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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Europa Rassegna Stampa
02.06.2006 Per una sinistra antitotalitaria
due interviste a Paul Berman

Testata:La Repubblica - Europa
Autore: Susanna Nirenstein - Daniele Castellani Perelli
Titolo: «I figli dell´utopia - Si può esportare la democrazia»

Paul Berman, intellettuale americano di sinistra favorevole alla guerra contro il totalitarismo islamista e alla liberazione dell'Iraq, viene intervistato su La REPUBBLICA e su EUROPA del 2 giugno 2006, in occasione del dibattito sul libro di Christian Rocca "Cambiare regime", promosso dal Foglio.
Di seguito, l'intervista di Susanna Nirenstein dalle pagine culturali della REPUBBLICA:

Paul Berman, uno dei più noti intellettuali della sinistra americana, giornalista di Dissent, collaboratore del The New York Times Magazine, The New York Times Book Review, di New Republic, è uno che il ´68 l´ha fatto. E lo dice e lo scrive compiaciuto anche se con mille critiche alle derive violente del movimento di allora. Ci tiene tanto perché è convinto che l´anima libertaria di quegli anni sia la stessa che l´ha condotto prima nell´89, poi con il Kosovo e infine con la guerra contro Saddam a compiere una seconda rivoluzione, quella liberale contro i totalitarismi, per la democrazia. Due utopie, la prima rivolta a sconfiggere i residui fascisti della società occidentale, la seconda contro le dittature e oggi contro il terrorismo islamico, il nuovo fascismo che Berman con il suo Terrore e liberalismo del 2003 (Einaudi) ha invitato la sinistra a combattere, uscendo dalle illusioni pietistiche e terzomondiste. Berman, che è qui in Italia per un incontro del Foglio intitolato "Promuovere la democrazia" e per un simposium internazionale di Magna Carta a Lucca sulle "Nuove relazioni transatlantiche", non si sente solo in questo percorso che l´ha visto più volte sgradito alla sinistra tradizionale: il suo compagno più fedele lo individua in André Glucksmann, ma anche in Bernard Henri Levy e nei nouveaux philosophes, in Bernard Kouchner che fondò Medici senza frontiere, in Tony Blair, e fino a un certo punto anche in Joschka Fischer e Daniel Cohn-Bendit che però, in occasione della guerra in Iraq, non ha ritrovato al suo fianco.
Sulla "generazione delle due utopie" Berman ha scritto due libri, Sessantotto, uscito negli States nel 1996 e da pochi giorni in libreria con Einaudi (pagg. 231, euro 15,50), e Power and the Idealists, del 2005, che sarà pubblicato in Italia in autunno, da Baldini Castoldi Dalai. Noi l´abbiamo incontrato in piazza Montecitorio a Roma.
Professore, che legame c´è tra l´anima del ´68 e la sua battaglia contro il totalitarismo islamista?
«E´ la sua estensione naturale, anche se è evidente che il ´68 è stato un movimento contraddittorio. Era libertario, innamorato della libertà individuale, ma dall´altra parte esaltava personaggi come Mao, che erano la rappresentazione stessa del totalitarismo. Passata la stagione "rivoluzionaria", chi aveva partecipato alle nostre battaglie dovette scegliere tra le due anime. La maggior parte risolse il dilemma mettendosi in una zona grigia».
Cosa intende per zona grigia?
«Quella vastissima zona in cui potevi stare senza prendere realmente una posizione contro le dittature, cinesi, cubane, cambogiane... e al tempo stesso non dichiararti comunista. Qualcosa che ricorda il più recente né con né contro Saddam. Molti però hanno risposto al collasso del movimento entrando nel mondo delle organizzazioni umanitarie, una nuova tendenza nata dall´anti-autoritarismo sessantottesco che ha partorito la nozione del diritto a intervenire in caso di disastro per le popolazioni civili, nelle campagne per i diritti umani».
A chi pensa?
«Ai francesi soprattutto, con Medici senza frontiere e i nuovi filosofi degli anni Settanta. Ma la stessa propensione è venuta fuori dovunque ed è nata dalla sinistra. Penso ai movimenti per i diritti umani in America, o ai Verdi in Germania con Joschka Fischer e Cohn-Bendit, a Tony Blair in Inghilterra, e anche all´Italia, dove un governo di sinistra ha partecipato alla guerra in Kosovo sotto l´egida Nato. La decisione di poter usare la forza per opporsi a una catastrofe umanitaria: fu una chiarificazione forte. Alcuni la videro come un tradimento dei principi della sinistra, ma io credo abbia rappresentato un passo nel futuro».
In realtà, dopo l´11 settembre, abbiamo visto la generazione del ´68 o degli anni ‘70 marciare soprattutto contro l´America, bruciare le bandiere di Israele; Oliviero Diliberto, il segretario del Pdci, una forza dell´attuale governo, è andato a stringere la mano al leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah.
«Gliel´ho detto, andarono in due direzioni. Una è quella liberale e antitotalitaria. L´altra, la maggioranza, è la zona grigia dove si può non scegliere: è quella che si rifà a descrizioni semplici e attribuisce i problemi del mondo agli ebrei o all´America, anche se poi ama il rock».
Allora non si può parlare di una generazione delle due utopie.
«Non parlo della generazione in senso demografico. Io mi riferisco allo spirito, all´unicità di quel momento. Parlo delle organizzazioni umanitarie che presero vita da quel fuoco, della capacità di sollevarsi contro i conservatori del vecchio comunismo, come fece scandalosamente Glucksmann dopo aver letto Solgenitsyn. Gli altri non mi interessano. Penso, a dispetto dei sondaggi, che sia quello spirito, l´urgenza di ribellarsi alla tirannia e all´oppressione, a rappresentare il domani della sinistra».
Lei in Power and the Idealists ha scritto che la generazione del ´68 è morta a Bagdad nell´agosto del 2003, con l´attacco suicida alla missione delle Nazioni Unite. Cosa voleva dire?
«Che qualcosa in quel momento è finita. Non lo spirito o la mistica del ´68. Ma una generazione è fatta di gente vera, che fa cose vere. E quelle Ong che lavoravano attraverso le Nazioni Unite a Bagdad avevano fatto esperienze importanti nei peggiori posto del mondo, nei conflitti, nelle catastrofi. Erano le stesse persone che avevano avuto un ruolo centrale in Kosovo. Erano rimasti fedeli all´idealismo che li aveva animati da giovani. Rappresentavano, scrisse Cohn-Bendit, una sorta di internazionale che agiva per il bene. Saltarono in aria in 24 e ci furono più di 100 feriti, alcuni dei quali molto gravi: erano lì per stabilire una società più giusta in Iraq, per creare un Medio Oriente migliore. Il mio era un omaggio. Un ricordo. La zona grigia invece non avvertì minimamente il disastro rappresentato da questa tragedia».
I militanti del movimento ebbero una relazione forte col terrorismo, lei ne parla a lungo nei suoi saggi. Ora la classe dirigente europea, composta in grande parte da quella generazione, ha enormi difficoltà a definire i terroristi di oggi: non di rado li chiama resistenti, combattenti per la libertà. Che ne dice?
«Terrorismo è uccidere persone innocenti per motivi non solo politici ma anche deliranti, immaginari, come ristabilire un califfato che esisteva secoli fa. Questo è terrorismo, un miraggio, una malattia dei nostri tempi da cui in realtà molta gente è attratta, sia a destra che a sinistra. La prima cosa da fare è definirlo: chi ha difficoltà a farlo vuol dire che ne è attratto. Se non fosse popolare non esisterebbe. Bin Laden ha i suoi sostenitori, e non solo tra i musulmani: lo vedono come un eroe antimperialista combattente. Sono fuori di testa. E questo vale anche per i terroristi baathisti, o per Hamas, gli Hezbollah. Cercano una giustificazione a quell´orrore. Ma il terrorismo non ha mai avuto niente a che fare con la lotta per la giustizia, semmai è stata una sorta di psicosi in cui a volte la lotta per la giustizia è caduta».
Perché questo avviene più a sinistra che a destra?
«Esprime la naïveté della sinistra: i leftist credono che l´umanità si muova in modo razionale. Così di fronte alle masse attratte dal "martirio", rispondono cercando una spiegazione semplice, o meglio dando una giustificazione semplice: e la trovano nel fatto che c´è troppa povertà nel mondo, anche se Bin Laden è un miliardario, anche se gli attentatori dell´11 settembre erano diplomati e benestanti. Chi cerca una spiegazione semplice per ogni cosa spesso è un campione di irrazionalità».
Le ultime novità dicono che Condoleeza Rice ha chiesto colloqui diretti con l´Iran. Pensa sia possibile parlare, trattare con Ahmadinejad?
«Non posso giudicare la proposta della Rice da un punto di vista tattico. Ma le cose che Ahmadinejad dice mi preoccupano enormemente: nega la Shoah, parla di responsabilità americane dell´11 settembre, vuole l´eliminazione dell´intero Stato di Israele, chiede agli ebrei di tornare da dove sono venuti (ma non sa che dall´Iran ne sono scappati a migliaia, che erano un terzo della popolazione di Bagdad, che moltissimi israeliani provengono dai paesi arabi?). La vera paura è che voglia distruggere Israele con l´atomica. Tutti questi argomenti riecheggiano la propaganda nazista, e del resto I protocolli dei Savi di Sion è uno dei libri più venduti nel Medio Oriente. L´eco è così assordante che bisogna essere sordi per non sentirla. Come è possibile che quando Ahmadinejad proclama di voler eliminare Israele, la reazione sia solo, come è successo, domandarsi "e ora cosa farà Bush" e non chiedersi invece cosa fare?».
Lei è stato a favore della guerra in Iraq. L´Italia adesso ha deciso di ritirare le truppe.
«Ero a favore della cacciata di Saddam, ma non delle politiche di Bush. E spero divenga questa la politica della sinistra. Ritirarsi? E´ una vergogna, meno truppe ci sono e più dura sarà per gli iracheni. Spero che gli italiani troveranno altri modi per sostenere la democratizzazione del paese».
Molti intellettuali dicono che non c´è relazione tra l´antisemitismo e l´antisraelianismo. La pensano così i professori universitari inglesi che hanno appena votato a larga maggioranza di boicottare gli accademici israeliani. Vuole commentare la notizia?
«Per molto tempo ha regnato un´idea: che il mondo sarebbe stato perfetto se non fosse stato per un certo gruppo sconveniente, gli ebrei. Quei professori pensano che il problema sia rappresentato da un paese minuscolo, Israele. Attraversando la mappa medio orientale non si sono mai soffermati sull´Iraq dove Saddam uccideva migliaia di sciiti e di curdi, né sul Sudan dove si massacrano in nome dell´islamismo decine di migliaia di persone. Di Israele, dove, per restare agli ultimi anni, sono stati uccisi 255 palestinesi nel 2005, 881 nel 2004, abbiamo letto i particolari di ogni singolo omicidio. Sì, sono commoventi questi professori inglesi».

Da EUROPA, l'intervista di Daniele Castellani Perelli:

«In America l’idea dell’esportazione della democrazia è trasversale alla destra e alla sinistra, e divide entrambi gli schieramenti».
Forse non è un caso che, nel corso di quest’intervista che ci ha concesso in occasione della presentazione del libro di Christian Rocca, Paul Berman citi con una certa passione l’esempio di Harry Truman, il presidente democratico che aiutò a “esportare” la democrazia in Italia. Berman è uno di quegli intellettuali neoliberal democratici che hanno appoggiato la guerra in Iraq. Autore di “Terrore e liberalismo” (Einaudi 2004) e di “Sessantotto” (Einaudi 2006), scrive per The New Republic, Dissent, The New York Times Book Review e The New York Times Magazine.
Dice di sperare in un’Europa «meno cinica, più attiva, più idealista», accusa il presidente Bush di aver fatto dell’idea di attacco preventivo un’ideologia, e ammette di essere in difficoltà nell’analizzare il momento politico attuale: «Tutti stanno cambiando idea molto rapidamente. Sull’Iran Bush mi appare confuso, e se lo è simpatizzo con lui».
Gli intellettuali americani stanno rivedendo le proprie posizioni in tema di politica estera. In particolare diversi cosiddetti “neocon” stanno sposando, come Francis Fukuyama, delle tesi più “realiste”, nel senso che si avvicinano all’idea di un nuovo isolazionismo. Si va ormai diffondendo l’opinione che gli attacchi preventivi siano uno strumento da accantonare?
Tra gli intellettuali americani il concetto di attacco preventivo non è mai stato accantonato da nessuna delle due parti, né dai conservatori né dai progressisti. L’attacco preventivo era e rimane una possibilità della politica.
Il fatto è che George W. Bush ne ha fatto un’ideologia. Un’ideologia ufficiale, visto che l’ha esposta nel 2002 in un documento ufficiale della Casa Bianca, il National Security Strategy di quell’anno. Penso che sia stata una mossa stupida da parte sua, sia quella di teorizzarla sia quella di metterla in pratica in Iraq senza basi sufficienti.
Oggi anche Bush si è accorto dell’errore, e la sua amministrazione parla di attacco preventivo molto meno frequentemente. Quindi, per rispondere alla sua domanda, direi che l’ideologia del preemptive strike è stata abbandonata, ma la possibilità nonideologica di una sua attuazione direi di no, è ancora sul terreno.
Intervenire all’estero, esportare la democrazia è un tema della destra o della sinistra?
L’idea della promozione della democrazia la si ritrova sia a destra sia a sinistra, e entrambi gli schieramenti sono divisi sul tema. Nei due fronti quest’idea ha una diversa genealogia. Credo sia improbabile, tuttavia, che il prossimo presidente degli Stati Uniti, chiunque egli sia, possa promuovere il concetto dell’esportazione della democrazia. Io spero che, se vorrà farlo, sia più abile del presidente Bush.
Oggi i “neocon” rappresentano una minoranza nel campo conservatore?
Tra gli intellettuali conservatori ci sono almeno 3-4 correnti di pensiero.
I neocon sono una minoranza, ma lo sono sempre stati. Il fatto curioso è che alle loro idee si sia ad un certo punto convertito Bush.
E il presidente da chi è più influenzato?
Non è chiaro. Mi pare che tutti qui stiano cambiando idea molto rapidamente.
Al momento non mi sembra più che il presidente venga influenzato dai neocon classici, come quelli che si muovono intorno alla rivista Weekly Standard, come William Kristol e Robert Kagan. Se avesse seguito i loro consigli, ad esempio, avrebbe licenziato da tempo il segretario alla difesa Donald Rumsfeld, e sarebbe stato saggio. Allo stesso tempo sta però mantenendo viva l’idea dell’esportazione della democrazia, che è un concetto nato presso i neocon. È difficile dire da chi sia oggi più influenzato Bush, lei mi chiede dei misteri della Casa Bianca, che a volte per me sono impenetrabili.
E i democratici hanno oggi un’alternativa forte, in materia, al pensiero dei conservatori?
No, non hanno un’alternativa forte. È iniziato un dibattito, sia tra i politici sia tra gli intellettuali vicini ai democratici, ma siamo solo all’inizio.
Alcuni mostrano tendenze isolazioniste, altri guardano alla guerra in Iraq con gli stessi occhi con cui si guardava una volta alla guerra del Vietnam, ma c’è in atto anche una forte rivalutazione di Harry Truman, che è succeduto al presidente Franklin Delano Roosevelt negli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale. Truman era un democratico che ha supervisionato l’occupazione dell’Italia, un uomo fortemente di sinistra che però era anche decisamente anticomunista.
Si avvertono delle differenze, sul tema dell’esportazione della democrazia, tra i probabili candidati democratici alla presidenza, tra Hillary Clinton e Al Gore, tra Howard Dean e Mark Warner?
Le differenze ci sono, ma non sono ancora state rese chiare. È uno dei segni della scarsa chiarezza che sta ancora dominando il dibattito tra i democratici.
È possibile esportare la democrazia nel Medio Oriente?
Penso di sì, ma gli sforzi condotti finora non sono stati condotti bene.
L’Islam non è un ostacolo alla democrazia, perché l’Islam, come il Cristianesimo, è come un’orchestra, i cui interpreti possono scegliere quali note suonare. Il cristianesimo può portare alla liberaldemocrazia e all’Inquisizione spagnola, e l’Islam può portare alla democrazia e ad al Qaeda.
Bisogna distinguere tra l’Islam e l’islamismo fondamentalista.
Come vede l’Europa? Si sta ponendo gli stessi interrogativi che si pongono gli intellettuali americani?
Sarebbe bene che l’Europa giocasse un ruolo più importante. Non nel senso che dovrebbe seguire di più gli Stati Uniti, ma che dovrebbe esportare i suoi propri valori. Vorrei che l’Europa fosse meno cinica e più idealistica, e che capisse che il fatto di aver esportato tante cose negative nei secoli non le impedisce di esportare oggi il meglio di sé.
Ultima domanda su Bush. Come sta affrontando la questione iraniana?
Mi sembra confuso, e se è confuso simpatizzo con lui.

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