Una cronaca pubblicata dal CORRIERE della SERA di martedì 16 maggio 2006 sugli sviluppi della polemica suscitata dalla vignetta di Enzo Apicella che su LIBERAZIONE ha paragonato Israele al nazismo.
Ecco il testo:
ROMA — Diventa il primo banco di prova del nuovo Bertinotti istituzionale la vignetta pubblicata venerdì da Liberazione,
che ha suscitato l'indignazione della comunità ebraica italiana, dell'ambasciatore israeliano, della sezione Italia dell'Anti Defamation League e della stampa israeliana («Antisemitismo oltraggioso», titolava Yediot Ahronot).
Il neopresidente della Camera infatti domenica era stato chiamato in causa dalla comunità ebraicamilanese in qualità di alto esponente di Rifondazione comunista, di cui Liberazione
è organo ufficiale. Un intervento richiesto per cancellare l'«offesa» causata da un disegno che, con presunti intenti satirici, mostrava accanto al muro di difesa antiterrorismo che segna parte dei confini tra Israele e Cisgiordania un cancello come quello di Auschwitz con una scritta «aggiornata»: «La fame rende liberi».
«FORZATURA» — Così ieri Fausto Bertinotti, pur giudicando «una forzatura» la sollecitazione a pronunciarsi, ha diramato una nota: «Non ho alcuna difficoltà a confermare un atteggiamento già avuto in altre occasioni simili. Penso che, in tempi difficili come quelli che viviamo per la convivenza tra le diverse culture e religioni, siano da evitare tutte le manifestazioni, comprese quelle satiriche, che vengono vissute come offensive dalle comunità cui si riferiscono.
La reciproca accettazione di un limite imposto dall'esigenza di rispetto di storie e fedi, in questo caso quella ebraica, che fanno parte dell'intero patrimonio dell'umanità, è un bene comune che va tutelato».
«DISPREZZO» — Qualcosa che somiglia a una presa di distanza e per questo viene letta dal direttore del quotidiano del Prc, Piero Sansonetti, come «una garbata critica a Liberazione,
così come a volte Liberazione critica garbatamente Bertinotti». Però a Sansonetti l'ambasciatore israeliano Ehud Gol ha chiesto scuse formali per la pubblicazione di una vignetta «vergognosa e antisemita» che dimostra «disprezzo per la Shoah e un terribile oltraggio alla memoria delle vittime». In un primo tempo il quotidiano ha annunciato per oggi un articolo esplicativo in prima pagina: «Il riferimento era all'emergenza umanitaria in Palestina provocata da varie cause, tra le quali principalmente la decisione dell'Europa di tagliare i fondi ai palestinesi, ma anche le politiche del governo israeliano. La vignetta era molto dura, choccante, può avere colpito e ferito alcune sensibilità, per via dell'accostamento alla barbarie nazista. Certamente però non era antisemita. Era drammaticamente filo-palestinese». Ma dopo rinnovate richieste di scuse arrivate anche dalla Anti Defamation League italiana, Sansonetti ha risposto così: «Se l'uso, in una vignetta, dell'immagine atroce dei campi di sterminio hitleriani ha offeso la Sua sensibilità o la memoria delle vittime della Shoah, questo mi dispiace davvero, e per questo senz'altro posso scusarmi».
Il RIFORMISTA pubblica in prima pagina e a pagina 7 un'analisi di Emanuele Ottolenghi sull'antisemitismo della vignetta.
Ecco il testo:
La vignetta apparsa venerdì scorso su Liberazione era o non era
un esempio di antisemitismo? Per giudicare in merito occorre stabilire
se la natura dell’immagine riflette un pregiudizio e se l’immagine
può causare ostilità nei confronti degli ebrei anche non necessariamente
essendo di per sé antisemita. Non basta dimostrare l’ostilità
di un’immagine - in questo caso ovvia - per dedurre che si
tratta di antisemitismo. Di certo la stampa non è favorevole a
Israele, non tutta almeno e certamente non sempre.Ma si può accusare
la stampa in tutta l’Europa in maniera sistematica e indistinta
di far torto alla verità? E anche se questo fosse possibile, come
si dimostra che è la stampa a causare, nel suo raccontare ostile le
vicende che coinvolgono Israele, a provocare un rigurgito d’odio
contro gli ebrei? Anche se il torto alla verità è dimostrabile, esso
dovrebbe generare un sentimento di ostilità per Israele, ma non
necessariamente per gli ebrei. Posto che tale torto si verifica e sia
empiricamente verificabile, come si spiega poi la transizione da
odio per Israele a odio per gli ebrei? E anche se questo meccanismo
avviene, è verificabile e può essere dimostrato, si tratta di antisemitismo,
o di altro? Come dimostrano le statistiche disponibili
per vari paesi d’Europa, la maggior parte degli incidenti contro
ebrei, comunità e istituzioni, proprietà e interessi ebraici avvengono
in relazione al conflitto in corso in Medio Oriente, in parte sollecitati
dal reportage mediatico degli eventi. Ma se esiste una correlazione
causale tra eventi e attacchi, non sempre essa avviene
perché il modo di raccontare le notizie incoraggia o quanto meno
indirettamente favorisce il risorgere del pregiudizio.Tuttavia le notizie
creano un clima ostile all’interno del quale si verifica regolarmente
un aumento di aggressioni e attacchi contro gli ebrei. Va subito detto allora, chiaramente e senza equivoci o ambiguità, che il problema non è la critica di Israele,delle politiche che questo o quel governo israeliano adottano di tanto in tanto, della saggezza, opportunità,tempismo,lungimiranza di ogni azione intrapresa dall’esecutivo israeliano, dai suoi rappresentanti in Israele e all’estero,dai suoi militari, giudici, sindaci, amministratori e uomini di fede, quando agiscono nell’adempimento delle loro funzioni o come singoli individui. Sul merito si può e si deve criticare, come del resto si fa in altri paesi. L’oggetto delle accuse di antisemitismo non è il criticare in sé e per sé,ma il modo,e i contenuti quindi, con cui certe critiche sono formulate. E su questo è opportuno parlare e riconoscere che a volte la critica a Israele subisce una metamorfosi e si trasforma in antisemitismo perché certe critiche sono basate su distorsioni della verità che mirano a delegittimare e demonizzare Israele, adottando due pesi e due misure nel caso dello Stato ebraico.E perché in questi casi, di solito, nella critica fanno capolino vecchi stereotipi, pregiudizi,immagini feroci e vecchi adagio dell’antisemitismo di sempre che tradiscono la vera natura del testo e del linguaggio usato: non criticare,ma distruggere.La domanda da porsi dunque, nel caso della vignetta di Liberazione,non è se Israele merita di essere criticato, ma entro quali confini retorici e linguistici (e nel caso delle vignette,semiotici) si possono muovere le critiche. Nessuno si sognerebbe, per esempio, di ricorrere al linguaggio e alle teorie del razzismo scientifico per criticare la politica di Robert Mugabe, dittatore dello Zimbabwe, o di qualsiasi altro stato,governo e leader africani. Le critiche sul merito sono legittime, anche quando sono dure e anche se sono fuori luogo. Ognuno ha diritto di dire la sua. Ma certo linguaggio e certe immagini, specie se storicamente legate a un’esperienza di persecuzione e discriminazione, non dovrebbero trovare spazio sulle pagine dei quotidiani dietro la scusa della libertà d’opinione, anche quando nella satira si accetta che ci si possa spingere più in là di quanto si farebbe in un commento. Nel caso dell’antisemitismo, commentatori e vignettisti dovrebbero prender coscienza del fatto che esiste una correlazione tra il ciclo di notizie provenienti dal Medio Oriente e i fenomeni di antisemitismo, e che tutte le statistiche disponibili lo confermano.La correlazione appare in maniera troppo frequente e consistente per essere semplicemente casuale: un’atmosfera particolarmente critica e ostile nei confronti di Israele favorisce evidentemente l’emergere, tra le critiche, di alcuni esempi di manifesto antisemitismo.Quando stampa e immagini sconfinano oltre la critica legittima, esse forniscono un mandato linguistico per il risorgere del pregiudizio, specie nella misura in cui essi poggiano su un sostrato normativo riguardante il conflitto che mette in dubbio la legittimità dello Stato d’Israele e attribuisce spesso sinistri motivi a certe sue azioni.L’effetto cumulativo del clima negativo si salda, a un certo punto, con i meccanismi di delegittimazione e demonizzazione d’Israele e con l’uso a volte spregiudicato di temi tipici dell’antisemitismo nel linguaggio utilizzato. E’ in questo modo, che non è né semplice né lineare,che i due fenomeni si congiungono. Il caso della vignetta di Liberazione richiede quindi una sincera riflessione a sinistra,specie ora che la sinistra si prepara a governare l’Italia per i prossimi cinque anni. Criticare va bene, ma occorre farlo con responsabilità. La vignetta di venerdì scorso era semplicemente irresponsabile. Il paragone tra Israele e Germania nazista non solo serve a demonizzare Israele, distorcendo la realtà in maniera grottesca. Per quanto grave possa essere la situazione dei palestinesi,il paragone tra la loro condizione attuale e i campi di sterminio finisce anche con il banalizzare l’Olocausto perché suggerisce un’analogia tra due esperienze assolutamente diverse - quella di Auschwitz, dove 30.000 ebrei al giorno vennero trucidati e quella dei territori occupati, dove in quasi sei anni di conflitto - conflitto, non prigionia sadica e sterminio sistematico - sono morti più di tremila palestinesi e più di mille israeliani. La gravità di quel conflitto e le simpatie che si provano per gli uni e per gli altri non devono mai condurre a iperboliche raffigurazioni che non solo fanno torto al presente, ma commettono una terribile ingiustizia contro la storia. La demonizzazione d’Israele offre il mandato linguistico per la sua distruzione e per l’odio aperto contro gli ebrei della Diaspora: se Israele è il male, chi lo sostiene, difende o quanto meno tace rifiutandosi di schierarvisi contro, allora è malvagio anch’egli. Questa, in ultima analisi,è la ferrea logica della vignetta di Liberazione;questo il motivo per cui le critiche sono appropriate, ed è per questo motivo che il rifiuto di certi di prendere le critiche sul serio mostrano come a sinistra a volte si incontri un serio problema di intolleranza e indifferenza nei confronti dell’antisemitismo. Bisogna sperare che il neo-premier, quando avrà formato il governo, trovi il tempo per inaugurare una riflessione su questi temi perché essi sono in ultima analisi la cartina di tornasole della sinistra,se essa è veramente una forza riformista pronta a farsi leader di un grande paese occidentale, o se invece le tentazioni terzomondiste e intolleranti di cui la vignetta è espressione avranno la meglio.
Alla crescente tolleranza dell'Europa verso l'antisemitismo é dedicato un articolo di Giorgio Israel pubblicato dal Foglio:
Il presidente iraniano Ahmadinejad è un politico ideologo, la specie più pericolosa. Sembra che nella lettera al presidente Bush abbia parlato soprattutto del ruolo della religione nel mondo contemporaneo. “Il liberalismo e la democrazia occidentale non sono serviti a realizzare gli ideali dell’umanità. Oggi queste due dottrine hanno fallito. I più perspicaci riescono già a sentire il suono del frantumarsi e crollare dell’ideologia e delle idee dei sistemi democratici liberali. Signor presidente, che ci piaccia o no, il mondo gravita intorno alla fede”. Naturalmente, Ahmadinejad pensa che l’islam, il suo islam, riempirà il vuoto che quel crollo sta aprendo nel mondo: chi altro può esserne capace? Ma, se ci è consentita un po’ di libera esegesi, forse egli non è tanto sicuro di sé. Infatti, perché scrive a Bush? Forse perché, più di altri, è capace di resistere. Forse Ahmadinejad percepisce che il crollo è più difficile dove il sistema democratico liberale è sorretto da una visione etica e morale – che sia religiosa (come la intende lui) o secolare. Lui non si rivolge all’Europa, perché ha capito benissimo che l’Europa è ormai vicina al crollo. La nostra libera esegesi non si spinge al punto di accreditare al presidente iraniano la conoscenza del pensiero postmoderno che, non contento della liquidazione delle religioni, ha liquidato anche ogni morale secolare, ritenendo che essa riporti inevitabilmente alla religione; e la conoscenza di quelle brillanti analisi che hanno disvelato il bigotto mascherato che si nasconderebbe in Kant. Ma è assai probabile che senta nell’aria l’andazzo; anche se non sa che, in buona parte della cultura occidentale, le parole “etica” e “morale” suscitano tanto imbarazzo che, dopo essere state liquidate in quanto frutto della rivelazione o della storia umana, si attende con trepidazione di poterle gettare nella pattumiera dell’oscurantismo e sostituirle con parole come “neuroetica”. Frattanto, nell’attesa che vengano a galla le basi biologiche della morale, sarà la sharia di Ahmadinejad a fare da supplente. Se Ahmadinejad sapesse tutte queste cose sarebbe felice di aver fatto la scelta giusta: rivolgersi a uno dei pochi avversari ancora in piedi. Non che i dissacratori dell’etica, della morale e della religione non esistano nel nuovo continente: al contrario, le università americane ne sono strapiene, se non dominate. Ma la società americana è più articolata, ed è percorsa da forti correnti che vanno in tutt’altra direzione. L’etica e la morale non sono ancora parole ridicole e, oltre ai neuroetici e ai neo-eugenisti, c’è chi segue percorsi scientifici diversi, oppure considera razionale conservare una robusta fede religiosa. Ahmadinejad non si cura dell’Europa, la vede soltanto come un territorio vuoto da occupare. L’ostacolo al crollo finale permane dove la democrazia liberale trae forza e vitalità da un afflato etico e morale, cui l’esperienza religiosa autentica (e non formalistica) dà un contributo importante. Come in Israele. Anzi, qui l’ostacolo è talmente forte che le uniche soluzioni possibili sono quelle radicali. Perché l’ebreo, anche quando non è religioso, vive di utopia. Anzi, come scrive Henri Meschonnic “la sua utopia è se stesso, è utopia di sé” e anche utopia della società, “utopia degli altri, per sé e per gli altri”. Perciò per un popolo che mostra di credere nell’utopia, e con l’utopia del sionismo ha ricostituito se stesso, Ahmadinejad vede possibili soltanto due trattamenti: l’atomica – previa verifica del rapporto costi-benefici, e secondo autorevoli esponenti iraniani, un costo di una ventina di milioni di morti sarebbe accettabile – o, in alternativa, la soluzione di spedirlo nel vecchio continente, in parcheggio in attesa della liquidazione finale dell’azienda. Anche qui emerge la folle lucidità dell’ideologo. Poco importa che l’idea sia delirante e insensata, perché passa sopra al fatto che gran parte degli israeliani non sono europei e che Israele non è il mero frutto della Shoah, ma dell’utopia sionista. C’è una logica (consapevole o no) in questa follia: costringere l’Europa a prendere definitivamente posizione sulla questione ebraica, o manifestando un sussulto di dignità e moralità, oppure scegliendo la “soluzione” che Fiamma Nirenstein ha chiamato l’“abbandono”. Perché la questione ebraica europea non è una faccenda degli ebrei, ma qualcosa che ha a che fare con l’identità stessa dell’Europa. Pur in mezzo a tanti drammi, incomprensioni e orrori, duemila anni di storia dell’ebraismo sono stati dentro e con l’Europa. Come dice ancora Meschonnic, con la sua utopia, l’ebraismo è legato all’occidente quanto l’occidente lo è a lui, e la separazione definitiva dell’ebraismo da una parte dell’occidente – l’Europa – è uno scacco di portata epocale. Questo scacco è ormai a un passo dal suo definitivo avverarsi e i prossimi eventi decideranno se il passo sarà compiuto oppure no. Dipenderà da quello che l’Europa deciderà di fare per i suoi ebrei e per gli ebrei che stanno di fronte a lei, dall’altra parte del mare “nostro”. Il che è quanto dire cosa deciderà di fare di se stessa. Pensiamo alla vecchia faccenda delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Che vi sia tanta reticenza in giro a tenere in piedi il primo termine (giudaico) è malinconico, ingiusto, ma purtroppo non stupisce più di tanto. Di recente, passeggiando per il ghetto di Venezia, un collega ebreo francese mi diceva: “Per noi sarebbe tragico, triste, ma non sarebbe la prima volta. Anche fare le valigie. Ma che l’Europa non abbia il coraggio di dire che le sue radici sono cristiane, questo è veramente incomprensibile, stupefacente. Che dire? Cosa resta all’Europa se rinnega anche queste radici?”. Gli ebrei sono abituati a essere considerati una vergogna, tanto che una delle loro utopie è trovare un posto dove “sporco ebreo” significa soltanto un ebreo che non si è lavato. Ma che dal “non possiamo non dirci cristiani” si dovesse passare al “ci vergogniamo di essere cristiani”, questo francamente era al di là di ogni immaginazione. Ed è al di là di ogni immaginazione la debolezza con cui si reagisce a tale stato di cose, la timidezza con cui si dice una verità evidente, e cioè che se qualcuno avesse osato scrivere un “Codice da Vinci” in chiave islamica avrebbe già fatto una brutta fine, e anche l’errore di credere che si possano contrastare queste aberrazioni per via legale e di divieto. Lo si creda o no, per uno che si chiama Israel parlare troppo di antisemitismo e di antisionismo è una noia. Non una noia esistenziale. Perché l’utopia della fine dell’antisemitismo è talmente proiettata verso la fine della storia, che esiste una panoplia consolidata di tattiche di resistenza. E’ una noia razionale: quando una parte troppo importante del tempo di un ebreo europeo deve essere impiegata a difendersi, a decrittare le forme attuali dell’antisemitismo, a dimostrare invano che la manifestazione attuale dell’antisemitismo è l’antisionismo, allora c’è qualcosa che proprio non va. Difatti, ogni giorno si ricomincia daccapo. Il 27 maggio il più importante sindacato dei professori universitari inglesi (Natfhe) chiamerà a votare i suoi 67.000 membri un appello al boicottaggio delle istituzioni universitarie israeliane e, individualmente, dei loro professori. Bisognerà ricominciare a spiegare a chi non vuol capire che questo è puro e semplice razzismo? Giorni fa, sul Corriere della Sera, Sergio Luzzatto ha osservato che “l’opinione pubblica europea si sta mostrando distratta davanti ai recenti sviluppi della situazione politica in Polonia”, dove sono entrate al governo due formazioni cattoliche reazionarie apertamente antisemite, uno dei cui leader ha dichiarato che “il peggior nemico della Polonia è la nazione giudaica”. Per un breve tempo, si era sperato che le nuove nazioni orientali entrate in Europa fossero più aperte di altre a un rapporto con il Grande e Piccolo Satana. E’ una speranza durata poco, e pare che i vecchi fantasmi si stiano riaffacciando, davanti a un’opinione pubblica “distratta”. Ma il guaio è che l’elenco di queste distrazioni è ormai infinito. Questo è il vero problema. E’ passato poco tempo da quando in Francia è avvenuto un delitto razziale che avrebbe dovuto suscitare una reazione degna di un caso Dreyfus. Parliamo del caso del giovane Ilan Halimi, torturato per un mese e poi gettato a morire su una scarpata, mentre tante persone che vivevano nello stabile maledetto udivano le sue grida disperate e facevano finta di nulla. Un delitto razzista che – come ha scritto in un bellissimo articolo il padre di Daniel Pearl – è stato possibile perché un intero paese ha introiettato l’idea che gli ebrei sono colpevoli in quanto non rinnegano Israele, quel “piccolo paese di merda”, secondo l’elegante espressione di un ambasciatore di Francia. Non è tanto o soltanto il delitto in sé, ma il clima che lo ha preparato, lo ha accompagnato e il silenzio torbido che è seguito, come una sorta di alzata di spalle collettiva. Dopo questo episodio, risulta che la già consistente emigrazione ebraica dalla Francia sia aumentata. Invece di interrogarsi su un sintomo così grave – che una comunità così integrata nel paese dia segni di cedimento e pensi ad andarsene, malgrado i disagi connessi – la “gauche” intellettuale non ha trovato di meglio che coniare lo slogan di un’opa che il sionismo avrebbe lanciato sull’ebraismo francese. Nel delitto Halimi si è visto lo stesso clima, lo stesso torbido silenzio, la stessa cinica indifferenza che ha accompagnato l’assassinio di Theo van Gogh. E’ lo stesso insopportabile cinismo con cui viene trattato ora il caso di Ayaan Hirsi Ali, la coraggiosa donna somala che sta pagando il prezzo di essersi opposta all’estremismo islamista e che un tribunale olandese ha sfrattato dalla sua casa ritenendo prevalente il diritto dei vicini alla quiete e a star lontani dalle minacce terroriste, rispetto al suo diritto di vivere liberamente nella sua casa. Così, il politicamente corretto, degenerato in servilismo nei confronti dei violenti, ha fatto a pezzi i principi più elementari della democrazia liberale e ha usato persino la giustizia per calpestare la morale senza alcun ritegno. In effetti, il “politicamente corretto” in versione europea è arrivato al punto di battere largamente le peggiori manifestazioni statunitensi. Bisognerebbe un giorno fare la storia del palleggio culturale che è avvenuto tra le due rive dell’oceano: noi abbiamo lanciato di là la palla del pensiero postmodernista dei vari Foucault, Lacan e Derrida e ne è germinato il politicamente corretto americano. Ora, negli Stati Uniti si stanno manifestando tante versioni diverse e contraddittorie del politicamente corretto da neutralizzarsi a vicenda. Mentre la palla è ritornata al mittente assumendo forme di rigidità univoca e, in taluni paesi europei, soffocanti e totalitarie: non si predica più la parità per decreto, ma l’asservimento all’“altro”. E’ il prostrarsi umiliante e degradante della sentenza dell’Aia, le chiacchiere tra l’insensato e l’infame della “gauche” parigina, i genitori A e B dello zapaterismo. Non ha ragione il presidente Ahmadinejad a sentire i rumori del crollo della democrazia liberale? E noi? La situazione nel nostro paese sembra meno grave che in altri paesi europei, ma non c’è da stare tranquilli. Mentre dilaga l’esercizio del ricordo e la Giornata della Memoria si è trasformata in Settimana, anzi in Sagra della Memoria, la Brigata ebraica che sfila nel corteo del 25 aprile viene pesantemente fischiata e aggredita con grida assassine. Lo sdegno generale e unanime ha proclamato trattarsi di un gruppetto di pochi irresponsabili, ma è una bugia. Per non farsi male bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: i quattro pesci nuotavano in un bacino di consenso o quantomeno di “comprensione” molto, troppo vasto. Di che stupirsi? Sono quarant’anni che si educano generazioni all’odio del sionismo. Ne abbiamo avuto un ultimo esempio con l’indecente vignetta pubblicata su Liberazione che riprende un cavallo di battaglia dell’antisemitismo contemporaneo: l’identificazione degli israeliani come i nazisti di oggi. L’educazione all’odio continua e si raccolgono i frutti di ciò che è stato e viene metodicamente seminato. Perciò, le deplorazioni e le minimizzazioni – in un paese in cui le università sono inaccessibili a un diplomatico israeliano – sanno di ipocrisia e, nel migliore dei casi, di elusione. Oggi per l’Europa si tratta di decidere se continuare a cavarsela “ricordando” e strofinandosi addosso il cilicio per i misfatti del passato mentre viene lasciato libero corso all’antisionismo e all’antiamericanismo; sbattendo in galera Irving e lasciando ammazzare Ilan Halimi; pretendendo la chiusura dei Cpt (Centri di permanenza temporanea) in quanto sarebbero dei “lager”, e scacciando dai condomini le Ayaan Hirsi Ali. Fino a che il dilagare del disprezzo di sé non si concluda nel suicidio finale.
Sorprendentemente, Il MANIFESTO pubblica in prima pagina un buon pezzo di Erri De Luca sulla vicenda della vignetta ( ma probabilmente con mailizia lo fa sovrastare dal titolo demonizzante "Israele La Corte suprema conferma l'apartheid").
Ecco il testo:
Non cuocerai l'agnello nel latte di sua madre, è scritto nel libro sacro. Non trasformerai la madre della vittima in complice del macellaio di suo figlio. Accusare Israele di affamare la Palestina usando la scritta nazista del campo di sterminio di Auschwitz è cuocere l'agnello nel latte della madre. Non si può prendere la sigla del peggior crimine dell'umanità e rivoltarlo contro i discendenti delle vittime. Ma è stato fatto, per leggerezza o per insulto. Fame è una parola gigantesca, la riduzione al gradino più basso della dignità umana. La chiusura intermittente dei varchi di Eretz Israel non è fame. Dopo l'attentato di Tel Aviv sono rimasti serrati per ventiquattr'ore. Le migliaia di operai palestinesi che non lavorano più in Israele non è fame. Un muro che separa, fa male ma non è fame. Le serre degli insediamenti ebraici smantellati a Gaza sono state distrutte dalla proprietà palestinese reintegrata nei suoi territori. Non è mossa di fame. La legittima elezione di Hamas al governo della Palestina ha delle conseguenze internazionali come il taglio dei fondi di paesi esteri ma non è assedio, non è Sarajevo. La fame annunciata dalla vignetta su «Liberazione» di qualche giorno fa niente ha a che vedere con «Arbeit macht frei» all'ingresso di Auschwitz. Da lì passarono i condannati allo sterminio. Il copyright su quella scritta appartiene ai nazisti. Nessuno può staccarlo dal luogo capitale dell'infamia e appiccicarlo per polemica sull'uscio di qualcuno, tanto meno l'uscio di Israele. E' triste quando l'intelligenza e la compassione di persone vicine si inceppano e procurano un torto anziché un sollievo. Quel luogo è un nervo scoperto della storia da migliaia di anni. Tre monoteismi, tre fedi esclusive hanno i loro santuari gomito a gomito. E' un punto della geografia da trattare con la cautela dell'artificiere che manovra per disinnescare la carica, non per accenderla.
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