Dal RIFORMISTA del 17 agosto 2006, un editoriale per difendere la linea antisraeliana del ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema:
Abbiamo appreso dal lancio Adn Kronos delle 12.38 di ieri che, tra «i problemi assai seri e gravi» che innegabilmente caratterizzano «la drammatica vicenda mediorientale, il primo (sic) è costituito dalla linea politica del ministro degli Esteri. Massimo D’Alema»: parola di Fabrizio Cicchitto. E se tra le tante contestazioni che ieri sono piovute addosso a D’Alema scegliamo proprio questa, non è solo per il suo tono vagamente surreale, ma perché in qualche modo le condensa tutte. Comprese quelle, durissime, formulate dal presidente della Comunità ebraica romana, Leone Paserman, e dal portavoce Riccardo Pacifici. Resta da stabilire, ovviamente, perché D’Alema rappresenti un problema, anzi, a quanto pare, il problema. Sullo sfondo, si capisce, ci sono i sospetti, antichi e recenti, su una simpatia (storica) per la causa palestinese così dichiarata da renderlo, secondo i critici, a dir poco tiepido nei confronti della causa di Israele: «Con lui parlavo solo di calcio», ha ricordato, prima di lasciare l’Italia, l’ex ambasciatore Gol. Sulla scena, invece, c’è il viaggio a Beirut e al Cairo, la passeggiata tra le macerie della capitale libanese a braccetto con il deputato di Hezbollah Hussein Haji Hassan, le dichiarazioni sulla straordinaria popolarità di cui Hezbollah e i suoi leader godrebbero in tutto il mondo arabo, moderati compresi, per una guerra che a suo giudizio è stata non solo una tragedia, ma anche un gigantesco errore politico. Senza pretendere di dire parole risolutive sulla controversia, ci limitiamo a porre tre banalissime domande ai contestatori. La prima. D’Alema avrebbe fatto meglio a non visitare i quartieri di Beirut bombardati dagli israeliani perché considerati roccaforti di Hezbollah?
Si, avrebbe fatto meglio a non visitarli, se il prezzo da pagare per farlo era di stringersi al braccio di un esponente della forza terrorista che quella distruzione ha provocato, con la sua aggressione a Israele e con la sua tatttica di farsi scudo dei civili
La seconda. Una volta deciso di visitarli, chi altri mai, se non dei rappresentanti di questo gruppo avrebbe potuto scortarlo, nel caso prendendolo a braccetto?
D'Alema avrebbe dovuto decidere prima se era disposto a farsi scortare da Hezbollah, e dopo se visitare i quartieri di Beirut bombardati
La terza. La cosa ovviamente non fa felice e non tranquillizza nessuno, ma che adesso la popolarità di Nasrallah nei paesi arabi sia alle stelle lo sanno davvero tutti: sarebbe appena un po’ meno popolare, Nasrallah, se D’Alema nascondesse la testa sotto la sabbia per non vederlo, e non si chiedesse i perché di tanto successo?
Probabilmente no, ma avrebbe almeno raccolto un successo politico in meno
Oltre a questo editoriale e alle sue capziose domande, il numero odierno del RIFORMISTA ospita un articolo di Paola Caridi che accredita come volta alla ripresa del dialogo la prospettiva del "governo di unità nazionale" con il quale Hamas vuole condizionare Abu Mazen e riottenere il sostegno finanziario della comunità internazionale.
Ecco il testo:
Gerusalemme. Prima il Libano. Poi si può riaprire il dossier Palestina. Ai dirigenti dell’Autorità nazionale il messaggio era arrivato forte e chiaro, dalla comunità internazionale. Finché non tacciono le armi sul fronte nord, i problemi dei palestinesi debbono essere accantonati. First thing first. E così i palestinesi hanno aspettato il cessate-il-fuoco tra Israele e hezbollah, prima di ricomparire sulla scena. Con un accordo di massima discusso a quattr’occhi direttamente dal premier Ismail Haniyeh e il presidente Mahmoud Abbas, arrivato a Gaza proprio per raggiungere con il governo guidato da Hamas l’intesa su di un nuovo esecutivo di unità nazionale.La tempistica comunque,soprattutto in Medio Oriente, non è mai del tutto una questione di fair play. I palestinesi, insomma, non hanno solo trattenuto il fiato perché così avevano chiesto le varie cancellerie. I tempi,a Gaza, a Ramallah e anche a Tel Aviv, hanno un codice tutto loro. E l’accordo di ieri tra Haniyeh e Abbas, dietro l’ottimismo evidente in tutt’e due i leader palestinesi, elenca altri significati. Il primo: il dialogo nazionale sul documento dei prigionieri, raggiunto quando già i caccia israeliani volavano su Gaza dopo il rapimento di fine giugno del caporale Gilad Shalit, ha retto alla prova durissima dello strangolamento militare della Striscia. Ha retto ai 178 palestinesi uccisi in un mese e mezzo, alle distruzioni di Gaza e all’emergenza umanitaria. Il governo guidato da Hamas, per metà nelle galere israeliane assieme a decine di parlamentari eletti nelle file del movimento integralista, non si è sciolto come prevedevano alcuni strateghi americani. E il documento dei prigionieri,elaborato in almeno un anno e mezzo di discussioni tra gli attivisti detenuti nelle carceri di Israele, è ancora la base dell’intesa. Il secondo significato nascosto: i palestinesi hanno riaperto il loro dossier confidando sul fatto che, in questo periodo, il fronte arabo ritiene di aver guadagnato una vittoria e gli israeliani sono impegnati in polemiche durissime sulla condotta di tutta la guerra contro hezbollah, dall’inizio alla fine. L’unilateralismo di Ehud Olmert, insomma, è per ora stato riposto nel cassetto. Il ritiro parziale dalla Cisgiordania potrebbe essere un piano del tutto accantonato, e i palestinesi sperano di avere uno spazio d’azione ritrovato. Se, però, viene risolto il rovello dell’isolamento internazionale del governo guidato da Hamas. Certo, anche la situazione nella politica palestinese non solo non è rosea,ma è arrivata a un passo dalla catastrofe. In particolare quando anche Haniyeh, sinora sordo alle richieste di dissoluzione dell’Anp, si è chiesto cinque giorni fa se non fosse il caso di sciogliere l’Autorità, dopo il rapimento da parte israeliana dello speaker del parlamento palestinese, il professor Aziz Dweik, che rappresenta l’ala politica e meno dura di Hamas in Cisgiordania. Quando anche il movimento integralista è stato affascinato dall’idea della dissoluzione dell’Anp - come lo erano stati Farouk Qaddumi e molti esponenti di al Fatah, e come peraltro molti intellettuali palestinesi chiedevano da anni, sin dalla richiesta famosa di Edward Said - si è capito che i tempi erano diventati veramente molto stretti. O l’accordo o lo scioglimento. Riportando l’orologio della storia a prima del 1994 e a prima di Oslo e aggravando ulteriormente il mal di testa delle cancellerie europee e americane, già impegnate a far reggere la fragile tregua sul fronte nord. Questo è uno dei motivi per i quali,a Ramallah, sono arrivati in tanti a parlare con Abu Mazen. Gli inglesi, anzitutto, con un inviato di Tony Blair.E poi i francesi. E infine Javier Solana, che molto ha spinto per l’intesa tra Abbas e Haniyeh. Quello che si prefigura è un nuovo governo di tecnici non legati ai partiti, attraverso il quale si possa aggirare l’embargo a Hamas deciso negli scorsi mesi. Quello che non viene detto, è che in questo modo Hamas rientra dalla finestra, come dimostra il benestare dato senza problemi da Haniyeh. L’intesa di ieri, comunque, è solo l’inizio di un processo.Tutti lo sanno. E tutti dicono a mezza bocca che va in parallelo con i negoziati in corso per la liberazione del caporale Shalit, di cui si continua a parlare dopo l’offerta stilata dai servizi di sicurezza egiziani che si trovano a Gaza. Proposta confermata a larghe linee dal portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, e che prevederebbe lo scambio tra Shalit e 600 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane (donne e minori di 18 anni), più un secondo round per i prigionieri che hanno già scontato molti anni di galera.
Segnaliamo infine l'assurdo occhiello dell'articolo di Paolo Celi "Assad esulta e presenta il conto ai libanesi": "I due temi del dibattito politico siriano".
Dibattito politico? Al RIFORMISTA non sanno che in Siria c'è un regime a partito unico ?
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