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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.07.2006 Verità scomode sulla guerra in Libano
da ricordare a Lucia Annunziata e ad Antonio Ferrari

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Lucia Annunziata
Titolo: «Le bombe degli altri»

Se volete sapere la verità sulla guerra in Libano, scrive Lucia Annunziata sulla STAMPA del 24 luglio 2006 www.fromisraeltolebanon.org.
Un sito che mostra sequenze di orrbili fotografie di corpi dlianiati dalle bombe.
E'un modo, sostiene la Annunziata, anche per " immaginare cosa passa nella mente e nei cuori del mondo arabo".
E per avvicinare la "soluzione" dei problemi mediorientali, resa impossibile dalla "distanza" tra il mondo occidentale e quello arabo.
E' proprio così ?

A noi sembra piuttosto che la soluzione dei problemi del medioriente passi dalla conoscenza della verità da parte dei popoli arabi e islamici.

In Iran, ci informa Andrea Nicastro sul CORRIERE della SERA le immagini delle vittime libanesi della guerra vengono continuamente proposte dalla televisione di Stato , al rallenty, per suscitare maggiore impressione.

Dovremmo vedere anche noi queste trasmissioni propagandistiche per capire qualcosa di più dell'attuale crisi?

Oppure dovremmo aggingere alle fotografie delle vittime libanese quelle delle vittime israeliane, uccise dai razzi riempiti di chiodi di Hezbollah?

E' più utile, crediamo, ribadire alcune verità:

1) Israele, a differenza di Hezbollah, non colpisce deliberatamente i civili, ma l'intero Libano è ostaggio del gruppo terroristico.

2) le rampe di lancio e i depositi di munizioni che sono utilizzate da Hezbollah per colpire i civili israeliani sono spesso situate in abitazioni civili.
Evitare di colpirle significherebbe più morti israeliani. Dopo di che, l'opinione pubblica internazionale sarebbe forse più soddisfatta della "proporzionalità" nel conto dei morti, ma il governo israeliano sarebbe venuto meno al dovere di proteggere i suoi cittadini.

3) le vie di comunicazione del Libano possono essere usate da Hezbollah per rifornirsi d'armi e per mettere al sicuro i  suoi arsenali nella vicina e alleata Siria.
Permetterlo significherebbe prolungare la guerra o porre le basi di un conflitto futuro.

4)Israele non cerca ingrandimenti territoriali, nè vuole distruggere nessuno Stato.
Sono Hezbollah e il suo mandante, l'Iran, a volere la guerra, e a volere la distruzione di Israele.
Chi vuole davero la pace, in Europa come del mondo arabo deve capire che essa dipende dalla sconfitta degli aggressori.

Ecco il testo:

SE volete sapere qualcosa di meno astratto, sterilizzato; se volete capire cosa significa essere bruciati da una bomba; se volete immaginare cosa passa nella mente e nei cuori del mondo arabo - cliccate sul seguente indirizzo: www.fromisraeltolebanon.org. Le immagini della morte dei civili del conflitto libanese in corso, non pubblicate e non pubblicabili - e che neppure questo giornale per ragioni di rispetto, nei confronti dei vivi come dei morti, può pubblicare - sono lì. Sono arrivate via internet, inviate - miracolo delle triangolazioni virtuali - da un villaggio dei territori occupati, da un giovane palestinese che non vedo né sento da anni, accompagnate da una sola frase: «Please, pass it on», per favore divulgatele.
La nuova guerra è questa: il suo fronte non sono più solo quei chilometri di polvere, sudore e paura che definiscono la terra contesa. Il dossier di cui stiamo parlando è stato inviato con una lunga catena di sant’antonio dentro lo spazio virtuale in cui ci si contende la mente e il cuore del consenso popolare. Una operazione la cui efficacia è inversamente proporzionale al poco lavoro e ai pochi soldi che richiede; viaggia infatti velocissima, a zero costo, nelle vene dei computer, e può raggiungere e rimbalzare da ogni angolo del mondo. In giro, di comunicazioni come questa ce ne sono decine e decine. Vengono aperte, chiuse, fatte girare, aggiornate, rimesse in circolazione. Non è fenomeno nuovo, ma ha raggiunto ormai, come si vede dalla diffusione capillare e dalla velocità, il livello di un universo informativo completamente alternativo a quello del mondo occidentale.
Nella storia delle guerre i momenti chiave sono i passaggi tecnologici. Negli anni recenti, un salto di definizione dei conflitti venne fornito, come si ricorderà, durante la prima guerra del Golfo, dalla diretta televisiva. I collegamenti da Baghdad del corrispondente della Cnn Peter Arnett resero possibile la partecipazione da casa alla guerra, portando così la guerra stessa dentro il vortice della spettacolarizzazione. Da quell’anno - il 1991- i conflitti in tutto il mondo si sono infatti vinti o persi anche (soprattutto?) attraverso la conquista del consenso emotivo ottenuto via piccolo schermo. L'intervento in Somalia fu preceduto, ad esempio, da migliaia di ore di trasmissione di bambini affamati. Ma fu soprattutto il decennio del conflitto nei Balcani a essere definito dalla tv, con l'intervento in Kosovo reso praticamente obbligato dalle immagini della fuga di centinaia di migliaia di profughi albanesi dalle loro case. Viceversa la Cecenia, dove la politica restrittiva di Putin rende impossibile il lavoro giornalistico, non è mai entrata davvero nelle agende internazionali.
Dall'emozione della diretta alla sua applicazione dopo l'11 settembre, il passo è stato breve ma rivoluzionario. Se il mondo si divise in due quel giorno, lo stesso successe all'informazione. Da quel momento il pianeta comincia a parlare due lingue. Con sorpresa e meraviglia, scopriamo questa divisione con Al Jazeera. Una televisione che senza lamentele ma anche senza dubbi pensa che ci siano due realtà: quella occidentale e quella araba; e si occupa di dare voce solo ad una, la sua, quella araba. E' la fine del pregiudizio «bianco», anche di quello del «bianco buono»: le idee di neutralità, oggettività vengono spazzate via in quanto strumenti nobili ma di parte, validi ma figli pur sempre di un solo mondo, l'Occidente. Finisce qui l'idea di un pianeta unico, sia pur con punti di vista diversi. Si passa a mondi separati.
Dall'inizio del conflitto in Iraq, nei fatti, i media arabi non abitano più lo stesso nostro universo. Dalla televisione grande a quelle locali, dai video pirata al pieno uso di internet, dalle comunicazioni dei terroristi a quelle dei religiosi, dalla guerra alla preghiera, la rete araba si è resa in questi anni progressivamente autonoma dalle nostre voci. Dà per scontato che non importa quanto ci provi, la stampa occidentale non sarà mai al di sopra delle parti, e opera per proprio conto e nel proprio universo.
Tutte le guerre in corso in questo momento sono in effetti raccontate con parole e immagini diverse - quelle che vedono nel mondo arabo e quelle che vediamo noi. E non è solo questione di propaganda. Il conflitto iracheno raccontato su Al Jazeera o Al Arabiya da anni è descritto con immagini che per noi quasi automaticamente (al di là anche delle opinioni politiche) sono materia da sorvolare per delicatezza. La sensibilità del mondo arabo comincia invece lì dove si ferma la nostra - si forma in una continua operazione verità, con le facce fracassate dei bambini, le membra bruciate, esposte senza censura e senza remore. Esposte perché sono la prova del dolore e dell'orgoglio delle sofferenze subite. Esposte insomma come elemento di identità diversa.
L’e-mail arrivata poche ore fa sui civili morti in Libano è una piccolissima parte di questo clima e di questa realtà. Fa vedere foto che noi non vedremo mai, scrive cose che noi, nemmeno nei nostri più radicali momenti, scriveremmo sul nostro mondo. Per questo ve la segnaliamo. E' un messaggio da un universo parallelo. Un mondo in cui la doppia visione sta acuendo le distanze. E allontanando le soluzioni.

Considerazioni analoghe a quelle fatte per l'articolo della Annunziata valgono per l'articolo di Antonio Ferrari pubblicato dal Corriere della Sera, "Il prezzo troppo alto".
Ecco il testo:

Lo straordinario consenso popolare al governo di Olmert, che vuole neutralizzare per sempre la forza militare dell'Hezbollah libanese, non si spiega solo con la volontà di liberare i soldati rapiti e interrompere la micidiale pioggia di missili sulle città d'Israele, ma con la convinzione che gli uomini di Nasrallah facciano da battistrada all'ignobile progetto del loro mèntore e finanziatore iraniano, il presidente Ahmadinejad.
Ahmadinejad intende cancellare lo Stato ebraico. Nasrallah non ha fatto nulla per smentire il piano. Più che pensare agli interessi del suo Paese gravemente ferito, di cui si presenta come leader e capopopolo, sta dimostrando di servire soltanto i suoi padroni di Teheran.
Il predecessore di Nasrallah, l'assaimeno scaltro e pericoloso Abbas Moussaui, fu ucciso dagli israeliani, ma questo non ha impedito all'Hezbollah di crescere, trasformandosi in un ingombrante Giano bifronte: con un partito politico che non rifiuta il dialogo, e fa parte del governo, e una milizia che abiura il dialogo e cerca di vendere come resistenza il terrorismo. I libanesi lo hanno accettato, convinti che fosse l'unico modo per addomesticare i settori più intransigenti della maggioranza sciita. Errore fatale. Israele ha reagito, dichiarando che l'obiettivo era colpire Nasrallah.
Ma si può distruggere un Paese per uccidere un uomo e i suoi irriducibili seguaci? Le immagini del dolce Libano, che faceva vibrare la penna di Lamartine, nuovamente devastato da tremende ferite dopo anni di sacrifici per riparare le devastazioni di una lunga guerra civile, fanno male. Perché quel Paese arabo, l'unico che ci somiglia e che aspira a imitare il nostro modello; che pareva aver realizzato il fragile sogno di una comunità multietnica e pluriconfessionale; che aveva rinunciato alle vendette incrociate che sempre seguono la conclusione di un conflitto, preferendo sacrificare ai conti della memoria la voglia di tornare a vivere pacificamente, quel Paese ora è definitivamente in ginocchio. La guerra, di cui non si riesce a comprendere appieno la strategia militare, ha punito più la gente incolpevole che i sensali del terrore. Oltre mezzo milione di profughi in casa propria. Quasi 400 morti. Migliaia di feriti. Distrutti 55 ponti, di cui l'ex premier libanese Rafik Hariri, l'artefice della ricostruzione del Paese, ucciso barbaramente un anno e mezzo fa, andava fiero. Martellato l'aeroporto di Beirut, i porti di Tripoli, Sidone, Tiro e Jounieh. Devastati interi quartieri della capitale. Demolita la centrale del latte. Raso al suolo un deposito della Procter & Gamble. Centrate alcune caserme di quell'esercito libanese che tutti vorrebbero vedere nel Sud del Paese, prendendo il posto usurpato dai guerriglieri dell'Hezbollah.
A che cosa serve far saltare strade, bombardare scuole, ospedali e centri di assistenza delle Nazioni Unite, infrastrutture, sedi televisive, supermercati e negozi? A meno che non si consideri l'intero Libano responsabile collettivo di tutto ciò che sta accadendo. Il risultato potrebbe essere pesante: scatenare, nel prossimo futuro, un'offensiva terroristica ancor più violenta, nella regione e altrove; riproporre le condizioni per una nuova guerra civile libanese. Cristiani, sunniti, sciiti, drusi.
Tutti contro tutti. Domande che si pongono in tanti, anche in Israele, giustamente fiero del suo esercito, che essendo totale espressione dell'intera società civile è uno dei più democratici del mondo. Ma Talleyrand diceva: «La guerra è troppo seria per essere lasciata solo nelle mani dei militari». Ariel Sharon, proprio in Libano, aveva compreso che la forza muscolare non basta e che anche i bombardamenti devono coniugarsi con una strategia politica. Ora il ministro della Difesa, Amir Peretz, ha accettato l'idea di forze Nato da dispiegare oltre il confine. E il premier Olmert ha precisato — svolta assai importante — che potrebbero appartenere all'Unione Europea.
Nel Libano ferito si chiedono urgenti aiuti e una tregua. Che non è la pace, ma può servire a evitare una catastrofe umanitaria. Ecco perché sguardi e sospiri sono rivolti a Roma, dove mercoledì potrebbe rinascere la speranza.


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