Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Quel che i palestinesi devono fare per la pace un'intervista ad Abraham B. Yehoshua e un'intervento dello scrittore israeliano
Testata:La Repubblica - La Stampa Autore: Susanna Nirenstein - Abraham B. Yehoshua Titolo: «»
Un'intervista di Susanna Nirenstein ad Abraham B. Yehoshua, pubblicata da La REPUBBLICA del 30 giugno 2006:
Venti di guerra in Israele. Abraham B. Yehoshua sta venendo in Italia per ricevere stasera il Premio Internazionale Viareggio assegnato ogni anno a personaggi «che si siano distinti per il loro impegno nei temi della pace e della solidarietà». Eppure qui il tema è il conflitto e la parola pace sembra perdere ogni contorno, ogni senso. Gli telefoniamo ad Haifa. Lei sta per ricevere un riconoscimento al suo "impegno per la pace". Cosa vuol dire pace di questi tempi? Lei si considera ancora un pacifista? «Prima di tutto sono uno scrittore naturalmente. E attraverso ciò che scrivo cerco anche di esaminare alcuni valori umani, e di migliorare la sensibilità verso quei valori. Questa è una delle ragioni principali della mia scrittura: scoprire le diverse facce dell´umanità e esaminare i loro dilemmi nei romanzi che costruisco. Ma come cittadino, e in questo continuo una lunga tradizione della letteratura ebraica che data dall´inizio del XX secolo, sono coinvolto non in un partito politico, ma nella grande rinascita del mio popolo nella sua terra: all´interno di questa corrente uno dei temi fondamentali è di trovare un modus vivendi con i palestinesi». La parola pacifista ha ancora un senso in Israele? «Lei usa questa parola, "pacifista", ma non c´entra nulla il "pacifismo". Si tratta di trovare un onorevole accordo tra noi e i palestinesi al fine di fermare questo spargimento di sangue e trovare un modo di vivere accanto, ognuno nel suo Stato». Qual è l´ostacolo principale? «Il problema è che fino ad oggi i palestinesi non hanno mai avuto un solo momento di indipendenza. Sono stati sotto i turchi per circa 400 anni, poi sotto gli inglesi, e ancora sotto gli egiziani, i giordani, gli israeliani: il fatto è che hanno perso ogni capacità di governare se stessi. Noi siamo tristissimi per questo, perché dopo che abbiamo provato a ritirarci da Gaza e a dargli una piccola indipendenza, ma comunque un´indipendenza vera, senza coloni né esercito, e gli abbiamo detto "questo è un inizio, siete liberi, prendete il futuro nelle vostre mani e costruite, governatevi", ecco che allora sono arrivati i razzi kassam sui nostri villaggi, gli assalti, le fazioni delle varie milizie. Siamo disperati. Sembra che i palestinesi non siano capaci di autogovernarsi, di avere una autorità che possa guidare il popolo nella pace». E´ la fine del principio "terra in cambio di pace", il principio che ha guidato Oslo e poi tutti gli altri accordi? «No. Penso che dobbiamo fare del nostro meglio per mettere i palestinesi nella condizione di essere responsabili di un governo che domini realmente il loro proprio destino. Altrimenti il futuro ritiro dal West Bank non ci sarà. Invece di uccidere con gli "omicidi mirati" i terroristi o di fermare questo o quel leader, dobbiamo rivolgerci a tutta la popolazione e dirgli: faremo una tregua per un mese, se ci lancerete i kassam non risponderemo, non faremo omicidi mirati - che sono convinto non servano -, ma se continuerete a sparare dobbiamo prendere altre misure per obbligare l´intera popolazione a fermare questi gruppi che ci aggrediscono continuamente». Quali altre misure? «Penso che ad esempio sarebbe una buona idea portare come forze di controllo militari egiziani e giordani. Calmerebbero la popolazione e potrebbero aiutare a costruire leggi e ordine. Noi siamo in pace con Egitto e Giordania, e se a Gaza ci fossero delle loro truppe interarabe, come parte di una stessa nazione, che aiutassero i palestinesi ad autogovernarsi passo dopo passo, sarebbe un modo per uscire da questa situazione». Lei ha detto che gli "omicidi mirati" non servono. Però non ha firmato l´ultimo appello degli scrittori israeliani che era esattamente contro questa pratica. Cosa non condivideva? «Io non credo che uccidere quel singolo terrorista serva a fermare i razzi kassam. Di fatto non è servito a porre fine alle azioni dei palestinesi. Solo i palestinesi stessi possono arrestare il terrorismo. L´appello non l´ho firmato quasi per caso, ma sono convinto che non sia sufficiente affermare "basta agli omicidi mirati", bisogna proporre qualche altra cosa per rispondere agli attacchi contro i nostri villaggi. Bisogna offrire delle soluzioni agli israeliani che soffrono, ai nostri concittadini che vengono bombardati con i kassam». La sua soluzione? «Una pressione non violenta sulla popolazione in modo che l´Autorità, che sia Hamas o Olp non importa - sono per parlare anche con Hamas se questa è la via verso un cessate il fuoco - prenda l´iniziativa di fermare questi piccoli gruppi che ci sparano e ci uccidono». Piccoli gruppi? «Sì, e l´Olp e Abu Mazen e il governo di Hamas hanno abbastanza potere per fermarli. Hanno migliaia di soldati e poliziotti, sanno esattamente chi spara. Non vogliono fermarli, ma possono. E devono sapere che è una loro responsabilità. E´ un fatto nuovo nella storia dei palestinesi: devono prendere consapevolezza della responsabilità che hanno. Non possono dire che sono sotto occupazione e che non sono in grado di bloccare i terroristi. A Gaza lo possono fare». Crede che Israele rioccuperà Gaza dopo averla lasciata meno di un anno fa? «Non credo che gli israeliani occuperanno nuovamente Gaza. Ma il grande problema è che, se Gaza non sarà pacifica, avremo enormi difficoltà a continuare il ritiro da altre aree. Vogliamo che il governo vada avanti nello smantellare i settlement nel West Bank e si ritiri ulteriormente. Ma la situazione ci scoraggia dal continuare, e questo è pessimo per i palestinesi della Cisgiordania. Così di fatto a Gaza stanno lavorando contro l´interesse dei loro stessi fratelli del West Bank. Per esempio il governo aveva programmato di chiudere gli outpost illegali della Cisgiordania la prossima settimana, ma ora ha deciso di rimandare. Se gli abitanti di Gaza vogliono aiutare i loro fratelli devono dimostrare la pace, devono smettere di sparare: solo così il piano di sgombero potrà andare avanti». In Italia alcuni giornali hanno scritto che l´accordo tra Hamas e Fatah contiene implicitamente il riconoscimento di Israele. Lei che ne dice? «L´Olp e Arafat avevano riconosciuto Israele, eppure... Il fatto è avere la volontà e la capacità di fermare il terrorismo. Questa è la vera questione. I palestinesi devono crescere, non sono più bambini sotto occupazione. Devono capire che è loro dovere assumere la responsabilità dell´autodeterminazione. Prima era Hamas a sparare, ora Hamas è al governo e dicono che è la Jihad. Poi sarà un´altra organizzazione..., non si finisce mai. Non possiamo trattare con un popolo in cui ogni fazione fa quel che vuole». Questa intervista è fatta in occasione del Premio letterario che riceverà a Viareggio. Non posso non chiederle se sta scrivendo un nuovo romanzo? «Certo. Si intitola Friendly Fire (Fuoco amico) e uscirà a fine anno. Nel 2007 sarà pubblicato anche in Italia. Di cosa parla? Non posso rivelarlo per ora. Le dico solo che i protagonisti sono una coppia intorno ai 60 anni, con figli e nipoti. Sa, io ormai ho 4, tra poco, 5 nipoti e per la prima volta stanno diventando anche compagni della mia scrittura».
Di seguito l'intervento dello scrittore pubblicato dalla STAMPA del 30 giuno:
TORNANO a echeggiare nella Striscia di Gaza spari, colpi di mortaio, cigolii di bulldozer, sibili di missili palestinesi lanciati sulla cittadina di Sderot e sui kibbutz israeliani e uomini e donne appartenenti a entrambi i popoli rischiano di rimanere uccisi o feriti. Dopo lo scoppio dell'Intifada 2000 sono stato fra i più entusiasti sostenitori del piano di ritiro unilaterale dai territori occupati e in primis dalla Striscia di Gaza. Speravo che con lo smantellamento delle colonie - la cui presenza era una continua provocazione agli occhi dei palestinesi -, delle basi militari e con la fine di quasi quarant'anni d'occupazione la pace potesse tornare finalmente a regnare in quella regione tormentata, con una fra le più alte densità di popolazione del mondo. Speravo che i palestinesi potessero avviare un processo di ricostruzione e di sviluppo, che trasformassero la Striscia di Gaza in una regione modello e in un incentivo per gli israeliani a ritirarsi da altre zone della Cisgiordania (un ritiro parziale dal Nord di quella regione e lo smantellamento di alcune colonie è già avvenuto l'estate scorsa). Ma contrariamente a ogni logica i palestinesi hanno ripreso a lanciare missili su cittadine e villaggi al di là dei confini della Striscia, un'azione che ha provocato la ritorsione israeliana e ci ha fatto ricadere nell'antica spirale di sangue. I palestinesi di Gaza, così auspicavo e credevo, si sarebbero ripresi il pieno controllo sul proprio destino dopo la fine dell'occupazione e speravo che con la vittoria di Hamas alle recenti elezioni politiche palestinesi proprio un governo estremista potesse esercitare un maggior controllo sulle varie milizie. Questo non è successo. Dopo un breve periodo di calma gruppi terroristici hanno ripreso a colpire indiscriminatamente cittadini israeliani residenti in un'area unanimemente considerata territorio sovrano israeliano. E rieccoci al punto di partenza, al problema alla radice del ginepraio mediorientale: la mancanza di maturità dei palestinesi, la loro incapacità di autogoverno, di agire con audacia e raggruppare l'esercito e le forze di sicurezza sotto un'unica autorità. Il popolo palestinese non ha mai goduto di una propria sovranità. Quattrocento anni di dominio turco, trenta di protettorato britannico, diciannove di patrocinio-occupazione giordana ed egiziana e infine quarant'anni di occupazione israeliana hanno completamente alterato il loro istinto naturale, presente in tutti i popoli, all'autogoverno, facendo del caos il loro contrassegno distintivo. Come trasformare questo caos in competenza nell'esercizio del potere? Come far sì che i palestinesi diventino un partner affidabile e stabile con cui poter condurre negoziati di pace? Israele, loro eterno nemico, non è in grado di farlo, i suoi dirigenti non ripongono alcuna fiducia nella nazione palestinese e la sostituzione di leader estremisti con altri più moderati non farebbe che inasprire la situazione senza recare alcun beneficio. L'unica soluzione possibile a mio parere sarebbe la creazione di una coalizione araba che si insedi nelle aree palestinesi e coadiuvi le forze di sicurezza moderate nell'imporre l'ordine e la legge sulla popolazione così da permettere la graduale creazione di un governo in grado di raggiungere un vero compromesso con Israele e di imporre le proprie decisioni ai suoi cittadini. La Giordania e l'Egitto hanno firmato un accordo di pace con Israele e tra i governi di questi due Stati arabi e lo Stato ebraico si sono instaurati negli ultimi venti o trent'anni discreti rapporti di lavoro. Con un efficace e attivo patrocinio dell'Unione Europea, Giordania ed Egitto potrebbero inviare truppe militari nei territori palestinesi lasciati liberi da Israele per tenere a freno (anche con l'uso della forza) elementi sobillatori, anarchici e terroristici. Occorre però che gli europei esercitino una pressione ferma e compatta sia su Israele che su Giordania ed Egitto per ottenere l'approvazione di un piano tanto audace. Senza quella non si raggiungerà mai una vera intesa in Medio Oriente, ma si registreranno solo preoccupanti regressioni, analoghe a quella a cui stiamo assistendo oggi. Come Catone il censore anch’io da anni ripeto ostinatamente la stessa cosa: l'Unione Europea deve assumersi con coraggio e determinazione l'iniziativa di porre fine all'occupazione e alla violenza. Essa possiede sufficiente potere economico e militare per imporre almeno una tregua tra le parti. La cosa non è facile, lo ammetto. Un'ingerenza negli affari interni di altri popoli può anche rivelarsi un'esperienza frustrante, ma la storia ci ha insegnato che è quanto meno possibile e attuabile. I popoli europei che per tanti anni sono stati coinvolti in terribili e sanguinosi conflitti oggi godono pace e benessere economico e una proficua collaborazione reciproca così ben simboleggiata dal clima festoso dei Mondiali. È questa la missione sacra dell'Europa. Una missione difficile ma possibile. Una bordata dell'Italia contro il muro di odio e di ostilità che divide i popoli del Medio Oriente non sarà meno importante di una bordata diretta contro la rete dell'Ucraina. Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione della Repubblica e della Stampa