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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Secolo XIX Rassegna Stampa
30.05.2006 Due opinioni su Abu Mazen
di Antonio Ferrari e David Bidussa

Testata:Corriere della Sera - Il Secolo XIX
Autore: Antonio Ferrari - David Bidussa
Titolo: «L'azzardo di Abu Mazen - Partita in due tempi. La questione palestinese»

Il CORRIERE della SERA di  martedì 30 maggio 2006 pubblica un'opinione di Antonio Ferrari sulla politica di Abu Mazen:

Non è mai stato un cuor di leone. Politico accorto, abile diplomatico, ma inutile parlargli di rischi da correre. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si era conquistato la fama di eminenza grigia, di abile tessitore e di duro negoziatore. L'azzardo lo lasciava agli altri, Non appartiene, e non apparterrà mai, al suo disciplinatissimo ordine mentale.
Però Abbas, forse per la prima volta nella sua vita, è stato costretto ad osare. Con la disperata e improbabile spavalderia di un giocatore di poker, che sull'ultimo piatto si gioca anche la propria sopravvivenza politica, ha lanciato il guanto: 10 giorni di tempo al governo di Hamas per rivedere le proprie posizioni, e accettare di fatto le tre condizioni che erano state poste sin dall'inizio ai vincitori delle elezioni (rinuncia alla violenza, accettazione degli accordi precedenti firmati dall'Anp e riconoscimento di Israele), altrimenti dopo 40 giorni verrà promosso un referendum. Che dovrà dire se il popolo palestinese accetta e condivide la linea del suo leader, oppure se continua a sostenere la rigidità dei suoi avversari.
E' sempre più evidente che il leader dell'Anp, che caratterialmente avrebbe fatto l'impossibile per scongiurare il ricatto politico, si trova con le spalle al muro: stretto fra le richieste di Israele e dell'intero mondo, che minacciano un boicottaggio devastante per i bisogni e la dignità di un popolo affamato di aiuti economici; prigioniero delle sfide che Hamas continua a lanciare, come quella di aver creato una propria polizia a Gaza, in uno scenario di continui scontri armati con l'opposizione laica; soprattutto incapace di riconquistare la perduta credibilità internazionale e l'autorevolezza del proprio ruolo.
Abbas ha quindi deciso di giocarsi tutto, con forti probabilità di prevalere. Primo, perché Hamas può essere costretto a cambiar subito registro, rendendosi conto che la propria ostinazione è in rotta di collisione con gli interessi del popolo palestinese. Secondo, perché il presidente continua a dire che, nonostante gli errori elettorali compiuti dal Fatah, la maggioranza numerica del suo popolo non ha votato Hamas. Il risultato del voto, pensa Abbas, è stato frutto della protesta e non di un'adesione ideologica, e fra coloro che hanno premiato gli estremisti islamici «ci sono già moltissimi pentiti».
Il rischio, quindi, potrebbe essere calcolato, se sono realistici gli ultimi sondaggi che raccontano del disappunto della maggioranza silenziosa, prostrata dai sacrifici economici, che la rigidità di Hamas ha imposto. Non solo. In caso di vittoria, il presidente potrebbe utilizzare un facile strumento di pressione sul governo di Ismail Hanije, agitando lo spauracchio di scioglierlo e di indire nuove elezioni.
Ma anche una sconfitta potrebbe essere salutare. Perché a quel punto il presidente potrebbe dimettersi, provocando una crisi pericolosa, con rischi di guerra civile, ma costringendo tutti a valutarne in anticipo le conseguenze. Oggi infatti, senza Abbas, l'Anp ha poche probabilità di sopravvivere.

Il SECOLO XIX pubblica sullo stesso tema  un'opinione di David Bidussa 

Mercoledì scorso, 24 maggio, Ehud Olmert, attuale Primo ministro di Israele, interviene a Washington alla tribuna del Congresso degli Stati Uniti e pronuncia un discorso in cui da una “fiducia a tempo limitato” ai governanti palestinesi. Il tema è la ripresa del negoziato, la riapertura possibile del percorso della Road Map. La proposta si presenta come alternativa a un possibile nuovo ritiro unilaterale di Israele che confermerebbe due cose: l’inesistenza di una classe politica palestinese; la chiusura definitiva della questione israelo-palestinese per assenza di uno dei due protagonisti. L’invito non è né generico, né senza destinatario. Olmert, infatti, si rivolge direttamente al Presidente Abu Mazen, scavalcando il governo in mano a Hamas. Il giorno dopo Abu Mazen gli replica chiedendo un referendum interno in tempi rapidi che dichiari: la ripresa dei negoziati; l’accettazione di tutto gli accordi precedenti sottoscritti con Israele, la proposta della costruzione dello Stato palestinese sui territori occupati nel 1967. In breve Abu Mazen chiede né più né meno la messa in mora di un governo che ha ottenuto la maggioranza assolta nelle elezioni del gennaio scorso, ma che ha anche trascinato i palestinesi in una sorta di vicolo cieco: sospesi tra gli aiuti economici e finanziari occidentali che non arrivano più e le offerte imbarazzanti di tutela politica da parte di del presidente iraniano Ahmadinejad. Soprattutto apre di fatto alla guerra civile politica sulla questione del destino futuro della Palestina. In Medio oriente si è riaperta una partita fondata su due tempi: il primo è un tempo politico il secondo è un tempo culturale. La loro velocità non è identica , anche se il loro obiettivo è comune. Tempo politico. Qualsiasi forma Stato moderna si costruisce in base a un conflitto interno. Nella stagione della seconda intifada abbiamo assistito alla dinamica della Guerra di liberazione, che sottintende l’accordo di tutte le forze in campo in nome di ciò che non si vuole più. Il passaggio odierno apre alla guerra civile. Il contenuto politico di questo secondo modello di conflitto è diverso dal primo: definisce che tipo di Stato si vuol costruire; la sua carta costituzionale; i modelli sociali e culturali cui si ispira. Può essere armato o di scontro tra milizie (ed è ciò che è accaduto più o meno negli ultimi tre mesi intorno a Gaza e a Ramallah), oppure può assumere i toni e le parole del confronto politico, ed è la partita che si è aperta una settimana fa (può anche svilupparsi mantenendo aperte tutte le due le modalità). Tempo culturale. Riguarda le forme della narrazione della propria storia, di quella attuale e di quella passata. Qualsiasi realtà nazionale sorge ai propri occhi raccontando la propria storia. Nel processo di costruzione dello Stato-nazione viene delegato alla storia un doppio compito: quello di raccontare il passato, e di fornire un’identità storica a se stessi. Raccontare il passato volendo ricavare da quel racconto ciò che si è, è un processo apparentemente naturale, ma gravido di conseguenze. Si riesce allora a fare i conti con la propria storia, anche con i passaggi più inquietanti e imbarazzanti se a quella storia è stato affidato il compito di raccontare chi si è? E non – come sarebbe meglio e anche più pacifico : “ciò che si è fatto?” Ovvero: “come mi sono comportato?” Oppure: “le decisioni che ho preso in un dato momento?” Nella storia del conflitto israelo-palestinese questo problema del rapporto con la storia non è banale. Riconoscere alla storia il compito di descrivere ciò che si è fatto e non delegare al racconto storico la propria identità significa poter accettare anche i soprusi fatti e non solo quelli subiti, le decisioni sbagliate e non solo le ingiustizie ricevute. Se il passato dice “chi si è” e non, invece, “che cosa hai fatto”, è difficile pensare alla chiusura definitiva di una condizione di conflitto.

Sullo stesso tema, per un parere maggiormante critico verso Abu Mazen, si veda l'articolo di Angelo Pezzana Si scrive Abu Mazen, ma si legge ancora Arafat ,  pubblicato da LIBERO e ripreso da Informazione Corretta.

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