Dal CORRIERE della SERA del 15 luglio 2006:
ROMA — Sono parole dure con Israele quelle che Romano Prodi pronuncia dopo una nuova giornata di guerra in Medio Oriente: «L'uso della forza si è spinto al di là di ogni previsione e noi deploriamo questa escalation», scandisce il premier, invocando una «tregua» ed esprimendo preoccupazione per una spirale di violenza che «ci sta facendo tornare indietro di 20 anni». Preoccupato anche Papa Benedetto XVI, che invita a pregare «perché tutti cessino la violenza», mentre il segretario di Stato vaticano Angelo Sodano condanna l'intensità della risposta militare di Gerusalemme: «La Santa Sede deplora l'attacco al Libano. Il diritto alla difesa non esime dal rispetto delle norme del diritto internazionale, soprattutto per quel che riguarda la salvaguardia delle popolazioni civili».
La crisi mediorientale tiene banco nel Consiglio dei ministri riunito ieri. Massimo D'Alema ribadisce il giudizio sull'uso sproporzionato della forza da parte di Israele e conferma la necessità di condividere la linea europea, posizione sostenuta anche da Prodi. Ma intorno al tavolo di
Palazzo Chigi si leva qualche voce discorde. Emma Bonino ricorda che Israele ha subito delle aggressioni e ha dunque legittimamente diritto di difendersi, Francesco Rutelli condanna l'escalation di violenza ma esorta anche a non concentrare l'attenzione solo sul Libano: per meglio comprendere la reazione di Gerusalemme, è il ragionamento del vicepremier, bisogna considerare la situazione in cui versa tutta l'area mediorientale. Alla fine, il premier mantiene compatto l'esecutivo e detta il duro comunicato che condanna il comportamento di Israele. L'Italia si riconosce nella posizione assunta dall'Ue e dall'Onu, ribadisce il premier, confermando le pressioni su Beirut per la liberazione dei militari ma chiedendo pure al governo di Olmert di consentire agli stranieri di lasciare Gaza e il Libano in sicurezza. Ma la posizione del governo scatena le proteste dell'opposizione.
Roberto Calderoli accusa la sinistra di antisemitismo, Sandro Bondi e Roberto Cicchitto criticano la linea dell'equidistanza che «rischia di incentivare l'aggressione del fondamentalismo islamico». Ma la reazione più dura arriva da Gianfranco Fini, che definisce il governo «irresponsabile» e accusa Prodi e D'Alema di aver «spezzato il rapporto di fiducia con Israele», allontanando così la pace: «Negargli perfino il diritto all'autodifesa induce Gerusalemme a guardare solo a Washington e azzera la capacità di azione dell'Europa». Parole che fanno infuriare il centrosinistra. «Irresponsabili sono le parole di Fini che, per pura polemica di politica interna, stravolge la posizione del governo italiano», ribatte Piero Fassino. «Solo chi ha un passato da nascondere può passare da una posizione estrema all'altra», attacca Pierluigi Castagnetti, mentre Franco Monaco definisce il presidente di An «un convertito dell'ultima ora». Un'altra polemica va in scena tra Franco Frattini e D'Alema: il vicepresidente della commissione Ue, intervenendo alla trasmissione In breve su La7, critica il ministro degli Esteri per aver definito sproporzionata la reazione di Israele e la Farnesina ribatte sottolineando che la posizione espressa da D'Alema «rispecchia interamente quella manifestata dalla presidenza dell'Ue».
Di seguito un articolo sulla proposta del segretario di Rifondazione Comunista Franco Giordano di "inviate truppe di interposizione dell'Onu" per "fermare Israele" (non il terrorismo, Israele):
LA FASCIA DI SICUREZZA Maggio 2000, un carro armato Onu nel Sud del Libano al confine con Israele
ROMA — Lo ripete per tre volte: «Dobbiamo fermare Israele». Fermare il governo di Olmert che occupa Gaza e minaccia il Libano, fermare l'esercito «che rischia di produrre un'inaccettabile tragedia». Come? Chiedendo che «in Palestina e in quelle zone martoriate siano inviate truppe di interposizione dell'Onu», composte anche da militari italiani. Franco Giordano,
segretario di Rifondazione comunista, lancia la proposta sulle colonne di Liberazione e nell'Unione s'infiamma il dibattito: se la sinistra radicale applaude, quella riformista non gradisce affatto e si leva in difesa di Israele.
Così Antonio Polito, che legge l'intervista e sorride amaro: «È davvero curioso l'atteggiamento di Rifondazione: vogliono ritirare le nostre truppe ovunque in nome del pacifismo ma poi sono disposti a inviarle nel teatro di guerra più caldo». E comunque, secondo il senatore ulivista, Giordano sbaglia obiettivo: «I Caschi blu bisognerebbe mandarli a proteggere Israele dagli attacchi terroristici che partono proprio dai territori da cui si è ritirato. Al segretario del Prc vorrei ricordare che Israele lasciò il Libano del Sud in base ad una risoluzione Onu che prevedeva al contempo lo smantellamento della milizia armata di Hezbollah. Non mi pare che tutti abbiano rispettato i patti».
Per Furio Colombo poi invocare l'intervento dell'Onu è pressoché inutile: «Ma quelli di Rifondazione hanno ascoltato il discorso di Annan in Senato? Lo hanno sentito mentre pronunciava parole di disperazione e confessava l'impotenza di agire?». E non si tiri in ballo l'Ue, perché l'ex direttore dell'Unità esplode: «Ma dove sarebbe questa iniziativa europea? Guardate che Solana è solo un consigliere, un consulente». Quel che serve invece è un intervento politico forte dei governi, Italia in testa: «Prima di fare rimbrotti, il nostro esecutivo avrebbe dovuto ascoltare Israele, perché solo instaurando un rapporto molto stretto con questo Paese, conoscendone le ansie e i drammi, si può poi parlare di strategie di contenimento della forza. Israele è stato costretto a difendersi». La pensa così anche Giuseppe Caldarola, che a sentir parlare di reazione sproporzionata si innervosisce: «È l'unica reazione possibile davanti a chi progetta di distruggere lo Stato ebraico. Israele è sotto assedio, non si può pretendere che faccia l'agnello sacrificale», tuona il deputato ds. Che è un fiume in piena: «Caro Giordano, qui non bisogna fermare Israele ma chi lo attacca. Basta con questo rovesciamento della realtà che dura da 58 anni!».
Rifondazione ovviamente va avanti per la sua strada e chiederà al governo di portare nelle sedi internazionali la richiesta di invio di Caschi blu, conferma il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore. «È una misura assolutamente necessaria per impedire che muoiano altri civili innocenti», concorda l'eurodeputata Luisa Morgantini, che pure nei giorni scorsi aveva scritto per Liberazione un articolo dal titolo «Fermiamo Israele». Sì all'arrivo dell'Onu, dunque, però «non devono restare lì in eterno — sottolinea — e soprattutto la loro presenza deve essere funzionale al riavvio dei negoziati». La proposta di Giordano piace anche al Pdci, con Manuela Palermi che va oltre chiedendo al governo di ritirare l'ambasciatore italiano da Israele e all'Ue di interrompere ogni rapporto commerciale, e trova disponibili pure i Verdi: «Credo che la presenza di una forza di interposizione sarebbe utile — dice il sottosegretario Paolo Cento
—, ma serve anche un'azione politica forte perché è chiaro che l'attacco al Libano rientra in una vera e propria strategia di guerra. Ora non è più il caso di parlare di equivicinanza». Un'apertura arriva anche dalla sinistra Ds: «In una situazione così drammatica tutte le organizzazioni internazionali devono attivarsi e l'Onu potrebbe certamente dare un utile contributo», spiega Cesare Salvi, perplesso però sulla fattibilità dell'invio di truppe «visto il veto già posto dagli Usa». Un problema evidenziato anche da Gloria Buffo, che invita comunque a lavorare seriamente sulla proposta «perché in questo modo non si può andare avanti — sottolinea l'esponente del Correntone —. Dire che Israele ha fatto un uso sproporzionato della forza è un'espressione tutt'altro che esagerata». E a Polito risponde Luciano Pettinari: «È vero che i nostri soldati opererebbero in uno scenario di guerra, ma si impegnerebbero in una vera azione di pacificazione perché lì, a differenza che in Iraq o in Afghanistan, non sarebbero schierati con nessuna delle parti coinvolte».
Purtroppo, l'ipotesi di fermare l'autodifesa dell'aggredito non circola solo nella sinistra estrema.
Ecco il fondo di Lapo Pistelli pubblicato da EUROPA del 14 luglio 2006:
Le violenze in Medio Oriente non vanno scambiate per il ciclico riacutizzarsi di una ferita che non riesce a rimarginarsi. Il mondo è davanti al concreto rischio che si crei una saldatura perversa fra conflitti e attori distinti, capace di generare un salto di scala della guerra.
Per oltre trent’anni, il conflitto israelo-palestinese si è riprodotto in un contesto regionale quasi stabile e in un quadro mondiale congelato dal duopolio russo-americano. Perfino le fasi tragiche del coinvolgimento egiziano e delle guerre civili libanesi ebbero nel ruolo giocato dalle due superpotenze la certezza di un limite invalicabile dell’escalation militare e della propagazione territoriale. Inoltre, il formidabile argomento politico – brandito nella retorica nazionalista – dell’oppressione israeliana sui fratelli palestinesi trovava il suo bilanciamento nella storia concreta – e spesso ancora più sanguinosa – delle violenze intestine al mondo arabo derivanti dalla difficile convivenza fra la diaspora palestinese e i paesi che la ospitavano. Anche Al Qaeda ha fin dall’inizio utilizzato nei propri proclami il conflitto palestinese come argomento di presa popolare ma lo ha sempre esplicitamente subordinato a due altri obiettivi della guerra jihadista: la liberazione dei luoghi santi dell’Islam dalla presenza occidentale e la lotta ai regimi arabi moderati.
Solo pochi mesi fa era sembrato che si aprisse una finestra insperata nel dialogo israelo- palestinese: il paesaggio politico di Tel Aviv offriva un nuovo interlocutore, Khadima, e quello palestinese si avviava con grande ordine all'appuntamento democratico con le elezioni del proprio parlamento; il negoziato, pur difficile, poteva aiutare a separare i destini della Palestina e di Israele dalla guerra in Mesopotamia.
Il quadro odierno appare invece segnato da un crescente intreccio fra i conflitti e da un’escalation di violenza che si estende dalla costa orientale del Mediterraneo fino al lontano Punjab. Le elezioni svoltesi negli ultimi due anni hanno rafforzato le rappresentanze parlamentari del radicalismo islamico in Egitto, in Palestina, in Libano.
È quasi interrotto il dialogo fra Abu Mazen, presidente di un’Autorità nazionale figlia di quegli accordi di Oslo che appaiono oggi lontanissimi, e Hamas, che a sua volta appare lacerata fra ala politica e gruppi militari fuori controllo.
È cresciuto il ruolo di Hezbollah in Libano, dopo la breve e incoraggiante stagione democratica seguita all'omicidio di Hariri. La Siria ricomincia a manovrare. La prudenza del linguaggio e l'assuefazione all'orrore rischia di non far comprendere l'entità della mattanza fra sciiti e sunniti che accade ogni ora in Iraq, mentre cresce sinistramente il ruolo destabilizzante giocato dal regime di Teheran. Da ultimo, molte fonti convergono nell'indicare la lunga mano di Al Qaeda nel terrorismo che esplode in India e nella riorganizzazione dei Talebani in Afghanistan.
È questo il quadro da cui muoverà domani la discussione al G8 di San Pietroburgo. I grandi del mondo devono dimostrare che è possibile arrestare l’escalation, disarticolare i conflitti, sospendere il gioco delle parti con l’Iran.
Se qualcuno ha proposto l'ingresso di Israele nella Nato, io dico che è tempo piuttosto di portare la Nato in Israele, di separare con fermezza i contendenti con una forza di interposizione internazionale,
Non, dunque, includere Israele in un sistema di difesa multilaterale, cercando di garantirne maggiormente la sicurezza, ma limitare la sua libertà di reagire alle aggressioni.
"Separare i contendenti" era anche il mandato dei caschi blu in Bosnia. E fu proprio la mancata distinzione tra aggressssori ed aggrediti a portare le truppe dell'Onu ad assistere all'assedio di Sarajevo e al massacro di Screbenica senza intervenire.
di non lasciare che il puzzle si mescoli ancora di più. Non si diventa grandi a caso. Da San Pietroburgo, il mondo aspetta una risposta.
Non mancano nell'Unione posizioni di aperto sostegno ad Hezbollah, come quella del segretario del Pdci Oliviero Diliberto.
Un articolo tratto sempre dal CORRIERE:
PDCI Oliviero Diliberto, segretario del Partito dei comunisti italiani
MILANO — «Non voglio fare polemiche con Gol. Sempre la stessa storia. È l'unico ambasciatore del mondo che s'immischia nella politica interna del Paese in cui opera, in violazione di tutte le regole del diritto internazionale da Ugo Grozio a oggi». Oliviero Diliberto affila l'ironia accademica, «Gol non saprà chi è Grozio, ma pazienza». E del resto è ironico che il nome del giurista e filosofo che all'inizio del Seicento teorizzò il diritto naturale etsi Deus non daretur, «come se Dio non ci fosse», salti fuori a proposito degli Hezbollah.
Gol ha detto che nell'Unione c'è gente vicina al «partito di Dio» libanese, «alcuni sono amici di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, Diliberto andò da lui in Libano». Ma il segretario dei Comunisti italiani non fa una piega, quell'incontro del 20 novembre 2004 fu già salutato come «disgustoso e ripugnante» dall'ambasciatore israeliano, «solo che io partecipai a un convegno internazionale subito dopo essere stato ospite della Knesset, e ci tengo molto, durante una seduta del Parlamento israeliano».
Gli incontri con Hezbollah, la comprensione verso Hamas, il sospetto è che la sinistra radicale tenda a coltivare relazioni pericolose. Ma Diliberto non ci sta: «Io incontro le persone, visto che mi occupo di Medio Oriente da venticinque anni, e lo faccio a 360 gradi: nel tentativo di capire, perché solo comprendendo si possono trovare soluzioni. Voglio la pace e la sicurezza di Israele, che si può trovare solo costituendo uno Stato palestinese indipendente». E poi, considera, «gli Hezbollah hanno due ministri nel governo libanese, 35 deputati.
È come per Hamas: ha vinto le elezioni libere e democratiche che si sono tenute nell'amministrazione palestinese. Molti in Occidente fanno i cantori della democrazia esportabile, e lì c'è stata, mica si può dire che non ci piacciono le elezioni perché hanno vinto loro». Nessuna preoccupazione, possibile? «Un momento, a me non piacciono i partiti integralisti fondati sulla religione, è ovvio. Però devo farci i conti perché rappresentano un pezzo di popolo». Insomma, «la politica internazionale si fa così o niente, non si può trattare solo con quelli che ci piacciono, tant'è vero che gli ambasciatori italiani, anche negli anni del governo precedente, hanno sempre e regolarmente incontrato i rappresentanti di Hezbollah». Così va il mondo, «Arafat era considerato un terrorista da una certa opinione occidentale, poi si è fatto un accordo con lui e ha vinto il Nobel per la pace. Le prospettive nel corso degli anni mutano».
E adesso? «Andai a Beirut durante la guerra civile, ora mi pare di essere tornato in quell'incubo. A tutti gli osservatori è evidente che la destabilizzazione dell'area punta a Siria e Iran. È la pax americana, che significa guerra. E se l'Europa non batte un colpo la guerra si estenderà. Prodi e D'Alema hanno assunto una posizione coraggiosa, l'Italia può fare in modo che la Ue sia protagonista di pace». Resta il problema di fondo: come si fa a parlare con organizzazioni che non riconoscono il diritto di Israele all'esistenza e anzi ne vogliono l'annientamento? «Rispondo con le parole di Rabin: la pace si fa tra nemici, non tra amici».
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