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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Europa Rassegna Stampa
17.05.2006 Come sarà la politica estera del governo Prodi?
se lo chiedono Massimo Teodori e Antonio Polito

Testata:Il Giornale - Europa
Autore: Massimo Teodori - Antonio Polito
Titolo: «Segnali di pericolo per Usa e Israele - Quello che l’America ci chiede»

Il rischio che la sinistra radicale, antiamericana, antisraeliana e anche antisemita in alcune sue epressioni, condizioni la politica estera del governo dell'Unione é al centro dell'editoriale di Massimo Teodori pubblicato dal GIORNALE di mercoledì 17 maggio 2006:
  
Qual è il peso sull'alleanza prodiana delle forze antagoniste con spiccato spirito antiisraeliano e antiamericano? Non promettono nulla di buono i pregiudizi ripetutamente espressi contro la nazione guida dell'Alleanza atlantica e contro lo Stato d'Israele simbolo di democrazia assediata. Se i massimalisti si insediassero al governo, provocherebbero inevitabilmente l'allontanamento dell'Italia dalla comunità occidentale. A giudicare da alcune dichiarazioni comuniste, se ne deduce che l'antiisraelismo e l'antiamericanismo non solo hanno un peso nel governo, ma potrebbero in alcuni casi risultare decisivi. Oliviero Diliberto, già distintosi per avere imputato al presidente degli Stati Uniti «mani grondanti di sangue», ha aggravato il suo tic ponendo il veto a Emma Bonino come ministro della Difesa. A suo parere l'esponente radicale, nota nel mondo per le missioni di pace e la difesa dei diritti umani, sarebbe la candidata delle «potenti lobby filoamericane», che effettuerebbero pressioni a favore di una donna che è «favorevole alla guerra e contraria al processo di pace israelo-palestinese». Tanta è la volgarità di tale fantasticheria che non merita alcun commento. Non si deve invece sottovalutare l'ipotesi che, se il veto comunista dovesse funzionare, ci si troverebbe di fronte a un governo prigioniero dei laudatores del dittatore cubano, tanto da proporre come ministro il castrista Gianni Minà. E non ci si potrebbe neppure meravigliare se in economia fosse battuta una strada simile con il rigetto demagogico della riforma voluta dal giurista Marco Biagi, assassinato nel 2002 dai terroristi rossi. Ancora più gravi sono i segni di antiisraelismo di Rifondazione comunista, indice di una cultura politica che non è cancellata dalla presa di distanza diplomatica di Fausto Bertinotti. Ancora una volta si dimostra che il pregiudizio antiamericano e l'ostilità antiisraeliana vanno di pari passo: l'uno e l'altra sono il frutto delle stesse ideologie sconfitte nel XX secolo che pretendevano di abbattere i pilastri dell'Occidente, la democrazia politica, le libertà individuali e il libero mercato, per instaurare regimi politici diversi, più o meno ispirati al comunismo. La vignetta apparsa sul quotidiano comunista che raffigura il muro di sicurezza israeliano come se fosse un lager nazista è stata giudicata dal presidente delle comunità israelitiche italiane, Claudio Morpurgo, come l'espressione di «schemi antiisraeliani e profondamente antiebraici», ed è stata bollata perfino dal deputato diessino Emanuele Fiano come «il più classico topos antisemita» che identifica nello Stato di Israele il nuovo nazismo. D'altronde Rifondazione comunista non è nuova nei sentimenti antiisraeliani che pretendono di essere antisionisti ma in realtà rivelano un sotterraneo antisemitismo. Il professor Alberto Asor Rosa, indicato come ministro dell'università, quindi presunta espressione di valori culturali alti nel governo prodiano, è stato giudicato dalle comunità ebraiche come un cantore dell'antisemitismo avendo scritto di «razza ebraica», una «razza perseguitata che era divenuta razza guerriera e persecutrice quello che gli ebrei avevano patito dai nazisti». Queste sono alcune delle minacce che incombono sul governo Prodi. Il quale, se accettasse il veto alla Bonino alla Difesa e scegliesse personalità accusate di antisemitismo, sarebbe segnato dal più vieto antioccidentalismo che annullerebbe qualsiasi proposizione espressa dagli esponenti più responsabili della Quercia e della Margherita.

Antonio Polito su EUROPA redige invece un acatalogo di buone intenzioni sul fronte della politica internazionale. Speriamo prevalga la sinistra che sa scegliere tra libertà e fondamentalismo islamico e tra terrorismo e democrazie che si difendono.
Ecco il testo:

Non credo di fare un torto a nessuno se rivelo una notizia appresa in un incontro riservato. Qualche giorno fa, poche ore prima dell’elezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della repubblica, l’ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, ha incontrato il ministro degli esteri uscente Gianfranco Fini e gli ha chiesto informazioni sul candidato al Quirinale. «He’s a good friend of the United States», ha risposto Fini. Il che, se da un lato fa onore al senso delle istituzioni del leader di An (right or wrong, my country), dall’altro testimonia dell’ansia dell’amministrazione Bush di sapere se, con la nuova squadra romana, si può continuare ad avere rapporti “business as usual”.
La signora Rice ha inviato a Roma nei giorni scorsi il principale dei suoi assistenti, Kurt Volker, proprio per sondare il terreno.
E l’impressione che ne ha ricavato, per sua stessa ammissione, è buona. Il cambio di governo in Italia non sarà traumatico per i rapporti con gli Usa come lo fu in Spagna, sia per ragioni temporali (allora infuriava lo scontro con l’Europa con l’Iraq, oggi l’amministrazione Bush collabora con l’Europa sull’Iran), sia perché il governo Prodi non sarà il governo Zapatero. Washington ci osserva con attenzione ma non ci considera una capitale destinata a diventare ostile. Il che è, ovviamente, un bene. Il centrosinistra non dovrà vivere nell’ossessione tutta provinciale di ingraziarsi l’amministrazione americana (anche perché se il governo Prodi durerà una legislatura, di amministrazioni americane ne vedrà due diverse); ma deve severamente proibirsi la tentazione, coltivata ai margini della coalizione, di rivelarsi programmaticamente antiamericano.
Non c’è niente che serva alla stabilità e alla pace nel mondo che si possa fare senza o contro gli States, e giocare allo zapaterismo vuol dire condannarsi all’irrilevanza.
Status che l’Italia non si può permettere, visto il numero di truppe impegnate in operazioni di peacekeeping nel mondo. Una nazione degna di questo nome, d’altronde, mantiene le sue alleanze e i suoi impegni internazionali anche con il cambiare dei governi, e il nuovo governo costruisce la sua nuova politica sul lavoro fatto dal governo precedente, che per molti aspetti in politica estera va apprezzato.
Che cosa vogliono gli americani da noi? Sostanzialmente questo: continuità.
Continuare a considerare l’Italia un alleato leale, anche se decidesse di essere un po’ più franco.
Questa partnership è possibile. Almeno sui diversi dossier internazionali che oggi sono sul tavolo delle diplomazie.
Partiamo dall’Iraq. Washington conosce gli impegni elettorali presi dal governo Prodi, e sa che non sono molto dissimili da quelli presi dal governo uscente. Trasformazione della missione militare in missione civile, e dunque disimpegno delle nostre truppe dal teatro del sud Iraq nei modi concordati con le autorità civili irachene. Questo schema non ha il carattere di un abbandono dell’Iraq, né configura un colpo agli sforzi delle forze democratiche irachene di stabilizzare la situazione, combattere il terrorismo e dare vita a istituzioni riconosciute da tutte le componenti della società. Saranno il ministro della difesa e i generali a decidere il come, una volta presa la decisione politica. Si pone però qui un complesso problema messo in luce di recente da Franco Venturini sul Corriere: bisogna sapere che per tenere dei civili sul posto, impegnati nell’opera di ricostruzione materiale e civile del paese, ci vorrà una qualche forma di protezione armata.
Il caso Iran. Gli Stati Uniti sono consapevoli che non è nell’interesse della comunità internazionale tenere l’Italia fuori dagli sforzi congiunti di pressione diplomatica su Teheran. I nostri rapporti commerciali con il regime degli ayatollah sono particolarmente intensi, tra i più intensi in Europa, e dunque abbiamo abbastanza carota da usare per evitare che si usi il bastone. Oggi Roma è fuori dal gruppo (i Cinque grandi più la Germania) che tratta il dossier iraniano. C’è la determinazione americana a farci entrare nella partita, probabilmente coinvolgendo il G8 di cui siamo parte. Per quanto ci riguarda, al momento c’è una sola linea da tenere: impedire che l’Iran si doti di armamenti nucleari con tutte le armi della diplomazia disponibili, e tentare di resuscitare in questa crisi l’autorità del Consiglio di sicurezza dell’Onu defunta durante la crisi dell’Iraq. Il nucleare iraniano completerebbe un arco del terrore atomico che si estende dal Mediterraneo all’Oceano Indiano, aggravando i rischi di con- fitto nel Medio Oriente e consegnando per la prima volta nelle mani di una teocrazia il potere della morte nucleare. Gli americani sono i primi a ribellarsi quando il discorso scivola sull’ipotesi dell’uso della forza, che non è sul tavolo. Ma una risoluzione dell’Onu è necessaria, e deve far riferimento al capitolo 7 della Carta dell’Onu.Èdunque inutile per i nostri parlamentari firmare generici appelli del Foglio alla mobilitazione, e sarebbe meglio invece concentrarsi su quale sarà la nostra azione se e quando saremo associati (anche nel Consiglio di sicurezza) alla gestione della crisi. Non vorrei che si ripetesse quello che accadde negli anni ’80, quando fummo finalmente accolti dopo molti sforzi nel supersegreto gruppo Quint all’interno della Nato e ai nostri diplomatici che chiedevano «e ora che facciamo? », si rispose «state con la maggioranza».
Poi c’è il Medio Oriente. Qui gli americani chiedono una sola cosa. Di non rompere o indebolire il fronte comune di Stati Uniti ed Europa per isolare Hamas e costringerla a riconoscere il diritto all’esistenza dello stato di Israele e gli accordi sottoscritti dall’Autorità palestinese. Meglio evitare visite sgradite di esponenti di Hamas in Italia, e stare attenti anche alle telefonate. Quella di congratulazioni a Prodi dopo le elezioni ha suscitato una certa apprensione a Washington. La comunità internazionale è dalla parte giusta, e non avrebbe senso vacillare. Rutelli ha promesso che il nuovo governo italiano sarà amico di Israele quanto lo era il precedente.
Amicizia e collaborazione intensa che anche Romano Prodi ha garantito, alla celebrazione dell’anniversario della fondazione dello stato di Israele, e di cui lo stesso Berlusconi si è dichiarato certo. Non è solo opportuno, è giusto; perché il governo di Gerusalemme, presieduto da Olmert, è oggi concentrato sul progetto di Kadima e del suo fondatore Sharon per una soluzione stabile del conflitto attraverso la soluzione “due popoli, due stati”. Anzi, meglio: due popoli, due democrazie.
Ecco, la democrazia, l’ultimo punto. La spinta per l’espansione della democrazia nel mondo, anche come antidoto alla diffusione del terrorismo, della tirannia e della proliferazione degli armamenti, è forse l’eredità di Bush che sopravviverà alla sua amministrazione.
E per fortuna, perché di tutto il mondo ha bisogno oggi tranne che di un’America isolazionista e indifferente ai rischi per la sicurezza globale. L’Italia, e in particolare il centrosinistra italiano, ha molto da dire e da fare per rifondare una nuova politica estera, che sostituisca alla pessima idea che un cattivo tiranno può essere un buon alleato, l’ottima idea che dove c’è tirannide non ci può essere alleanza. E questo vale da Mosca all’Avana


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