Dopo il bombardamento di una scuola di Askhelon da parte dei terroristi palestinesi, ignorata dai quotidiani italiani, ci eravamo detti convinti che la risposta israeliana, non sarebbe passata altrettanti inosservata.
Così è stato
Da La REPUBBLICA del 6 luglio 2006, una cronaca scorretta di Fabio Scuto:
GERUSALEMME - Riunito di primissima mattina il Consiglio di difesa israeliano ha approvato l´allargamento delle operazioni militari nella Striscia di Gaza. Convocato dal primo ministro Ehud Olmert sulla scia dell´attacco con i razzi Qassam su Ashkelon, il gabinetto ha posto come obiettivo dell´operazione la liberazione del soldato rapito dieci giorni fa, colpire Hamas che è dietro il sequestro e il suo governo. Israele potrebbe poi costituire di fatto una «zona cuscinetto» rioccupando parte del nord della Striscia per allontanare i lanciatori di razzi - che ora minacciano complessivamente 200 mila israeliani - dalle città di Sderot e di Ashkelon. La nuova «zona di sicurezza» prevederebbe anche l´accerchiamento delle cittadine palestinesi di Beit Hanoun e Beit Lahiya, che verrebbero isolate così dal resto della Striscia. A Gaza sono continui i raid aerei e i cannoneggiamenti dell´artiglieria israeliana, distrutta definitivamente la sede del ministero degli Interni, bersagliata anche Rafah. In risposta le Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno lanciato nuove minacce annunciando che «se il sangue palestinese viene versato a Gaza, il sangue degli israeliani scorrerà nelle loro città». E ieri è giunta anche la denuncia del relatore Onu John Dugard, che davanti al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite riunito a Ginevra, ha definito l´offensiva israeliana a Gaza una violazione delle "norme basilari del diritto umanitario".
Stabile non riporta le risposte di Israele alle accuse di Duggard e di quanti parlano di violazione del diritto umanitario, senza preoccuparsi di condannare l'aggressione terroristica antisraeliana e l'uso dei civili palestinesi come scudi umani dei lanciatori di razzi kassam (vedere gli articoli di Nirenstein e Frattini).
Il Consiglio di difesa israeliano ha anche esaminato il caso del soldato Shalit. I ministri hanno confermato la linea di fermezza. Ma qualche passo avanti forse è stato fatto se ieri il responsabile della Giustizia Haim Ramon ha annunciato che il militare «è vivo e nelle mani di Hamas». Secondo il quotidiano Yedioth Ahronot, i sequestratori del caporale sono riusciti finora a sottrarsi alla caccia dell´intelligence israeliana isolandosi dal mondo, grazie a riserve di cibo, acqua e medicine, ammassate da tempo. Spenti i telefoni cellulari, per comunicare con l´esterno si affidano ai "pizzini", foglietti scritti in codice usati dal boss della mafia Bernardo Provenzano in Sicilia, affidati poi a complici fidatissimi. Il soldato verrebbe tenuto prigioniero in un bunker sotterraneo guardato a vista da sette miliziani che non escono dal nascondiglio per non essere individuati.
Ieri, nel tentativo di rompere la situazione di stallo, il padre di Shalit ha lanciato un appello ai rapitori attraverso una stazione radio israelo-palestinese: «Occorre mettere fine alla vicenda. Dite per favore agli egiziani quali sono con esattezza le vostre richieste. Cerchiamo di ridurre le sofferenze di mio figlio e del popolo palestinese. Una soluzione potrebbe essere trovata domani, anche oggi».
La caccia agli uomini di Hamas è continua anche in Cisgiordania. Ieri mattina a Ramallah reparti speciali dell´esercito israeliano hanno perquisito diversi palazzi nel tentativo di arrestare il presidente del Parlamento palestinese, Abdel Aziz Dweik, esponente di Hamas già sfuggito all´arresto il 29 giugno durante la grande retata. I deputati palestinesi del Parlamento di Ramallah nelle carceri israeliane rischiano di diventare la maggioranza dopo l´arresto di 8 ministri e 26 parlamentari di Hamas la scorsa settimana. Su 80 deputati del Parlamento in Cisgiordania (40 sono a Gaza dove c´è un´altra sede) 37 sono dietro le sbarre, 11 di loro da diversi anni, 26 da una settimana, altri 25 sono ufficialmente ricercati dall´esercito israeliano, compreso il presidente dell´Assemblea. Grandi foto incorniciate dei parlamentari già in cella fanno bella mostra sugli scranni rossi dell´Assemblea loro spettanti nel palazzetto nel centro di Ramallah. «Speriamo di non doverne aggiungere delle altre questa settimana, già così è una bella galleria fotografica». Ci scherza su Khuzam Badran, dell´ufficio stampa del Parlamento, ma da otto giorni ogni attività, parlamentare e di governo, è paralizzata.
Gli arrestati sono membri di un organizzazione che ha dichiarato guerra a Israele, rivendicando i lanci di kassam, uccidendo due suoi soldati e rapendone un altro sul suo territorio.
Circostanze che andrebbero ricordate, mentre si riferisce con partecipazione dell'amara ironia dell'addetto stampa del Parlamento dei terroristi.
Alll'interruzione dei lavori del Parlamento palestinese dedica un articolo allarmato anche Umberto de Giovannangeli su L'UNITA'.
Le rischieste di "ripristino della democrazia" ignorano completamente il fatto che Hamas è un "partito armato", che pratica il terrorismo e predica un'ideologia totalitaria, jihadista e antisemita.
La democrazia (almeno quella liberale) non c'entra nulla né con il metodo né con i risultati delle elezioni palestinesi.
Ecco il testo:
TRE RAGAZZI IN DIVISA piantonano stancamente l'ingresso. Un guardiano settantenne sonnecchia su una sedia nell'atrio. Poi il nulla. È il Parlamento palestinese. Cinque giorni fa si è riunito per denunciare gli arresti di ministri e deputati da parte di Israele, da allora solo sedie e stanze vuote «Q ui sono alcuni giorni che non si fa vivo più nessuno, da quando gli israeliani hanno compiuto la retata…», ci dice il vecchio Bassam mentre cerca di far funzionare un ventilatore più malandato di lui. Visitiamo il primo piano del Parlamento: alle pareti c'è la storia: una vecchia carta della Palestina (senza Israele), i ritratti di Yasser Arafat, dello sceicco Yassin (il fondatore di Hamas) e, più defilati, quelli di Abu Mazen, l'attuale presidente dell'Anp. L'animazione dei primi giorni post-elettorali è solo un ricordo: se la democrazia palestinese era un «cantiere in costruzione», oggi quel cantiere è in disuso. Ramallah, capitale della Cisgiordania. Capitale di uno Stato che non c'è e di un'Autorità palestinese «vuota» di potere. Come vuota è la sede dell'istituzione per la quale la popolazione dei Territori ha votato, in libere elezioni, lo scorso 25 gennaio, decretando la vittoria di Hamas. Cinque giorni fa, un Parlamento falcidiato dagli arresti compiuti dagli israeliani, si è riunito in seduta straordinaria per denunciare «l'aggressione sionista». Molte le sedie vuote. «Se le cose vanno avanti così, la prossima riunione la terranno in un carcere israeliano», dice con amara ironia Nabil 30 anni, gestore di una pasticceria nella centrale piazza al-Manara poco distante dalla Muqata, il quartier generale di Abu Mazen. Più che la paura, il sentimento che pervade la gente di Ramallah è il disincanto. Ciò che più ferisce è l'umiliazione patita, è un sogno infranto. «Avevamo creduto nella democrazia, eravamo orgogliosi di elezioni che tutto il mondo ha giudicato esemplari per come si erano svolte, ma con gli arresti di ministri e parlamentari, Israele ha messo in chiaro che noi restiamo un popolo sotto occupazione», riflette Ghassan, 40 anni e 5 figli, funzionario dell'Anp senza stipendio da tre mesi come gli altri 165mila dipendenti dell'Autorità palestinese. Sui muri dell'edificio del Parlamento ci sono ancora i segni delle manifestazioni che avevano contrapposto, armi alla mano, le milizie del Fatah e quelle di Hamas: segni di proiettili, tracce di una contrapposizione frontale che solo l'offensiva militare israeliana ha, almeno per il momento, tacitato. «Ogni ministro arrestato diviene per la gente comune un eroe della resistenza. “Martirizzando” Hamas, Israele unifica invece di dividere le diverse anime del movimento islamico, creando al contempo un clima di ostilità verso chiunque, come il presidente Abu Mazen, insista sulla linea negoziale», afferma Sari Nusseibeh, presidente dell'Università Al Quds di Gerusalemme Est, l'intellettuale palestinese più impegnato nel dialogo. Una tesi condivisa da Hanan Ashrawi, paladina dei diritti civili, oggi parlamentare del partito laico-progressista «Terza Via»: «Di Hamas penso il peggio possibile - sostiene - ma ho rispetto per quanti l'hanno votato. La democrazia va difesa sino in fondo, e Hamas deve essere sconfitto dai palestinesi con il voto e non dai carri armati di Israele». Sui muri di Ramallah resistono ancora, sempre piu' sbiaditi, i manifesti dei candidati nelle elezioni dello scorso 25 gennaio. Quella stagione di speranza è durata ben poco. Ora c'è solo spazio per il linguaggio più ascoltato nella martoriata Terra Santa: quello della forza. Sui muri di Ramallah ricompaiono, in gran numero, le foto degli «shahid», i martiri-kamikaze dell'intifada. Ci sediamo nel caffè di Nabil. Ascoltiamo assieme l'appello di Noam Shalit, il padre di Ghilad, il caporale diciannovenne rapito dieci giorni fa da un commando palestinese. A trasmetterlo è l'emittente israelo-palestinese «Voce della Pace». C'è rispetto per il dolore e la dignità di quel padre. C'è condivisione per le parole che Noam Shalit rivolge ai rapitori di suo figlio: «Diteci con precisione quali sono le vostre richieste, cerchiamo di serrare i tempi per risparmiare sofferenze superflue a mio figlio e anche al popolo palestinese». «Liberarlo è giusto, ma perché nessuno spende una parola per le migliaia di palestinesi che Israele tiene prigionieri?», s'infervora Mahmud, studente all'Università di Bir Zeit. La discussione si fa animata: «Volevamo costruire la nostra democrazia - dice Hakim, 20 anni, che alle elezioni ha votato per Al-Fatah - e Israele ha risposto arrestando ministri, parlamentari, bombardando gli uffici di Haniyeh (il premier di Hamas, ndr.). Se non morti, ci vogliono schiavi…». Quel Parlamento vuoto rispecchia il «vuoto» di futuro della gente di Ramallah. Gli arresti dei ministri, gli uffici del premier bombardati, le istituzioni paralizzate: in questa situazione, è difficile per tutti scommettere sulla democrazia. In un'abitazione privata incontriamo il presidente del Parlamento palestinese, Abdel Aziz Dweik. Le sue guardie del corpo dettano i tempi del colloquio: mezz'ora al massimo, per ragioni di sicurezza. Dweik è nel mirino di Israele. «Ciò che gli israeliani stanno perpetrando contro il popolo palestinese e i suoi legittimi rappresentanti si definisce in un unico modo: terrorismo di Stato», esordisce Dweik. Provo a parlargli del soldato rapito, ma lui m'interrompe subito: «Si è trattato - dice - di un'azione militare, come quelle condotte da Hezbollah contro le forze di occupazione nel sud del Libano. Con Hezbollah Israele ha trattato, ha liberato centinaia di prigionieri, mentre con i palestinesi ha praticato il pugno di ferro, rapendo 8 ministri, decine di parlamentari, trasformando Gaza in una immensa prigione a cielo aperto…». Prigione. È una definizione della realtà che ci accompagna nell'altra tappa del nostro viaggio in Cisgiordania. Siamo ad Abu Dis, dieci minuti dalla Città vecchia, nel cuore di Gerusalemme. Un tempo Abu Dis offriva le comodità di una vita moderna. Oggi, Abu Dis «è una prigione», denuncia Jihad Abu Hillal. Alle spalle, un bambino salta agilmente dall'alto del blocco di cemento che ha appena scavalcato, sfidando le guardie. «Sta tornando a scuola, che deve fare?», dice Jihad. Un uomo lo segue, con un tonfo pesante. Jihad non può farlo, è incinta di un secondo figlio, dovrebbe nascere a giorni. «Ho una gran paura, qui non c'è un ospedale. Quello di al- Maqqasad, dove lavoro come infermiera, è oltre la barriera». Prima, Jihad ci metteva dieci minuti ad andare all'ospedale. Ora ci mette due ore. Deve prendere uno o più autobus o un taxi e superare svariati posti di blocco. «Quello che temo di più è che non mi facciano passare e mi ritrovo come altre donne a partorire lì, davanti ai soldati israeliani». Jihad era andata a votare, il 25 gennaio, perché, dice, «pensavo che così avrei potuto decidere un po' del nostro futuro. Ma si è rivelato inutile - sospira - perché continuiamo ad essere trattati come un popolo di prigionieri
I "prevedibili rastrellamenti" israeliani con l'uso deliberato di un termine che richiama agli italiani le memorie delle guerra partigiana contro il nazifascismo, il saggio appello di Hamas alle "persone sagge al mondo".
La cronaca di Eric Salerno pubblicata dal MESSAGGERO del 7 luglio 2006 rivela in particolari come questi l'ottica dell'autore, che considera i terroristi din Hamas di gran lunga più ragionevoli degli israeliani che pretendono di difendersi.
Questo giudizio diventa più chiaro nel trafiletto "Ancora guerra o fine dell'occupazione? La stampa si divide", sui commenti degli opinionisti israeliani all'offensiva dell'esercito. Già il titolo pone un'alternativa che in realtà non esiste. Israele è aggredito mentre progetta disimpegni unilaterali, non è sua la scelta tra la guerra e la pace, ma dei terroristi.
Citati gli editoriali di Yediot Aharonot e Maariv, favorevoli allacondotta di Tsahal, Salerno li liquida come "un mare di esortazioni a colpire duramente, senza per altro analizzare le conseguenze.
Si salava solo l'editoriale di Haaretz che conclude: "La fine dell'occupazione deve essere l'obiettivo al quale qualsiasi tattica scelta nell'attuale crisi deve portare".
Ma questa. è evidente, è la definizione di un obiettivo strategico che, come noto, è condiviso dal governo Olmert.
La risposta (tattica, per l'appunto) all'aggressione da Gaza, ai lanci di razzi kassam , alle uccisioni e ai rapimenti è un altra cosa.
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