Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Ancora razzi su Haifa, colpito un ospedale a Safed, sotto tiro anche Nazareth continua l'aggressione di Hezbollah
Testata:La Repubblica - Il Giornale Autore: Renato Caprile Titolo: «Paura ad Haifa, razzi tra le case - Razzi Hezbollah colpiscono ospedale in Galilea - Nazareth, ebrei e palestinesi uniti dalla paura dei missili»
Da La REPUBBLICA del 18 luglio 2006, una cronaca dell'aggressione ad Haifa, di Renato Caprile. Ecco il testo:
HAIFA - L´urlo lancinante delle sirene scandisce ad Haifa l´inizio di un nuovo giorno. Altri missili sono in arrivo, come quelli che 24 ore prima hanno fatto strage al deposito delle Ferrovie. Ma per fortuna è solo un falso allarme. E allora in molti trovano il coraggio di provare a riprendere la vita di sempre. I negozi restano chiusi, ma il Comune ha però dato l´ok alla parziale apertura di grandi centri commerciali, dotati di rifugi sotterranei e perciò relativamente sicuri. E così a distanza di qualche minuto gli uni dagli altri aprono i battenti alcuni dei più grossi supermarket della città. Anche se dentro si respira un´atmosfera surreale il peggio sembra passato. Sul Monte Carmelo poi, intorno a mezzogiorno, si nota addirittura un certo via vai. Sembra proprio l´inizio del ritorno alla normalità della terza per numero di abitanti (tra i 300 e i 400mila) delle città israeliane. Sicuramente la più operosa. Al punto che l´adagio popolare la indica come quella in cui si lavora, contrapposta a Gerusalemme, dove invece si prega, e a Tel Aviv dove ci si diverte. Perfino qualche ristorante, soprattutto nel quartiere arabo - qui tra ebrei e musulmani l´intesa è ottima - alza la saracinesca. Tempo mezz´ora e arrivano i primi clienti. E´ l´una del pomeriggio e tutto sembra filare via liscio. E´ per giunta una bella giornata, l´ideale per andare in spiaggia. Qualcuno ci va. Ma improvviso torna a incombere l´urlo delle sirene. E subito arrivano i primi razzi che per fortuna finiscono in mare, ma a poche centinaia di metri da edifici alti dieci piani. Li avessero colpiti sarebbe stata una carneficina. Ma non è finita qui. Una quarantina di minuti dopo riecco l´allarme. Haifa ridiventa un deserto in un attimo. I terroristi stavolta hanno aggiustato la mira. I loro missili si abbattono su un quartiere alle pendici del Monte Carmelo. Il tetto di un edificio vola via. Una densa nube di fumo nero fa temere il peggio, ma per puro miracolo non ci sono vittime, solo una mezza dozzina di persone in evidente stato di shock. I miliziani di Nasrallah hanno deciso di non dare tregua alla gente di Haifa. E infatti altri Fajr solcano il cielo finendo la loro corsa assassina sul centralissimo rione Bat Galim. Una palazzina di tre piani s´affloscia come un castello di carta. Dalle macerie vengono estratti i feriti, una decina, uno dei quali è gravissimo. Adesso è il panico totale. Le radio locali lanciano drammatici appelli. «Per l´amor di Dio statevene in casa, davanti alla tv e se proprio dovete comprare qualcosa mandate un adulto e che faccia alla svelta». «Siamo in guerra, per iniziativa del terrorista del Libano meridionale», dirà poi il sindaco di Haifa, Yona Yahav nel corso di una delle più drammatiche giornate vissute dalla sua città. «E´ necessario, assolutamente necessario - ripeterà più volte via radio ai suoi concittadini - che tutti se ne restino a casa, lontani dalle finestre. Questi razzi sono pieni di biglie di metallo: chi fosse colpito, è spacciato». Aeroporto e porto commerciale restano chiusi così come è ancora bloccata la linea ferroviaria. Haifa, come dice il sindaco è davvero in guerra. E si prepara ad altri giorni di straordinaria paura. I razzi di Hezbollah continuano a colpire. A sud, nel villaggio di Safed, in serata i razzi sfiorano un ospedale, almeno sei i feriti. Afula, cinquanta chilometri all´interno, la città più distante finora raggiunta da Hezbollah, viene colpita per la seconda volta in 24 ore. Chi invece non perde il suo aplomb nonostante l´intelligence continui a ripetere che il nemico Nasrallah dispone di armi a lunga gittata in grado di colpirla, è Tel Aviv che dista 120 chilometri dal confine libanese. Troppo laica, cinica, moderna, perfino peccatrice se contrapposta alla più compassata e bigotta Gerusalemme, Tel Aviv non cambia stile di vita. Frenetica era e frenetica resta. Con ristoranti, pub, bar e locali affollati come se niente fosse. Qualche turista ha già fatto le valigie e qualche altro ha disdetto la prenotazione, ma di gente che affolla le spiagge ancora ce n´è tanta. La voglia di vivere è evidentemente più forte della paura di morire, che se c´è è comunque ben controllata. Hanno riaperto i bunker blindati della prima guerra del Golfo, quando Saddam minacciava di colpire Israele con armi batteriologiche. Un brutto segno ma qui viene vissuto come la più normale delle precauzioni. Sarà pure per lunga abitudine alle crisi belliche, ma nessuno dà l´impressione di essere preoccupato più di tanto. No, il fatalismo non c´entra. Dice Moshe, 69 anni, ristoratore con moglie italiana, «se si azzardassero a colpire la nostra città, la reazione di Israele sarebbe terribile. Loro lo sanno e credo che si limiteranno alle minacce». Secondo Sorel, 58 anni, tassista e filosofo, Tel Aviv vive in uno «stato di attesa» ma non di tensione, In fondo non lo crede possibile. La prospettiva di un attacco missilistico sulla capitale economica dello Stato ebraico avrebbe il valore di un secondo 11 settembre. E secondo Sorel «nemmeno gli Hezbollah, cui la vita evidentemente non sta a cuore come a noi, possono essere così scellerati». Solidali, conservatori e progressisti, sono tutti con Olmert e il suo governo. «Sta facendo quello che è giusto fare - taglia corto Isac, giovane imprenditore - Non ce l´abbiamo con il Libano ma con i terroristi di quel paese. Con uno Stato sovrano si può sempre venire a patti, cosa impossibile invece con chi sa soltanto odiare. Ecco perché ci fanno male le critiche dell´Europa dalla quale invece ci saremmo aspettati più solidarietà».
Di seguito, la cronaca di Gian Micalessin tratta dal GIORNALE. Si notano alcune differenze con il pezzo di REPUBBLICA. I razzi , nella cronaca di Micalessin hanno colpito, non soltanto "sfiorato" un ospedale a Safed. E l'accento è posto sulla minaccia a Tel Aviv, non sull'impressione di sicurezza di alcuni suoi abitanti. Ecco l'articolo:
È l'ultimo colpo della giornata. Arriva poco prima delle 23 quando la Galilea ha tirato il fiato, s'è assopita nei rifugi. Ma quell'ultima grandinata di missili rischia di rivelarsi la più malvagia, la più assassina. A Safad colpisce un ospedale, esplode su una terrazza, semina di schegge e terrore i letti affollati di malati. Poi un'altra esplosione ferisce la sinagoga. Si contano sei feriti, per un colpo di fortuna nessun morto. Un'altra strage, dopo quella di Haifa dove un abitazione è stata sbriciolata da un colpo di katyuscia nel rione di Bat Gilam. Lì le squadre di soccorso hanno recuperato undici feriti. Solo uno in condizioni preoccupanti. Quasi un miracolo per un centro così diretto e così preciso. La guardia però non si abbassa. Dopo la nuova pioggia di missili il ministro dei Trasporti ha ordinato la chiusura del porto, il blocco del centro marittimo più importante del Paese. Fra la popolazione della città la grande paura dei primi giorni si va un po' stemperando. Le notizie dell'entrata in Libano di un piccolo contingente di soldati incaricati di spianare la zona di frontiera e creare una zona cuscinetto di un chilometro per fermare il lancio dei missili risolleva un po' il morale. Quella notizia, l'ipotesi di un obbiettivo immediato e raggiungibile, accende qualche speranza. Allontana la paura di restare obbiettivo indifendibile per molte settimane. Certo la notizia dura solo qualche ora. In serata un portavoce militare annuncia che «non ci sono forze di terra israeliane in Libano». Chi doveva capire, però, ha capito. Le forze speciali sono già dentro, stanno lavorando. La ridda di voci e smentite serve solo a rendere meno impreviste eventuali perdite. A far intendere, senza ammetterlo ufficialmente, che un pugno di uomini combatte oltre la linea di frontiera. Mentre Haifa si sforza di farsi coraggio, Tel Aviv incomincia a preoccuparsi. La metropoli insonne, il cuore finanziario e produttivo della nazione, stava già per essere colpita. Le voci si diffondono in serata quando la televisione libanese trasmette le immagini di quello che viene definito l'abbattimento di un aereo israeliano. L'aeronautica, sulle prime, si limita a smentire l'incidente. Più tardi però i tecnici israeliani incaricati di analizzare le immagini ricostruiscono l'accaduto. In verità l'oggetto precipitato è un missile Zilzal, un ordigno di fabbricazione iraniana capace di colpire a 200 chilometri di distanza. La piattaforma già pronta per il lancio su Tel Aviv viene individuata e colpita all'ultimo momento dai missili aria-terra israeliani. L'ordigno partito con una parabola imprecisa si ripiega su se stesso, precipita al suolo, esplode in territorio libanese. Ma chi ne capisce di questioni militari, e in Israele non sono pochi, sa che confidare nelle immagini di un satellite o di un velivolo senza pilota per abbattere all'ultimo momento un razzo pronto al lancio è un atto di fede più che una certezza. Prima o poi quel razzo partirà ed arriverà a destinazione. L'unico elemento ancora da accertare è se il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah abbia mano libera nell'utilizzo dei razzi a lunga gittata forniti da Teheran o debba attendere il via libera iraniano prima di ogni nuova escalation. Ma se l'abbattimento di ieri pomeriggio è confermato allora l'escalation c'è gia stata e Tel Aviv è già nel mirino. Sul fronte libanese Israele, intanto, non concede tregua. Oltre sessanta raid dell'aviazione israeliana hanno causato, soltanto ieri, circa cinquanta vittime. A sud l'esodo della popolazione dalle regioni in cui l'aviazione israeliana annuncia con volantini e comunicati l'imminenza dei bombardamenti continua a essere punteggiato da tragedie. Almeno dieci civili sono morti e sette sono rimasti feriti quando due automobili, in viaggio dal sud del Paese alla capitale, hanno infilato il ponte di Rmeileh appena distrutto dai cacciabombardieri e sono precipitate nel vuoto. Tre civili sono stati uccisi e quattro feriti in un attacco aereo nella regione di Tiro, mentre si recavano a piedi dal loro villaggio Bourj Rahal alla vicina località di Qasmiyé. «L'offensiva durerà almeno un'altra settimana», ha annunciato il vice capo di stato maggiore israeliano Moshe Kaplinski. A Tiro le squadre di soccorso hanno estratto nove corpi dalle rovine di un edificio colpito domenica dalle bombe israeliane. A Beirut i bombardamenti delle infrastrutture portuali, di un deposito di carburante nella zona settentrionale della capitale e le continue incursioni sulla banlieu meridionale roccaforte di Hezbollah avrebbero causato almeno 21 vittime. Colpita in quattro riprese una caserma dell'esercito libanese sulle alture che sovrastano la capitale. Sei soldati libanesi sono morti nel corso dei raid su due postazioni militari lungo la costa settentrionale. L'esercito israeliano ha annunciato l'apertura di un'inchiesta facendo sapere che le installazioni dell'esercito libanese non rientrano «in linea di principio» fra gli obbiettivi. Un altro portavoce militare ha accusato però elementi dell'esercito libanese responsabili delle installazioni radar di aver collaborato al lancio del missile che ha colpito la nave israeliana al largo di Beirut. L'episodio, avvenuto venerdì sera, è costato la vita a quattro marinai israeliani.
Di seguito, la cronaca di Micalessin sui bombardamenti di Nazaret:
Mamma e papà russi con figlia bionda, bimbo e carrozzina al seguito fanno un giro a passo di bersaglieri, lanciano un'occhiata alle navata di cemento, guadagnano l'uscita. Sono gli ultimi. Ora la Chiesa dell'Annunciazione è definitivamente vuota. Abbandonata. Fuori gli ultimi venditori di cammelli di pelouche, corone di spine «made in China» e Madonnine addolorate chiudono bottega, guadagnano casa. Anche la città di Giuseppe e Maria chiude. Monsignor Giacinto Boulos Marcuzzo, 62enne vescovo di Nazareth, è appena rientrato da Haifa. Ieri, mentre saliva al convento di Carmel, ha schivato di poco i due missili caduti sulla stazione ferroviaria. Stamattina ha saputo dell'ordigno esploso qui vicino nella notte. Alza le braccia al cielo. «L'unica consolazione è che nessun luogo santo frequentato dai nostri pellegrini è stato colpito, la cosa triste è la consapevolezza che anche questa nuova guerra si inserisce nel quadro di un conflitto aperto da sessant'anni. Fino a quando la comunità internazionale non troverà una soluzione al problema israelo-palestinese nessuna di queste guerre avrà fine». Anche Jawhal alza le braccia al Signore, ma non si capisce se invochi Allah o maledica l'ultimo missile. «Stamattina, quando ho sentito le notizie, ho capito subito che non c'era più speranza, sono tornati i giorni duri e ci dobbiamo rassegnare, qui non cambia mai». I nuovi tempi duri per Nazareth piovono dal cielo. Domenica notte, alle 23, un fascio di missili sorvola la valle di Jezreel nella bassa Galilea, colpisce Afula, Nazareth, Migdal Haemek e Givat Ela. Il primo lancio, a oltre 50 km dal confine, cristiana nella zona rossa, la trasforma in un bersaglio dei missili di Hezbollah. In tutto ciò l'orafo Jawhal non si preoccupa tanto per la propria vita. Per lui il rischio maggiore tocca il suo portafoglio. «Da noi il missile, se arriva, arriva per sbaglio, quello di stanotte è caduto sulla Nazareth israeliana a cinque chilometri da qua, ma per i turisti non fa differenza... ormai anche questa zona è condannata, qui per un po' non s'incasserà uno shekel». Per Ramiz Jaraisy il turismo può anche attendere. Il 49enne sindaco arabo della più importante città araba d'Israele oggi è più preoccupato per i suoi cittadini. «Qui per anni siamo stati cittadini di serie B, fino a 15 anni fa nessuna delle abitazioni di Nazareth aveva un rifugio. A differenza del resto d'Israele, qui chi vive nelle case più vecchie, cioè la maggior parte della popolazione, non sa neanche dove rifugiarsi. Chi pensa che i missili non cadranno mai è un illuso, i missili non hanno occhi e non hanno testa, non distinguono tra arabi ed ebrei. Qui in Galilea siamo tutti vittime della stessa guerra». Se il discorso gira sulle ragioni di quella guerra, allora cambia rotta. La «stessa guerra», la «stessa sofferenza» diventa la conseguenza delle mosse israeliane. «La verità è davanti agli occhi di tutti, non esiste una proporzione tra il rapimento di due soldati e le stragi causate dalle bombe sul Libano. Il rapimento poteva essere risolto con un negoziato e uno scambio di prigionieri, come in passato. Stavolta però Israele aveva piani diversi, voleva colpire e distruggere una volta per tutte Hezbollah. Il piano era già pronto, e appena c'è stato un pretesto lo hanno messo in pratica. Peccato che a pagarne le conseguenze siano i cittadini libanesi da quella parte e gli arabi ed ebrei da questa parte». Anche nel comune pericolo l'angoscia dei cittadini arabi israeliani e di quelli ebrei per il sindaco non va nella stessa direzione. «Siamo israeliani, ma restiamo palestinesi, soffriamo anche per quello che succede ai nostri fratelli sotto assedio a Gaza. Oggi, a furia di parlare di Haifa e del nord d'Israele, tutti hanno dimenticato il loro dramma. La nuova guerra ha oscurato quella che dura da sessant'anni». Nel bazar della città vecchia le parole sommesse del sindaco diventano manifesti di guerra. «Con gli ebrei condividiamo solo i rischi, non certo vantaggi e responsabilità. Le guerre qui da sessant'anni le fanno solo loro - ulula rabbioso Amin Mohammed Alì dietro il suo banco di libri e riviste nel bazar della città vecchia -. La mia famiglia ha dovuto trasferirsi a Nazareth dopo il '48, se volessi riprendere la nostra casa mi chiamerebbero terrorista. Per gli israeliani chiunque non si comporti come dicono loro è sempre un terrorista. Credetemi, questo nuovo inferno non è scoppiato per quei due soldati, ma soltanto perché Israele vuole farla finita con Hezbollah, con gli unici in Medio Oriente capaci di opporsi ai loro piani».
Il fatto che tutto il pezzo sia incentrato sul punto di vista di un arabo-israeliano lo rende unilaterale, ma utile per capire come si vive in Israele sotto l'attacco di Hezbollah
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