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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
29.05.2006 Le parole di Benedetto XVI ad Auschwitz
opinioni a confronto

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica
Autore: Alessandra Farkas - Maurizio Molinari - Andrea Tarquini
Titolo: «Sulla Germania un pericoloso revisionismo - Foxman: sono perplesso e deluso - L'eroe del ghetto di Varsavia»

Sulle parole pronunciate da Benedetto XVI ad Auschwitz riportiamo, oltre a una sintesi del discorso del Pontefice, tre interviste che raccolgono  differenti pareri.

Alessandra Farkas del CORRIERE della SERA intervista lo storico Daniel Jonah Goldhagen:
  

 NEW YORK — «Sono molto deluso che Benedetto XVI non abbia sfruttato questa occasione storica per spingere la Chiesa a confrontarsi onestamente col proprio passato. Il presupposto per migliorare i rapporti tra cattolici ed ebrei, che è poi quello che tutti noi ci auspichiamo». Il discorso tenuto da Ratzinger nel lager di Auschwitz-Birkenau è accolto con amarezza e scetticismo da Daniel Jonah Goldhagen, lo storico americano di origine tedesca autore de I volonterosi carnefici di Hitler, che punta il dito contro la responsabilità collettiva del popolo tedesco nella tragedia dell'Olocausto. «Mi sembra grave che il Pontefice abbia ridotto le responsabilità del nazismo ad un gruppo di facinorosi», spiega al Corriere Goldhagen.
«Presentare il popolo tedesco come lo strumento involontario e inconsapevole nelle mani del Terzo Reich è un resoconto falso e mitologico della storia. Il suo scopo revisionistico mi preoccupa».
Cosa intende dire?
«Che i documenti e gli archivi a disposizione degli storici hanno già dimostrato la verità. E cioè che la stragrande maggioranza del popolo tedesco appoggiò la persecuzione degli ebrei e la maggior parte dei carnefici tedeschi erano gente qualsiasi che ha consapevolmente scelto di sterminare gli ebrei».
Che dire allora dei tanti tedeschi morti ad Auschwitz e onorati ieri come «i testimoni della verità e del bene che anche nel popolo tedesco non erano tramontati»?
«Dire che durante il nazismo non sono mancati i tedeschi buoni non mi infastidisce affatto perché è un asserzione esatta. Ciò che trovo problematico è il contesto in cui viene pronunciata. Ma l'aspetto più grave dell'intervento del Papa è un altro».
Quale?
«Non ha mai menzionato il ruolo della Chiesa cattolica e della cristianità nell'Olocausto. Un inammissibile passo indietro di quasi un decennio rispetto allo storico documento vaticano "Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah", dove nel '98 Giovanni Paolo II ebbe per la prima volta il coraggio di chiedere scusa per il ruolo esercitato dalla Chiesa e dal gregge cristiano nella persecuzione del popolo ebraico».
Forse Benedetto XVI non ha ritenuto opportuno tornare su un tema già chiarito dal suo predecessore.
«È assurdo. Egli si sofferma solo sul tema del silenzio divino davanti al Male — "Perché Signore hai taciuto?
Perché hai potuto tollerare tutto questo?" — senza mai porsi domande quali "Perché la Chiesa non ha aiutato gli ebrei?", "Dov'era il Vaticano quando un intero popolo stava scomparendo nei forni crematori?"».
Il suo discorso è pur sempre improntato al tema del perdono e della riconciliazione.
«Il problema è che non vi può essere riconciliazione senza una riflessione storica accurata ed onesta. E come si fa a chiedere perdono, dimenticando di menzionare uno dei peccati principali, ovvero la trasgressione della Chiesa?».

Maurizio Molinari per La STAMPA intervista Abraham Foxman, presidente dell'Anti Defamation League:

«E' importante e simbolico che Papa Benedetto XVI sia andato ad Auschwitz ma mi aspettavo un discorso differente». Di fronte alle parole pronunciate dal Papa Abraham Foxman, presidente della Anti-Defamation League e da anni impegnato nel dialogo fra mondo ebraico e Chiesa cattolica, prevale la perplessità.
Che cosa l'ha colpita di più nel discorso di Benedetto XVI?
«Quando ha detto che con la distruzione di Israele i nazisti "volevano in fin dei conti strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana". E' un'affermazione che non condivido perché se Hitler ha certamente ucciso i cristiani ed era nemico di tutte le religioni in realtà chi voleva sterminare erano gli ebrei. Auschwitz è il più grande cimitero ebraico del mondo ma il discorso del Papa sembra voler universalizzare quanto vi avvenne. Mi aspettavo un approccio diverso, anche per quanto riguarda le citazioni...».
A cosa fa riferimento?
«Al fatto che il Papa ha citato all'inizio del discorso Massimiliano Kolbe, un noto antisemita, e poco più avanti Edith Stein un'ebrea deportata in quanto tale, morta ad Auschwitz e fatta santa dalla Chiesa poiché si era convertita al cristianesimo. Non sono i nomi migliori da ricordare ad Auschwitz».
Il Papa ha ricordato anche i tre milioni di polacchi che furono uccisi dai nazisti...
«La Polonia è il luogo della tragedia cristiana avvenuta per mano dei nazisti, Auschwitz è il luogo dove venivano annientati gli ebrei di tutta Europa, gasati e ridotti in cenere. Il Papa ha fatto più soste durante il viaggio in Polonia ed era quello il momento per ricordare le terribili sofferenze inflitte dai tedeschi alla popolazione civile. Auschwitz rappresenta l'unicità dello sterminio del popolo ebraico da parte della Germania nazista. E' una questione che ha a che vedere con il rispetto della Storia».
Condivide quanto detto dal Papa sull'assenza di Dio?
«E' una questione complessa. Mi ricordo che dopo la fine della guerra dissi a mio padre, sopravvissuto allo sterminio, perché Dio aveva permesso Auschwitz e lui mi rispose che Auschwitz era stato fatto dagli uomini, non da Dio. A suo modo di vedere l'intervento di Dio, il miracolo avvenuto, era dimostrato dal fatto che lui, come altri, erano riusciti a sopravvivere alla Shoah. Io sopravvissi perché mi credevano cattolico, mio padre sopravvisse nascondendosi. Ma vi furono dei sopravvissuti. Il popolo ebraico non fu sterminato, il disegno malefico di Hitler fallì. Dio è sempre ovunque. Ad Auschwitz intervenne consentendo ad alcuni di salvarsi. Fu invece l'intervento degli uomini a portare il Male, a causare il genocidio».
Ed il riferimento diretto che il Papa ha fatto alla Shoah?
«La visita di per sé è stata importante, soprattutto perché il Papa ha scelto di andare ad Auschwitz nel primo viaggio in Polonia. Ma aver citato Kolbe ed Edith Stein come aver avvalorato la tesi dell'universalizzazione di Auschwitz conferma che sulla Shoah resta una nube nel rapporto fra Chiesa ed ebrei».
Da che cosa dipende questa nube?
«Dal fatto che continua ad essere difficile dire a chiare lettere che Hitler voleva sterminare gli ebrei, uno ad uno, solo in quanto tali e creò a tal fine un sistema industriale di morte senza precedenti nella storia dell'umanità. Questo sistema è rappresentato da Auschwitz. Disturba dunque sentirne parlare come un luogo dove Hitler voleva colpire le radici della fede del cristianesimo».
Insomma, si aspettava qualcosa di diverso dal Papa?
«Sì, mi aspettavo un discoso differente ad Auschwitz. E mi aspettavo anche che durante la sosta nella città di Varsavia andasse a rendere omaggio ai combattenti della rivolta del Ghetto. La sosta era prevista dal programma iniziale ma poi è stata cancellata e le motivazioni non sono state ancora rese note».

Andrea Tarquini sulla REPUBBLICA intervista Marek Edelman, comandante dell'insurrezione del ghetto di Varsavia.
Ecco il testo:


AUSCHWITZ - «È stato un discorso di grande forza sentimentale ed emotiva. Il Papa è venuto ad Auschwitz, e là sulla terra ancora bagnata dal sangue dei morti ha detto che Dio allora non era là. Che cosa doveva dire di più? Quando io affrontavo i nazisti in armi al Ghetto di Varsavia, a Roma Pio XII taceva. E oggi vedo il Papa tedesco svegliare le emozioni ad Auschwitz».
Marek Edelman, il vecchio partigiano ebraico che guidò l´eroica insurrezione del Ghetto di Varsavia contro la Wehrmacht, non condivide le critiche al discorso di Benedetto XVI. Non vuole avallarle.
Come le sono apparse le parole del Pontefice? Non ritiene che avrebbe potuto o dovuto dire qualcosa di più?
«Io mi pongo l´interrogativo, ma rispondo con una domanda: cos´altro poteva dire? La massima voce dei cattolici ha detto che Dio non era là. Questo è più che abbastanza. Ed è stato, con una scelta giusta, un discorso carico di sentimenti e di emozioni, con un omaggio a tutti i morti».
Non le sembra che parlare così estesamente di tutti i morti apra il rischio di minimizzare l´unicità della tragedia dell´Olocausto subìta dal popolo ebraico?
«No, io proprio pensando all´unicità dell´Olocausto dico che è giusto parlare anche degli altri morti, ricordare tutti gli esseri umani assassinati là allora insieme agli ebrei. Tutte vittime innocenti dell´orrore nazista».
Il Papa però ha detto che allora in Germania il potere era caduto in mano a una banda di criminali. Non c´è il pericolo in tal modo di minimizzare responsabilità e colpe dei tedeschi?
«Difficile interpretare ogni parola. Però, certo, tutto fa pensare, da tempo, che il popolo tedesco sapesse. E che nella sua stragrande maggioranza era molto felice sotto Hitler. D´altra parte è anche verissimo: il potere era in mano a una banda di criminali. Ma bisogna aggiungere che migliaia e migliaia di persone aiutarono i criminali».
Perché papa Ratzinger non ha parlato della Shoah come male assoluto?
«Al tempo. Ha usato il termine Shoah. E comunque ha detto che Auschwitz fu il Male. Che ad Auschwitz Dio non c´era e fu violato, come fu violato l´uomo. Anche in questo senso non doveva dire di più. Evocare sentimenti ed emozioni è l´essenziale, è la scelta giusta, ad Auschwitz e per tenere vivo Auschwitz nella memoria del mondo. Lo ha fatto poi, con la sua presenza, scegliendo di andarvi».
Perché è il Papa venuto dalla Germania?
«Ai miei occhi, Benedetto XVI ad Auschwitz non è un tedesco, è il papa, è il capo della Chiesa. E´ anche un tedesco, certo. Lo ha ricordato egli stesso, dicendo implicitamente a suo modo che è giusto guardarlo in quel momento e in quel luogo come un figlio della Germania. E´ importante. Insisto: queste scelte, e il discorso, sono una eccezionale sequenza di emozioni per la Memoria di oggi».
E´ un passo sufficiente per il dialogo ebrei-cristiani ed ebrei-tedeschi o no?
«Vedremo se avrà un grande ruolo o invece no. Comunque lui ha detto più volte, questa domenica e in tutti questi giorni, che il dialogo è irrinunciabile».
Ma ad Auschwitz non ha usato la parola "antisemitismo".
«Auschwitz non è stato solo l´antisemitismo. E´ stato il genocidio. L´assenza silenziosa di ogni idea di un Dio, appunto. Ricordiamoci a raffronto il momento terribile del silenzio di Pio XII. Da allora, da papa Giovanni in poi, con Wojtyla, ora anche con Ratzinger, la Chiesa ha saputo capire e mostrare di aver capito».
Poche ore prima, il rabbino capo di Polonia veniva aggredito in strada a Varsavia. Quanto è pericoloso l´antisemitismo oggi?
«Sono gruppi aggressivi, ma piccoli. Non bisogna lasciarsi spaventare. Bisogna rispondere loro fermi, ma calmi. Io sono certo che non hanno l´appoggio della società: non sono al potere come Hitler e non ispirano felicità e voglia di obbedienza. L´antisemitismo è uno strumento politico usato da circoli nazionalisti. Nemici non solo degli ebrei, ma della Polonia e dell´Europa, dell´idea moderna di mondo civile. Sono certo che cambierà, andrà bene».
Che effetto avrà la visita del Papa ad Auschwitz sul teso clima polacco, con rigurgiti antisemiti, nazionalisti, antieuropei?
«Credo che in Polonia dopo la visita del Papa più gente saprà capire. La Polonia resta divisa, la Chiesa resterà magari divisa. Ma adesso la Chiesa e i cattolici sono chiamati più di ieri a scegliere, a schierarsi col Papa tedesco venuto ad Auschwitz a evocare le emozioni e i sentimenti».

Di seguito, il discorso di papa Ratzinger riportato dal CORRIERE della SERA:

Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile - ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio - un silenzio che è un interiore grido verso Dio: perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.
Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II. Egli disse allora: «Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui... Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro dello sterminio e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa». Papa Giovanni Paolo II stava qui come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: «Sono sei milioni di polacchi, che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione», ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell'uomo e delle nazioni. (...).
Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco. Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco - figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il nostro popolo potè essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come arcivescovo di Monaco-Frisinga tra i tanti vescovi che accompagnavano il Papa, che lo ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo luogo di orrore con una delegazione di vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione - da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest'ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell'odio e sotto la violenza fomentata dall'odio.
Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come potè tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell'Israele sofferente: «...Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose... Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!» ( Sal 44,20.23-27). Questo grido d'angoscia che l'Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia è al contempo il grido d'aiuto di tutti coloro che nel corso della storia - ieri, oggi e domani - soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.
Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio - vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l'uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No - in definitiva, dobbiamo rimanere con l'umile ma insistente grido verso Dio: svegliati! Non dimenticare la tua creatura, l'uomo! (...) Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza. (...) Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria che nello stesso tempo è luogo della Shoah. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo (...). Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come persone, nelle quali rifulge l'immagine di Dio. Alcune lapidi invitano a una commemorazione particolare. C'è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: «Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all'uomo - a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo.
Con la distruzione di Israele, con la Shoah, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte. C'è poi la lapide in lingua polacca. In una prima fase e innanzitutto si voleva eliminare l'élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava a esistere, a un popolo di schiavi. Un'altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo agli altri popoli. (...) Poi c'è la lapide in russo che evoca l'immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione: liberando i popoli da una dittatura, dovevano servire anche a sottomettere gli stessi popoli a una nuova dittatura, quella di Stalin e dell'ideologia comunista. (...) Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell'orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista. (...). I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation - come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. (...)

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