buona fede, conviene sforzarsi di rispondere. Intanto, però, bisognerebbe meglio definire il termine, “antisemitismo”, che non è certo univoco, ed ha purtroppo alle spalle una lunga storia. In senso letterale, l’antisemitismo altro non è che una forma (tra le più detestabili e odiose) di razzismo: gli ebrei percepiti come una “razza” inferiore e pericolosa, come tale da combattere e anzi da estirpare. Ma se c’è una nozione da bandire, anche e soprattutto dal senso comune, è proprio quella di “razza”: non esistono, tra gli uomini, le “razze”, siamo tutti, noi umani, figli di quell’Homo sapiens nero che centomila anni fa emigrò dall’Africa e conquistò il mondo. Dunque, più che su questa forma estrema (teorizzata dai Gobineau e dagli Houston Stewart Chamberlain, e messa in atto dal nazismo), è sulle sue forme più subdole che conviene concentrarsi. Nella storia, ve ne sono state molte, anche nei paesi più insospettabili, come gli Stati Uniti - che avevano “scoperto” l’eugenetica, con Theodor Roosevelt e nei primi anni bloccarono l’emigrazione ebraica, nel timore che essa “contaminasse” la purezza della “razza” americana, Wasp. Oppure, quelle culturali, secondo George L. Mosse (“Le origini culturali del Terzo Reich”), che documenta quanto furono forti e diffusi, nella Germania dell’800, gli stereotipi antiebraici (oltre che la pratica discriminazione degli ebrei): l’Ebreo divenne il Nemico perché non era legato alla terra, al sangue, al Volk (concetto più complesso di quello di “popolo”). Era lo Straniero Errante che impediva l’unificazione nazionale, e spirituale, del popolo tedesco. Era il Complottatore segreto, che si riuniva notte tempo nei cimiteri allo scopo di impadronirsi del pianeta - come si legge in “Biarritz”, celebre romanzo pubblicato nel 1868, scritto da un tedesco che si era dato lo pseudonimo romantico di Sir John Retcliffe, e immediato antecedente della pubblicazione dei “Protocolli dei saggi di Sion”. Questi precedenti (e tanti altri che non possiamo citare) ci servono a capire per un verso che la “follia” nazionalsocialista non fu certo l’azione improvvisa di una banda di pazzi criminali, ma per l’altro verso ci parlano del presente. Del nostro presente. La diffidenza, la paura, o l’odio verso gli ebrei ritornano in termini sinistramente analoghi: talora come esplosione di cieca irrazionalità o ricerca del capro espiatorio dei mali del mondo, talaltra come rassicurazione identitaria. Nel disordine prodotto dalla globalizzazione, dai suoi effetti perversi e dalla sua crisi, si riaffacciano, soprattutto, la “cultura della terra”, il nazionalismo esasperato, il localismo - e la paura del Diverso, che è sempre l’Ebreo, ma ora si espande, e il suo bersaglio, la sua vittima, è sempre lo Straniero errante, l’islamico, il senza-patria, il senza-documenti, il soggetto di un’altra religiosità, di altri usi e costumi che attentano ad una pretesa Unità sotto attacco. Sì’, l’antisemitismo è di nuovo tra di noi, perché il razzismo e la xenofobia sono tra noi, e conoscono una nuova e più rigogliosa stagione.
Gagliardi occulta il fatto che l'antisemitismo attuale non è legato alla xenofobia, ma alla campagna mondiale di odio contro Israele, presentato come incarnaziona del male e come maggior pericolo per la pace mondiale.
Odio che inevitabilmente, dallo Stato degli ebrei, si riversa per molti sugli ebrei tutti.
Lo stato attuale del mondo - e l’irrisolto dramma politico del Medio Oriente - altro non fa che alimentare questo clima, in un intreccio spesso irrazionale e perverso. *** Quando e se le comunità ebraiche avvertono questo clima, questi nuovi pericoli, non possiamo non ammetterlo: è una paura fondata. Ma la paura, purtroppo, non è mai una buona consigliera, anche e soprattutto per coloro che sono sotto minaccia. Cosicché stiamo assistendo ad un bizzarro rovesciamento della logica storica: ora è la sinistra, un tempo alleata strettissima della causa ebraica, a diventare, a suo modo, un “capro espiatorio”.
Qui viene invece occultata l'esistenza di una tradizione di antisemitismo di sinistra, ben precedente alla nascita di Israele.
La sinistra viene accusata in quanto tale (a partire dalle sciocchezze di qualcuno, che si potrà scovare sempre, nei contesti più civili), in quanto difende il diritto sacrosanto dei palestinesi ad avere uno Stato, in quanto si oppone, com’è naturale, alle politiche di destra di Bush e Olmert, di essere contro Israele e di covare pulsioni antiebraiche e o antisemite: ecco il cortocircuito perverso, a cui lavora, ahimè con un certo successo, una parte della stessa intellettualità di sinistra. Accade così che Gianfranco Fini, erede diretto per quanto pentito, di coloro che nel 1938 vararono in Italia le leggi razziali, venga oggi considerato un “amico” affidabile del popolo ebraico, ben più di quanto non lo sia l’intero movimento pacifista. E accade, perfino, che dentro la società israeliana le insorgenze critiche siano assai più nette e diffuse di quanto non accada fuori. E’ una spirale che ci appare, sotto molti aspetti, terribile. Ma noi, che sappiamo incompatibili con ogni idea di sinistra il razzismo e l’antisemitismo, che continuiamo a considerare decisivo l’obiettivo “Due Stati, due popoli”, che lavoriamo attivamente per una pace giusta e degna in tutto il Medio Oriente, che ci ostiniamo a pensare che i diritti dei palestinesi e dei libanesi possano convivere con la sicurezza degli israeliani,
Tutti pensiamo che "i diritti dei palestinesi e dei libanesi possano convivere con la sicurezza degli israeliani", in teoria.
In pratica, la dirigenza palestinese e un movimento terroristico legato all'Iran hanno "occupato" la causa palestinese e lo Stato libanese, votandoli a una guerra di jihad che non ha per obiettivo la rivendicazione dei diritti nazionali libanesi o palestinesi, ma la distruzione di Israele.
che avversiamo con tutte le nostre forze la logica di guerra, l’odio e l’intolleranza, noi, ecco, sappiamo invece di essere proprio noi gli amici veri di Israele.
"Vero amico" di Israele è chi capisce la natura dell'aggressione che subisce e dei rischi corre, e lo appoggia quando si difende. Chi non capisce è un amico pericoloso. Chi capisce e finge il contrario, chiaramente è un nemico.
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