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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Riformista - La Repubblica - Europa - Il Giorno - La Padania Rassegna Stampa
13.07.2006 Israele "rifiuta il dialogo", non ha "una politica", manca di "fantasia"
assurde accuse a uno stato sotto attacco

Testata:La Stampa - Il Riformista - La Repubblica - Europa - Il Giorno - La Padania
Autore: Igor Man - Paola Caridi - Guido Rampoldi - Janiki Cingoli - Lorenzo Bianchi - Massimo Fini
Titolo: «L'Iran scende in campo - Le bombe di Israele si sentono, la politica non si vede - La polveriera mediorientale - Gli incubi di Israele - Una risposta»

Dalla STAMPA del 13 luglio 2006, riportiamo l'editoriale di Igor Man:

 Il blitz dei guerriglieri di Hezbollah,

"guerriglieri"? Hezbollah è un gruppo che colpisce civili e non combattenti, che effettua sequestri, è sospettato di avere un ruolo nell'attentato al Centro ebraico di Buenos Aires: 86 morti, soltanto perché ebrei.
Hezbollah è un gruppo terrorista, non guerrigliero.


il «partito di Dio» di impronta sciita che in Libano ha corso legale,

una formulazione neutrale che nasconde una realtà di dissoluzione dello Stato: Hezbollah siede nel parlamento e nel governo libanese come partito, e nel contempo ha un suo esercito, che può anche trascinare il paese in guerra ( e che assicura l'indiretto controllo del paese da parte della Siria)

 ha preso in contropiede Israele, che pure era in allarme. I guerriglieri hanno repentinamente centrato sulla cosiddetta «linea blu», che divide il Libano da Israele, un carro armato di Tsahal - più grave: i miliziani si sono ritirati con due soldati israeliani, presi in ostaggio come, a Gaza, lo fu il caporale Shalit il 24 di maggio. Israele ha reagito (finora) secondo routine e sul piano militare e sul piano politico. Il fragore delle armi squassa il cielo fatale del Medio Oriente investendo il disgraziato «paese dei cedri», quel Libano che costringendo i siriani al ritiro, in forza di una astuta concertazione politica, sperava, pensava d’aver recuperato la sospirata normalità-sovranità.

ma è stato il mancato disarmo di Hezbollah, non la reazione di Israele alla sua aggressione a far naufragare quel  sogno di normalità

Secondo un rituale copione ipocrita, le cancellerie internazionali raccomandano «moderazione» a Israele, «ammoniscono» il governo fantasma palestinese, «auspicano» l’uso della ragione per scongiurare il peggio, cioè una guerra. Ma la guerra c’è già. Una guerra anomala dove, finora almeno, ci sono state più tregue che scontri dopo il ritiro dall’inferno di Gaza dell’esercito d’Israele e lo sgombero (forzato) dei coloni. Una guerra d’attrito, anomala perché controllata e usata da un soldataccio geniale che negli ultimi suoi anni di vita attiva (oramai è un morto che respira, un generale in coma) manifestò inimmaginabile fantasia politica servendo una mistura di pragmatismo e di appeasement, garantita e dalla superiorità militare e dal conforto degli Stati Uniti dove la saldatura fra le lobbies ebraiche e le più forti sette protestanti garantisce la protezione e l’indulgenza della Casa Bianca.

uscito dalla scena politica israeliana quello che era il "boia Sharon" è diventato il politico lungimirante da rimpiangere, e da uttilizzare per attaccare l'attuale governo di Israele.
Un destino di poco dissimile da quello di Rabin,criticatissimo in vita ogni volta che difese Israele e divenuto per un certo giornalismo termine di paragone, e di condanna. di tutte le politiche israeliane dopo la sua morte.
Intanto, ricompaio la "lobby ebraica" e le "sette protestanti" che garantirebbero l'"indulgenza" degli Stati Uniti verso Israele.
A Man non viene neppure in mente che una grande democrazia possa non avere bisogno  di "indulgenza" per appoggiare un'altra democrazia aggredita dal terrorismo e dal totalirarismo


La differenza fra ieri e oggi è tutta nel j’accuse di Washington alla Siria e al Libano coinvolti (non importa se volontariamente o no) nel blitz di Hezbollah. Olmert, il poco fortunato successore di Sharon, parla di «atti di guerra», lo dice a ragione, rafforzando la nostra (amara) convinzione. Cosa avverrà, dopo le decisioni del consiglio di sicurezza del governo di Gerusalemme che, per inciso, ha accolto con un’alzata di spalle la minaccia del povero Abu Mazen, presidente («de che?») della cosiddetta Autorità palestinese? Me ne vado, sciolgo la Anp se non ci verrà resa giustizia, proclama Abu Mazen fingendo di ignorare che per i governanti di Israele egli «non esiste».
E questo perché lui ha in fatto deluso quei politici israeliani che cancellando Arafat e promuovendo il ricco palazzinaro contavano di farne un quisling truccato da nazionalista palestinese.

Nessun quisling. Abu Mazen semplicemente prometteva di essere un nazionalista, impegnato a creare uno stato palestinese e non a distruggere Israele, e un realista, consapevole del fallimento della strategia terroristica.
Forse lo è, ma la sua incapacità di imporsi lo ha reso politicamente irrilevante.


 Ora Abu Mazen non sarà un genio, e nemmeno quell’abile animale politico che fu Arafat, l’Arafat degli accordi di Oslo per la precisione,

dopo Oslo ci furono il frifiuto delle proposte di Camp  David  e il ritorno al terrorismo.
Perchè Man non ricorda questi fatti?

ma certamente non coltiva l’idea del suicidio. Che avverrà dunque, sin dove si spingerà questa guerra a rate, e di che vastità sarà la rata a venire?
Ma l’ora è grave non tanto perché la guerra è comunque una disgrazia. L’ora è grave perché in codesta guerra anomala è sceso in campo l’Iran. Questa la «novità». Tragica. Vediamo. Hezbollah, il «partito di Dio», nasce dalla costola di Khomeini, il corrucciato ayatollah che scacciò lo Scià fondando la Repubblica islamica dell’Iran così imponendo il turbante a un paese in T-shirt. Povero militarmente, ricco di petrolio e di ortodossia sciita (lo Sciismo è religione di protesta). Nella primavera del 1979, un plotone di pasdaran (miliziani ascetici) capeggiato dal figlio dell’ayatollah Montazeri, ribattezzato Ringo da noi giornalisti, noleggia uno scassato DC3 e atterra a Beirut. Quelle autorità, allarmate, cercano invano di far fare dietrofront ai pasdaran. Infine cedono alla prepotenza di Teheran. Trasferiti nella Valle della Bekaa, a un passo dalle sontuose rovine di Baalbek, i pasdaran si organizzano: fondano il «partito di Dio» (Hezbollah) grazie anche al supporto degli sciiti che sono, in Libano, una maggioranza miserabile ma animosa. Giorno dopo giorno gli Hezbollah allargano la presa: sono loro a inaugurare la cattura degli ostaggi (perlopiù americani), arma infame proprio ieri rispolverata col blitz. Oggi si sentono potenti perché sono un partito legale e in fatto la longa manus di Teheran. Sappiamo che il neopresidente iraniano non si stanca di gridare che Israele deve scomparire dalla faccia della terra. Adesso, dopo gli accadimenti bellici, dopo il blitz-provocazione e le dichiarazioni supponenti del vertice del partito di Dio, possiamo concludere che l’Iran del bombastico Ahmadinejad è in guerra contro Israele. Ancorché per interposto combattente. Patti ufficiali e segreti (oltre a forniture di greggio a prezzi stracciati) fanno di quella fra Iran e Siria una alleanza inquietante.
Il problema è come evitare che la guerra, questa guerra anomala ma sempre guerra, non incendi tutta l’area della crisi, quel luogo dei mille pericoli e della manipolazione religiosa ch’è il Vicino Levante. Un vicino ricco di petrolio ma soprattutto di odio: per l’Occidente cristiano reo, come accusa Ahmadinejad, di occupare al Quds, Gerusalemme, in combutta con Israele.

Qui Man suggerisce una cosa assolutamente falsa: che l'odio islamico per l'Occidente sia causato da Israele,
Invece, panarabismo e fondamentalismo islamico condividono un avversione per l'Occidente del tutto indipendente da quella verso Israele ( e soprattutto indipendente dalle sue politiche).
L'Occidente, come Israele. è odiato per ciò che è, non per ciò che fa.

In prima pagina sul RIFORMISTA, l'editoriale di Paola Caridi ha un titolo che non promette nulla di buono:"Le bombe di Israele si sentono, la politica non si vede" 
che assurdamente rimprovera a Israele di non avere (non certo di non volere) interlocutori politici e di rispondere alla guerra con guerra.
L'articolo mantiene le promesse: la Caridi crede a Nasrallah, quando dice che non vuole la guerra che ha iniziato, crede alla "divisione" di Hamas, nonostante sia evidente ( e confermato dall'Egitto) che nell'organizzazione islamista vi è piuttosto una gerarchia, al cui vertice sta Meshal, crede che Haniyeh abbia chiarito sul Washington Post che Hamas vuole solo la "fine dell'occupazione", mentre dal suo articolo si capiva chiaramente che vuole la fine di Israele.

Ecco il testo: 

Non è ancora l'invasione del Libano. Ma quella che ci si aspetta, nelle prossime ore, è una seconda Gaza. A dirlo, sono i primi segnali che hanno fatto seguito al sanguinoso attacco condotto da hezbollah, la milizia sciita libanese, attorno alla zona eternamente contesa delle Sheeba Farms. La reazione di Israele al rapimento di due soldati di Tsahal e all'uccisione di altri tre militari nelle prime ore della mattina lungo il confine con il Libano è stata la stessa scelta due settimane fa, dopo la cattura del caporale Gilad Shalit da parte di un commando emanazione di tre gruppi armati palestinesi che operano dentro Gaza. Bombardamenti alle infrastrutture, incursioni terrestri: l'esercito israeliano ha reagito in modo incredibilmente simile. E i ponti del sud del Libano, che rendono molto più difficili le comunicazioni tra Beirut e la fascia che fu occupata da Israele per 18 lunghi anni (fino al ritiro del 2000), sono tragicamente simili - ora - a quelli distrutti nella Striscia all'indomani della cattura del caporale Shalit.
In una fase in cui guerra e simbologia si mischiano in una danza macabra, non sono solo i ponti a rassomigliarsi. Lo sono anche i sequestri. Dopo la cattura del giovanissimo Gilad Shalit, hezbollah ha rincarato la dose, lanciando non solo ai palestinesi, ma anche alla strada araba, un messaggio chiarissimo, che serve anche a rinverdire l'immagine della milizia sciita libanese, premuta in questi ultimi mesi dai tentativi di legare la transizione politica di Beirut al disarmo di hezbollah. Gli israeliani - questo il messaggio - non sono invincibili. Lo dimostra il sequestro Shalit a Gaza. Lo dimostra quest'altro rapimento. Per gli arabi, Israele è l'esercito meglio equipaggiato e più forte della regione, quello che ha inflitto a tutti i paesi della cintura sonore sconfitte. Le due azioni di queste ultime settimane sono dunque la rottura di un simbolo. E la reazione tutta militare di Israele, peraltro, ne è la conferma.
C'è, però, altro, oltre ai simboli. E l'altro si chiama «fascicolo dei prigionieri», considerato ora centrale non più soltanto dai palestinesi, ma anche da hezbollah, protagonista oltre due anni fa di una trattativa molto particolare in cui erano stati coinvolti non solo la milizia sciita libanese e il governo israeliano guidato da Ariel Sharon, ma anche la Germania e persino l'Iran. Hassan Nasrallah, lo sceicco leader del «partito di Dio» libanese, ha detto di non voler infuocare la regione, ma di voler risolvere la questione attraverso lo «scambio dei prigionieri». Il dossier del popolo delle carceri passa, dunque, in prima linea. Anche in Israele. Non solo nelle parole stizzite del padre di Gilad Shalit, che ha ricordato negli scorsi giorni come il suo paese abbia deciso di trattare anche per liberare un businessman di dubbia fama. Ma anche, e involontariamente, nelle parole del ministro della giustizia Haim Ramon, che ieri ha detto che Israele era disposta a liberare un congruo numero di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane prima che venisse sequestrato il caporale Shalit.
A sovrastare il parlottio sui prigionieri è, però, a tutt'oggi il frastuono delle bombe. A dimostrazione che Israele non riesce a mettere ancora in parallelo una risposta militare e una politica. E l'inasprimento della reazione delle armi si fa, almeno a Gaza, decisamente alto. Andando ben oltre il caso Shalit. La bomba sganciata ieri notte sul palazzo in cui si trovava Mohammed Deif, numero uno della lista dei dead man walking stilata da Israele, dimostra quanto la pratica degli omicidi mirati non sia stata messa per niente nel cassetto sia da Tsahal sia dai vertici politici di Tel Aviv. Anzi. Per uccidere Deif, capo delle brigate di Hamas Ezzedin al Qassam, l'esercito è stato disposto ad alzare il tiro, a usare non più missili ma una bomba che ha disintegrato un edificio di tre piani, ferendo Deif, sterminando una famiglia di nove persone e provocando oltre una ventina di feriti.
Nove morti civili in un solo attacco, a cui si devono aggiungere altrettanti morti nella conta della giornata di guerra di ieri. Mentre a nord, sul fronte aperto verso il Libano, l'esercito israeliano ha perso sette dei suoi militari in due differenti situazioni.
La politica palestinese, di fronte a questo ennesimo attacco, risponde in due modi. Tutti, però, politici. Da un lato, con il presidente Mahmoud Abbas, che rende noto al mondo che il re è nudo, e che l'Anp è ormai soltanto una foglia di fico della comunità internazionale: meglio, dunque, scioglierla, rassegnare le dimissioni da presidente (queste le voci che circolavano con insistenza ieri) e mettere il mondo (e anche Hamas, certo) di fronte a tutte le sue responsabilità. Seconda reazione, quella del premier Ismail Haniyeh, sempre più debole, eppure sempre più protagonista attraverso la presenza sul Washington Post, con un articolo di suo pugno sul giornale più importante d'America. Per dire agli americani che quello che chiedono i palestinesi è quello che hanno chiesto loro, più di due secoli fa. Libertà dall'occupazione. Non a caso il Post ha ospitato sulle sue colonne l'esponente di una organizzazione che l'amministrazione Bush (e l'Europa) considerano terroristica.


Guido Rampoldi su REPUBBLICA appare esclusivamente preoccupato di trarre dalla crisi provocata da Hezbollah ( e  da altri crimini jihadisti) la conclusione che il progetto del "Grande Medio Oriente " di Bush sia fallito.
Noi facciamo altre considerazioni: se agruppi terroristici come Hamas ed Hezbollah non fosse stato consentito di partecipare alla elezioni, trasformandole in qualcosa di evidentemente molto diverso da quelle che si svolgono nelle democrazie liberali, se Moqtada Sadr fosse stato affrontato e sconfitto, anzichè blandito e cooptato, il progetto del grande Medio Oriente non attraverserebbe la crisi che innegabilmente attraversa.
Dagli errori  del passato si possono insegnamenti  per il futuro.
Ma è questo che Rampoldi vuole? Oppure, più semplicemente, egli si augura la sconfitta dell'America?
Ecco il testo


ANCORA tre anni fa la regione che va dal fiume Indo alla città di Gaza pareva avviata, nei piani e negli auspici dell'amministrazione Bush, ad una trasformazione pacifica verso la democrazia e la cooperazione internazionale. Ieri sera quella stessa area sembrava in preda ad una di quelle convulsioni generali con le quali la storia abroga un ordine decrepito e prepara i sommovimenti grandiosi e cruenti che segneranno la nascita del nuovo. L'epicentro dello scossone era il confine tormentato tra Israele e il Libano, lì dove il movimento sciita Hezbollah, filo-siriano e soprattutto filo-iraniano, ieri ha rapito due soldati di Tshahal. Hezbollah ha annunciato che la vita dei due ostaggi era negoziabile con la libertà di palestinesi detenuti in Israele. Il governo di Ehud Olmert l'ha considerato un atto di guerra ed ha risposto di conseguenza: con operazioni militari in territorio libanese per scovare e liberare i due prigionieri. Ma a sera Israele non era riuscito nel suo progetto. Si trovava anzi risucchiata in una mischia cruenta e sotto un doppio scacco, ricattata sia da Hezbollah sia da Hamas, che da giorni nasconde un terzo soldato israeliano, anch'egli ostaggio negoziabile.

Origine d'un braccio di ferro pericoloso perché di difficile soluzione, il rapimento dei due soldati forse non appartiene soltanto alla sempre più concitata dinamica del conflitto israelo-palestinese, ma potrebbe rimandare all'attivismo dell'Iran, subentrato ai siriani nel ruolo di primo sponsor di Hezbollah. Da tempo il presidente iraniano Ahmadinejad si prospetta ai palestinesi come il loro vero protettore, e l'unico in grado di vendicarli con le sue atomiche al momento virtuali. Questa retorica ha reso Ahmadinejad enormemente popolare in Medio Oriente, molto più di quanto non lo sia in patria; da tempo ha soppiantato Osama bin Laden nei cuori dell'estremismo arabo. Il colpo messo a segno ieri da Hezbollah giova alla sua influenza nell'area.

Che la milizia dei libanesi sciiti abbia agito o no su richiesta di Hamas, l'intromissione le permette di accrescere il proprio credito nel West Bank e a Gaza, soprattutto a detrimento del presidente dell'Autorità palestinese, il saggio e solitario Abu Mazen. Le voci sulle possibili dimissioni di quest'ultimo ieri sera pareva quasi confermare che gli spazi per la politica e la ragionevolezza ormai sono minimi.

L'intera regione sembra quasi rassegnata a questa deriva raggelante. Malgrado si sforzi di fermare la guerra civile, domenica a Bagdad è successo qualcosa di incredibile perfino per gli standard dell'orrore iracheno. In seguito ad un attentato contro una moschea sciita, una grossa milizia, presumibilmente anch'essa sciita, per cinque ore ha preso il controllo d'un quartiere, stabilito posti di blocco e assassinato una cinquantina di giovani, la cui unica colpa era d'avere un nome sunnita.

Accadeva nella capitale, a pochi minuti di macchina dalla "Zona verde", il quartiere fortificato dove si riunisce il governo iracheno, ultimo simulacro della nazione. Durante quelle cinque ore nessuno è intervenuto per fermare la strage. Né la polizia né i soldati americani. Se queste sono le forze che dovrebbero fermare la guerra civile, si può dare per certo che ormai non vi sia più alcuna possibilità di evitare la spartizione etnica - provincia per provincia, distretto per distretto, quartiere per quartiere - dell'Iraq quasi defunto.

Anche di questa partita l'Iran è il grande vincitore. Teheran ha strumenti affilati per rafforzare la propria influenza su una fetta della Mesopotamia, e può ragionevolmente progettare di cacciarne a pedate gli Stati Uniti. Ha smascherato il penoso bluff dell'amministrazione Bush, che per tre anni ha finto di studiare un attacco militare quando invece non ne aveva alcuna intenzione, e adesso ride in faccia agli occidentali, che a giorni alterni intimano o supplicano Ahmadinejad di accettare un compromesso sul nucleare. Ma se l'eccesso di fiducia del regime divenisse scoperta tracotanza, Washington finirebbe per reagire, per una irrevocabile questione di prestigio.

E poi l'Afghanistan, dove gli aiuti pakistani e gli errori americani hanno permesso ai Taliban di rientrare in gioco. E il Pakistan, sempre più tentato dal vecchio trucco, rovesciare oltreconfine le proprie tensioni interne per evitare d'implodere. E l'India, l'altro ieri insanguinata da sette bombe su altrettanti treni di Bombay. Ma la grande convulsione che percorre la terra dell'islam e del petrolio dal Mediterraneo fino al Punjab non riesce a impaurire davvero l'elefante indiano. Malgrado gli attentati, ieri la Borsa indiana guadagnava il 3%. Le ragioni erano tecniche, ma quella flemma sorprendente (dopo decine di morti, quale mercato finanziario avrebbe reagito allo stesso modo?) pareva quasi rappresentare la serenità con la quale i nuovi protagonisti della storia assistono alle convulsioni del vecchio ordine. Un ordine nel quale americani ed europei fino a ieri erano in varia misura influenti, decisivi. Adesso sembrano soprattutto impotenti. Non sanno più cosa fare. E non hanno molte idee con cui rimpiazzare quella trovata bushiana che s'intitolava "il Grande Medio Oriente". Prometteva un contagio democratico da Gaza a Teheran. Non è andata in quel modo.

Ritorno al negoziato come unico modo di fermare la crisi in Medio Oriente:  è la tesi di Janiki Cingoli su EUROPA
Ma negoziato con chi? Se l'interlocutore non esiste invocare il dialogo serve solo a delegittimare la risposta all'aggressione.

Lorenzo Bianchi in conclusione del suo editoriale sul GIORNO attribuisce  esplicitamente la colpa del mancato negoziato a Israele, scrivendo:

L'unica vera alternativa sarebbe un negoziato onesto e autentico. Ma è una parola che nessun uomo politico israeliano riesce a pronunciare in questo momento

Massimo Fini sulla Padania, intervistato , attribuisce a Israele il rifiuto di dialogare con il governo Hamas.
E' stato invece quest'ultimo a rifiutare financo di riconoscere Israele

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