Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Testata:Il Giornale - Il Foglio Autore: Andrea Nativi - Gian Marco Chiocci - Renzo Foa - la redazione Titolo: «Effetto ritirata; l'Italia è una falla per la sicurezza - «Ora sarà Roma a cadere in mano nostra» - Passo indietro della democrazia - Il lungo addio all’Iraq»
L'analisi di Andrea Nativi sugli effetti del ritiro italiano sulla sicurezza in Iraq, dal GIORNALE di giovedì 8 giugno 2006:
Tutti a casa? Il deteriorato quadro della sicurezza a Dhi Qar richiede in realtà un rafforzamento della presenza militare italiana, non un ritiro. In ogni missione di stabilizzazione quando si verificano crisi o aumenta la tensione vengono fatte affluire truppe di rinforzo. Ma se ritiro, pardon, rientro, deve essere, è necessario procedere con molta cautela, per evitare sia pericoli diretti per le nostre forze, sia il collasso dell'apparato di sicurezza iracheno e l'inizio di scontri feroci tra le diverse fazioni armate sciite e i gruppi di guerriglia. Il governo non ha ancora chiarito poi se l'idea di mantenere in Irak un Prt, un Centro di ricostruzione provinciale, dopo la conclusione della missione Antica Babilonia sia stata definitivamente abbandonata. Se questo fosse vero, si creerebbe un pericoloso vuoto di sicurezza nella provincia. Il Prt, che in teoria doveva diventare operativo a Camp Mittica entro la fine del mese, si doveva articolare in una componente civile supportata da una robusta forza militare, della consistenza di diverse centinaia di uomini. Ed è proprio il dimensionamento della componente militare ad aver suscitato l'opposizione delle frange estremiste dell'Unione. Tuttavia senza una adeguata cornice di sicurezza e capacità di intervento un Prt non può essere né istituito né funzionare. E se i funzionari e i tecnici civili devono andare a spasso per Dhi Qar, occorre fornire una adeguata protezione, una capacità di reazione in caso di guai, intelligence, senza parlare delle componenti di supporto (telecomunicazioni, genio, manutenzione, difesa installazioni ecc.). Tutto questo richiede centinaia di militari, a meno di accettare rischi terribili, mettendo a repentaglio vite irachene ed italiane. La coalizione ha in programma 18 Prt, uno per provincia. Gli Stati Uniti hanno deciso di prendersi carico di 8 Prt, 6 andranno agli iracheni, con supporto da parte della coalizione e di forze di sicurezza private, uno ciascuno saranno affidati a Gran Bretagna, Polonia, Corea del Sud e... Italia. Se Roma si tira indietro, si creerà una falla nell'intera struttura, falla che qualcuno dovrà tappare. Inutile poi farsi illusioni sulle capacità delle forze locali: la 3ª Brigata irachena, il reparto più affidabile, ha al momento un solo battaglione operativo ed un secondo in fase di addestramento. L'Italia è stata pregata di aiutare la preparazione del previsto terzo battaglione e magari di fornire equipaggiamenti e armi pesanti. Le forze di polizia invece, anche se migliorate e spesso guidate da ex ufficiali dell'Esercito, sono poco efficienti e hanno accolto nei propri ranghi troppi miliziani di partito. Non sono ancora in grado di gestire la sicurezza in modo autonomo. Vista la situazione, occorre resistere alla tentazione di «blindare» i nostri soldati nelle proprie basi, per assicurarne la massima sicurezza. Così facendo si lascerebbe infatti il campo alle milizie, distruggendo poi il morale di militari che vogliono continuare a svolgere la propria missione. Fino a quando le truppe resteranno in Irak si dovrà mantenere una visibile attività di pattugliamento e di presenza sul territorio. Chiudersi nei fortini non ha proprio senso.
Minacce islamiste contro il nostro paese sul web. Com'era prevedibile, per il fronte jihadista il ritiro non pone affatto fine alla guerra, che è aggressiva e non difensiva. Di seguito, un articolo di Gian Marco Chiocci, sempre dal GIORNALE:
Se l’ultimo attentato di Nassirya rappresenti un messaggio al governo nostrano (che ancora tentennasul ritiro delle truppe) osia, piuttosto, un evento bellico «indipendente » tanto da far dire al ministro Parisi quanto sia «infondata ogni ipotesi cheleghi l’attentatoadunpreciso disegno politico finalizzato a colpire il nostro contingente e quindi a condizionarne il calendario di rientro dall’Irak », forse non lo sapremo mai. Quel che è certo è che negli ultimi giorni, e nelle ultimissime ore, in un’area virtuale riservata alle maggiori sigle del terrorismo islamico per propagandare la jihad o care azioni anti-coalizione, del nostro Paese e dell’Irak si è tornato a parlare con sempre maggiore frequenza ed insistenza. Fra i siti internet più gettonati c’è quel al-hesbah. org - riconducibile al terrorista giordano Abu Musab al Zarqawi - attraverso cui vennero divulgate le due precedenti rivendicazioni della penultima azione sanguinaria su Nassiryaadopera delle BrigateImamHussein (si concludeva con una «Lode ad Allah» per la riuscita dell’attentato) e dell’Esercito islamico in Irak, care azioni anti-coalizione, del nostro Paese e dell’Irak si è tornato a parlare con sempre maggiore frequenza ed insistenza. Fra i siti internet più gettonati c’è quel al-hesbah. org - riconducibile al terrorista giordano Abu Musab al Zarqawi - attraverso cui vennero divulgate le due precedenti rivendicazioni della penultima azione sanguinaria su Nassiryaadopera delle BrigateImamHussein (si concludeva con una «Lode ad Allah» per la riuscita dell’attentato) e dell’Esercito islamico in Irak, sigla nota per il sequestro e l’omicidio del giornalista italiano Enzo Baldoni. Fra le diverse organizzazioni islamiste che più stanno scaldando imuscoli inneggiando agli «infedeli» italiani, c’è quella del Hizb al-Tahrir nota, dopo la pubblicazione delle vignette su Maometto, per aver incitato a uccidere i ministri del governo danese responsabili, fra l’altro, della partecipazione alle operazioni in Irak. Il documento che più fa riflettere porta un titolo sinistro: «È giunto il momento di Roma». È apparso per la prima volta il 29 maggio, e in forme sempre più aggiornate, ha continuato a girare fino a ieri. Il testo si apre con una coincidenza temporale: «553 anni fa da ora, esattamente il 29 maggio del 1453, il capo musulmano sultano Muhammad al-Fatih grazie alla sua salda fede ha potuto conquistare Costantinopoli per realizzare quanto annunciato dal profeta il quale disse: “Conquisteremo Costantinopoli”. Il capo musulmano - si legge nel documento - ha conquistato Costantinopoli facendo tremare l’impero Bizantino ed ha chiuso un’epoca aprendone una nuova. Ha poi trasformato la chiesa di Santa Sofia in una moschea ed è la stessa moschea che Mustafa Kamal nel 1936 ha trasformato in un museo e per questo viene considerato un miscredente ». Gli autori del testo vanno poi dritti all’attualità: «È così iniziata una campagna contro l’Islam e i suoi luoghi santi (...) il profeta ha annunciato che la città di Roma cadrà nelle mani dei musulmani. E questa è una previsionechenonsi è ancora realizzata ». Nel delirio di un nuovo califfato antiamericano e antibritannico l’appello punta a una guida comune che vada contro «i miscredenti colonizzatori che seguono la visione del Papa». In coda all’appello un versetto del Corano a buon intenditor: «Ti abbiamo dato una conquista chiara ed Allah ti darà una cara vittoria».
Di seguito, l'editoriale di Renzo Foa, pubblicato in prima e in penultima pagina dal quotidiano:
In nome del mandato degli elettori, la missione «Antica Babilonia» si esaurirà entro l'autunno, come ha detto a Bagdad Massimo D'Alema, e viene fin d'ora esclusa - parola di Arturo Parisi - una qualsiasi altra presenza militare, anche a sostegno e protezione diun programmacivile di cooperazione con l'Irak. Cala dunque il sipario sul più importante intervento militare italiano seguito alla seconda guerra mondiale, un intervento deciso ed attuato nel nome della costruzione della democrazia nel mondo e della lotta contro il terrorismo. È un errore. Un errore è l'accelerazione politica (...) decisa dal governo dell' Unione, conseguente al giudizio più volte espresso da Romano Prodi sulla natura dell' operazione, espresso nelle parole «forze di occupazione». Ma un errore è stata anche la prima decisione, quella presa nei mesi scorsi dall'allora maggioranza della Casa delle libertà, di iniziare il disimpegno militare e di non prospettare con la necessaria chiarezza come sarebbe continuato il sostegno alla democrazia irachena. Pesano certamente sull'opinione pubblica le dolorose perdite subite, ultima quella di Alessandro Pibiri. Così come pesa l'incertezza di un conflitto che sarà ancora lungo e sanguinoso, in un'area in cui si sente soprattutto la cupa voce dei fondamentalismi islamisti, delle loro armi, delle organizzazioni terroristiche e anche degli Stati, a cominciare dall'Iran di Ahmadinejad. Il corso delle democrazie, fin dalla prima metà del Novecento, è segnato dal dilemma fra l'orrore e lo sdegno nei confronti delle dittature e della violazione dei diritti umani, da una parte, e dall'altra la paura di essere trascinati nei conflitti. Basti pensare al precedente storico più importante, quando Roosevelt nel 1940, neanche davanti all'occupazione della Francia da parte di Hitler e all'isolamento dell'alleato britannico, non aveva la forza politica per convincere il Congresso all'intervento in Europa. Oggi, l'Italia scioglie questo eterno dilemma con un passo indietro: dall'assunzione della responsabilità si torna al metodo delle parole. Le parole che non costano nulla. Non costa nulla riconoscere a posteriori che è stato giusto rovesciare Saddam Hussein. Non costa nulla ammirare il coraggio degli iracheni che si sono recati alle urne nonostante la minaccia di morte. Non costerà nulla - una volta ritirato il contingente italiano - inorridirsi per le stragi jihadiste. Dall'internazionalismo della difficile responsabilità, segnata dal sacrificio e dal dolore, si passa all'internazionalismo dei buoni sentimenti. Non credo che Romano Prodi, così come D'Alema e Parisi, non siano capaci di leggere quello che sta accadendo in Irak, né ignorino che ormai da mesi il bersaglio dei terrorismi sono in primo luogo i civili, gente che va al lavoro, fedeli che pregano, donne al mercato, studenti che hanno la colpa di leggere ed imparare, giornalisti che commettono il crimine di informare, intellettuali che pensano. Esattamente come in Algeria, nel decennio scorso. Sono certamente consapevoli della natura dello scontro in atto, sanno che la fine di «Antica Babilonia» non contribuisce alla pace, anzi rende più debole la resistenza al fanatismo islamista. Per questo si trincerano dietro l'argomento del mandato elettorale ricevuto, innalzano il vessillo del «rapporto paritario » con gli Stati Uniti che non si sa cosa sia, si rifugiano dietro la mitologia di un'Europa che purtroppo è in panne, usano come un paravento l'errore compiuto dalla Casa delle libertà e consumano, nel nome della politica interna, l'atto più contraddittorio e pericoloso che una democrazia può compiere: quello di disimpegnarsi dalla costruzione della democrazia globale.
Di seguito, l'editoriale del FOGLIO:
La missione italiana in Iraq, che si è svolta con un discreto successo, sia per quel che concerne la garanzia di sicurezza assicurata alle popolazioni della zona di Nassiriyah sia per il ruolo che ha conferito al nostro paese, rischia di concludersi nella confusione. Le ambiguità e le contraddizioni del nuovo governo, a cominciare dal premier che fatica, a differenza dei suoi responsabili degli Esteri e della Difesa, a riconoscere il carattere pacifico e legittimo della missione, condizionano il calendario e l’organizzazione pratica e politica del rientro delle truppe, che peraltro in questo modo vengono sottoposte a rischi supplementari, come purtroppo si è visto nei fatti. Le affermazioni a doppio senso, in delicate questioni di politica estera e militare, non sono mai un buon espediente. Quando Romano Prodi dice che “non cambia nulla” nel piano di rientro, cerca di tranquillizzare l’impazienza un po’ oltraggiosa dei pacifisti a senso unico, ma in realtà ammette che quello che si realizzerà sarà il progetto che era già stato preparato dal governo di Silvio Berlusconi. Quel che cambia, caso mai, è la prospettiva di quello che accadrà dopo. La missione civile successiva a quella militare – così pare – non avrà un sostegno, per esempio dei carabinieri, che ne assicuri la sicurezza, e questo, nelle condizioni irachene, rappresenta un rischio che sarebbe stato necessario evitare. Sul piano delle relazioni politiche, poi, la lodevole intenzione di voler fare in modo diverso da José Luis Rodríguez Zapatero, per non dare l’impressione, fondatissima, di una fuga precipitosa, viene contraddetta dalle concessioni verbali all’ala estremista della coalizione, con l’effetto di scontentare tutti. Si finisce con il dissipare la riconoscenza che l’impegno delle nostre truppe ha meritato tra chi deve confrontarsi ogni giorno con il terrorismo e la ribellione fondamentalista, senza peraltro ottenere i miseri vantaggi di un’adesione al fronte del rifiuto. Infine le incertezze che si manifestano possono indurre il nemico a cercare di mostrare che il rientro è determinato da una sua vittoria sul campo, e questo può intensificare gli attacchi ai nostri soldati nella delicata fase di disimpegno. E’ il prezzo che si paga alla demagogia profusa per anni e forse anche un espediente per evitare di trasferire le truppe dall’Iraq all’Afghanistan, come sarebbe ragionevole, come ha fatto persino Zapatero, ma come Prodi non può fare senza sfasciare la sua maggioranza.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Giornale e del Foglio