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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Avvenire - Il Manifesto Rassegna Stampa
11.05.2006 Gli aiuti arriveranno, ma la campagna per legittimare Hamas non si ferma
le sue motivazioni, del resto, non sono mai state "umanitarie"

Testata:Avvenire - Il Manifesto
Autore: Ivana Arnaldi - Giuliana Sgrena - Michele Giorgio
Titolo: «Palestinesi alla fame Boomerang per l'Occidente - Palestina in ginocchio, manca anche la benzina - Il Quartetto: aiuti a Ramallah scavalcando il governo Hamas»

Mentre il quartetto decide di inviare aiuti alla popolazione palestinese senza finanziare il governo islamista, terrorista e antisemita di Hamas, individuando come unico referente il Presidente Abu Mazen, AVVENIRE sceglie di pubblicare con grande rilievo un'intervista a  James Wolfensohn, critico con la fermezza della comunità internazionale verso Hamas.
Il titolo in prima pagina é particolarmente fuorviante "Palestinesi alla fame Boomerang per l'Occidente"
In realtà dalla stessa intervista di Wolfensohn si evince che i palestinesi non sono alla fame.
Non esiste nessuna carestia e da parte della comunità internazionale e di Israele, come dimostrano anche le ultime decisioni, non esiste nessuna intenzione di provocarla.
Ecco il testo dell'intervista di Ivana Arnaldi:
 
 
«Negli ultimi mesi, gli avvenimenti politici palestinesi sono stati tali che i problemi da regolare vanno ormai al di là delle mie competenze. Il mio mandato doveva cessare inizialmente a settembre 2005, cioè alla fine delle operazioni del ritiro israeliano da Gaza. Era stato poi prorogato sino alla fine di aprile 2006, per consentire lo svolgimento delle votazioni palestinesi e israeliane». Così, l’ex presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, commenta le proprie dimissioni da inviato in Medio Oriente del Quartetto, l’organismo composto da Stati Uniti, Unione europea, Russia e Onu per sviluppare l’economia dei Territori. Gli ultimi tempi, però, non sono stati facili per Wolfensohn, costretto a lavorare in alcune stanze dell’ala occidentale dell’American Colony Hotel di Gerusalemme Est – messe a disposizione dal Dipartimento di Stato statunitense e trasformate in uffici con scrivanie, computer e casellari – e a cercare di far fronte al blocco degli aiuti internazionali all’Autorità nazionale palestinese. In questo contesto va letta la donazione personale fatta da Wolfensohn di 100mila dollari in favore del Bereaved Families Forum, un’associazione di famiglie di caduti israeliani e palestinesi per l’allestimento di una rassegna d’arte.
Le sue dimissioni del 1° maggio hanno provocato qualche indiscrezione giornalistica che le leggeva come un gesto di protesta...
A Washington, il segretario di Stato Condoleezza Rice, prendendo atto delle mie dimissioni, mi ha ringraziato per il lavoro fatto, affermando che se le condizioni lo permetteranno, spera veramente di poter contare su di me per un ulteriore ruolo attivo in Medio Oriente. Le ho spiegato che la presenza di un governo di Hamas nei Territori palestinesi attualmente non mi consentiva di esercitare le mie funzioni. E se si decidesse di chiamare un nuovo inviato, sarebbe necessario formulare un mandato relativo alla nuova realtà generatasi.
Pensa che si possa fare qualcosa per sbloccare l’attuale situazion e di stallo?
L’Occidente commetterebbe un errore se si portassero i palestinesi alla fame sperando di ottenere il loro sostegno al processo di pace. Non credo che qualcuno possa pensare che questa sia la politica giusta. La scommessa sarebbe perdente anche se ritengo che i palestinesi dovrebbero capire che non si può agire come se nulla sia accaduto. Prima delle dimissioni, ho presentato un rapporto sommario in cui ho sollecitato la comunità internazionale a occuparsi della crisi israelo-palestinese senza indugio, al fine di impedire gravi conseguenze per l’intera Regione e per la pace nel mondo. Nell’immediato futuro, infatti, senza una vera svolta nei servizi essenziali, la situazione nei Territori risulterà irrimediabilmente compromessa. Del resto, se il flusso delle donazioni continuasse ad affievolirsi, il Pil di quest’anno crollerebbe del 27 per cento. E, a meno che la situazione non cambi, entro il 2008 il 74 per cento dei palestinesi vivrebbe sotto la soglia di povertà perché la disoccupazione toccherebbe il 47 per cento.
Negli ultimi tempi, insieme al suo staff, lei ha coordinato gli sforzi per avviare colloqui tra Abu Mazen, Israele e Stati Uniti per il proseguimento del processo di pace. E ha promosso iniziative "dal basso" per il dialogo...
Ho incontrato recentemente i rappresentanti del Bereaved Families Forum, un’associazione di famiglie di caduti israeliani e palestinesi per l’allestimento di una rassegna d’arte che va sotto il nome di "Offering Reconciliation 2006" con lo scopo di accrescere la consapevolezza generale sulla capacità dell’arte di avvicinare i popoli e di avviare la riconciliazione. L’esposizione, prima di viaggiare in tutto il mondo, sarà visibile nel Museo dell’Arte israeliana; raccoglie 135 opere realizzate da artisti palestinesi e artisti israeliani. Penso che anche iniziative d questo tipo possano rappresentare un messaggio di pace.

La propaganda diventa particolarmente virulenta sul MANIFESTO. Michele Giorgio presenta la scelta del quartetto come un'esautorazione del "legittimo governo palestinese"; una chiara indicazione del fatto che la campagna sull'"emergenza umanitaria" palestinese non é mai stata umanitaria, ma politica, mirando alla legittimazione di Hamas. Giuliana Sgrena continua quella campagna con un reportage nel quale alla descrizione dei disagi provocati ai palestinesi dalla barriera di sicurezza, dai posti di blocco e dal blocco dei finanziamenti israeliani non é mai associata la minima menzione del terrorismo che ha reso necessarie tali misure di autodifesa.
La Sgrena sostiene anche che prima della vittoria elettorale Hamas sarebbe stata funzionale agli interessi di Israele e per questo le sarebbe stato concesso di ricevere finanziamenti dai fratelli musulmani per costruire la sua rete di servizi sociali.
Facile immaginare che cosa avrebbe scritto Il MANIFESTO
   se Israele avesse agito con maggiore decisione per bloccare le rimesse della "carità" islamica mondiale all'organizzazione terroristica.
Contro la quale, vale la pena di ricordarlo, non ha comunque mancato di condurre una giusta e necessaria guerra nella quale ha collezionato non pochi successi (dall'eliminazione di Yassin a quella di Rantisi) che confutano la tesi moralmente perversa della Sgrena. 
Di seguito, il testo dei due articoli:

Palestina in ginocchio, manca anche la benzina
Giuliana Sgrena
Inviata a Gerusalemme

 Il ritorno in massa dei pellegrini è l'unica consolazione per i palestinesi nel momento della crisi economica derivata dal blocco degli aiuti internazionali imposto da Israele e dall'occidente dopo la vittoria elettorale di Hamas. «Almeno i visitatori daranno un po' di lavoro alle agenzie turistiche e ai negozi di souvenir» dice Siham, che sembra sorpresa da tanto affollamento. Ma soprattutto è angosciata, come tutti i palestinesi, per l'isolamento internazionale. Paradossalmente si sentono più isolati i palestinesi di Gerusalemme, anche se vivono in una grande città e hanno più libertà di movimento di quelli che si trovano oltre il muro. Quella parete di cemento che si insinua come un serpente tra un insediamento e un villaggio della Cisgiordania, smembrandolo, e la cui costruzione è rimasta uno dei pochi posti di lavoro accessibili ai palestinesi, li fa sentire esclusi: molti, ong comprese, si sono trasferiti a Ramallah. La pressione sugli abitanti di Gerusalemme est è molto forte, con l'evidente intenzione di ridurne sempre più l'incidenza demografica. Il territorio della «Grande Gerusalemme» continua ad escludere villaggi (come il campo profughi di Shufat) e quartieri palestinesi - oltre alle case confiscate nel centro storico - e a rafforzare gli insediamenti come quello di Ma'aleh Adumim che, secondo i piani del governo israeliano, collegandosi ad altre colonie vicine, dovrebbe raggiungere i 120.000 abitanti. L'obiettivo dichiarato del nuovo premier Olmert è di arrivare ad un rapporto di 40 palestinesi contro 60 israeliani su cento abitanti. Tuttavia il governo non riesce a prevedere tutti i comportamenti sia dei palestinesi che degli israeliani: la situazione ha indotto molti ebrei a trasferirsi da Gerusalemme e gli appartamenti lasciati liberi vengono affittati a palestinesi, così che cominciano ad esserci diverse case miste, come non si era mai visto. Il territorio palestinese non è sezionato solo orizzontalmente, ma anche in senso verticale: per vietare ai palestinesi le strade destinate ai coloni vengono costruiti tunnel riservati ai primi mentre i secondi passano sui ponti che li sovrastano. In tutto alla fine saranno costruiti sedici tunnel e ponti. Mentre si spendono miliardi di dollari per costruire il muro, le strade che lo costeggiano sono sempre più dissestate. Questo sistema di controllo non esclude i check point fissi che insieme a quelli mobili, che compaiono e scompaiono improvvisamente, rendono impossibili gli spostamenti nei Territori occupati. Anche i regolamenti cambiano di giorno in giorno: a volte passi altre no, a volte se hai la residenza a Gerusalemme puoi andare a Betlemme, altre invece devi avere la residenza a Betlemme e dimostrarlo con la ricevuta di una bolletta della luce, pagata, naturalmente. Ai posti di blocco i militari danno la caccia soprattutto ai lavoratori che cercano di entrare in Israele in tutti i modi, anche nascosti dentro ai container. Se scoperti, vengono trattenuti ai chek point sotto il sole cocente per l'intera giornata. Anche i bambini per andare a scuola devono girare intorno al muro, spesso impiegando molto tempo, oppure devono passare nelle strade vicino alle colonie, con il rischio di essere colpiti dagli irriducibili settlers, tanto da indurre i soldati israeliani ad accompagnare gli alunni palestinesi. La situazione è sempre più insostenibile e molti genitori cominciano a tenere i figli a casa. Molti giovani arrivano persino a farsi arrestare ai posti di blocco - e non ci vuole molto, basta avere un'arma impropria o qualcosa di simile - per avere la possibilità di continuare gli studi: in carcere hanno cibo, spazio per studiare e insegnanti! Anche il cibo è diventato un problema: il 50% della popolazione palestinese vive sotto i livelli di povertà. E la situazione è destinata a peggiorare. Il blocco dei fondi ha già provocato gravi danni e non si tratta solo delle saracinesche chiuse di molti negozi della Cisgiordania. Che ogni giorno aumentano. Blocco militare ed economico hanno trasformato il solitamente affollato suq di Hebron in un intrico di strade deserte, i pochi viandanti devono passare attraverso una grata girevole per poi subire il controllo dei militari israeliani. Che presidiano anche la casa sloggiata nei giorni scorsi, dopo scontri con i coloni che l'avevano occupata, in seguito alla decisione in questo senso della Corte suprema israeliana. Il boicottaggio ha già ripercussioni pesanti: comincia a mancare la benzina e il diesel. Israele ha bloccato i rifornimenti perché l'Anp non paga, la precedente fattura è stata pagata dal presidente Abu Mazen, ma l'ultima sembra troppo pesante per le sue tasche. Scarseggiano i medicinali: ci sono state le prime vittime per la mancanza di prodotti per dialisi. Mancano anche i soldi per pagare i salari ai dipendenti pubblici ormai da tre mesi. Molti di loro non vanno più a lavorare perché non hanno nemmeno i mezzi per pagare il trasporto. Anche molti poliziotti restano a casa, forse non è solo la mancanza di soldi a motivarne la disaffezione. Per le strade di Ramallah si vedono quasi solo le guardie del presidente Abu Mazen che, in vista del suo passaggio, presidiano la strada che porta alla Mukata. Nei ministeri e persino nell'edificio che ospita il parlamento a Ramallah si entra senza nessun controllo. Tanto che quando scoppia un incendio mentre stiamo intervistando il presidente del parlamento Aziz Dweik pensiamo subito a un boicottaggio, a un attacco degli oppositori di Hamas. La sera prima c'era stato uno scontro con morti tra Hamas e Fatah a Gaza. Ma Aziz Dweik resta l'unico a insinuare un incendio doloso mentre la perizia ufficiale dei tecnici conferma la versione del corto circuito, forse un sovraccarico della rete elettrica. Se non è boicottaggio forse sarà uno dei tanti prodotti della corruzione, visto che il palazzo è stato ristrutturato solo tre anni fa. Certo qui non si può pensare agli standard europei, ma quando qualcuno si affaccia alla finestra del terzo piano per buttare nel vuoto una bombola del gas tutti si mettono ad urlare per dissuaderlo. Comunque, dopo essere riusciti a fuggire dall'edificio, il fumo nero che si vede uscire dal tetto è impressionante. Non ha comunque toccato quella bandiera palestinese che i militanti di Hamas per festeggiare la vittoria elettorale avevano sostituito con una verde islamica. «Che orrore! - ricorda un'amica - e pensare che solo tredici anni fa i ragazzi palestinesi si facevano uccidere per appendere una bandiera palestinese a un palo». La bandiera verde comunque è scomparsa ed è tornata quella palestinese. Una vicenda che ben rappresenta le contraddizioni della realtà palestinese. Hamas ha ottenuto la maggior parte dei seggi in parlamento (74 su 132), grazie alla legge elettorale pur non avendo la maggioranza dei voti, mentre nessuno se l'aspettava. Una grande affermazione del movimento islamista era nelle previsioni ma non la sua vittoria. Nemmeno Hamas se l'aspettava. Ed è ancora spaesata. Un conto è fare l'opposizione, un altro governare. Non si tratta solo di far fronte ai pesanti effetti del boicottaggio internazionale ma anche di rispondere alle aspettative degli elettori, che non sono tutti militanti islamisti. Nei vari uffici della presidenza del parlamento si vedono molte impiegate velate che chiacchierano e sorseggiano il tè davanti a scrivanie vuote, anche gli uomini che circondano Aziz Dweik non sembrano avere idea di che cosa fare, ridono, mangiano dolci, si scherniscono, sembrano girare a vuoto. Sulle pareti poster che sembrano ereditati dal passato: foto della via Dolorosa, una piantina della moschea al Aqsa e un poster di Fatah che ricorda un «martire» caduto nel 2005. L'unico che sembra muoversi a suo agio è un palestinese nato in Algeria, lavora in parlamento da quattro anni, ci dice, ed è stato nominato recentemente direttore del protocollo. Non è evidentemente un uomo di Hamas. Incontriamo altri «quadri» di Fatah impiegati nei vari ministeri che sono stati recentemente promossi. Per ora, ci spiega un dirigente del ministero degli interni, Hamas ha imposto solo il ministro e il suo staff, gli altri dipendenti sono quelli di prima, in maggioranza di Fatah. Forse in futuro ci sarà un rigonfiamento dei dipendenti pubblici che contano già un sovrannumero di circa 15.000 persone. Anche se alcuni dei dipendenti della sinistra pensano a un pensionamento se la politica di Hamas renderà incompatibile la loro presenza. Certo nuove assunzioni saranno difficili visto che non sono pagati nemmeno i dipendenti che già ci sono, circa 165.000, grazie al cui introito vive oltre un milione di palestinesi. Qualcuno fa notare che in passato se dopo tre settimane non arrivava lo stipendio cominciava la protesta. Per ora il boicottaggio della comunità internazionale fa aumentare l'appoggio a Hamas: prevale la solidarietà nazionale e la pazienza, oltre alla frustrazione e alla depressione. Sembra che l'ottusità della Comunità internazionale ispirata da Bush stia ancora una volta prevalendo, con l'effetto di rafforzare gli estremisti. Peraltro Hamas quando non governava e soprattutto serviva all'occidente (Israele in testa) a indebolire l'Olp, ha potuto far entrare a Gaza ingenti contributi finanziari della rete dei Fratelli musulmani che hanno permesso all'organizzazione islamista di sostituirsi all'Autorità nazionale palestinese nel fornire servizi sociali carenti: scuole, ospedali e anche case. Mentre il governo di Fatah faceva costruire moschee, servite alla campagna elettorale di Hamas. La cui vittoria elettorale diventa ora per la Comunità internazionale il pretesto per una punizione collettiva contro tutto il popolo palestinese stanco delle promesse di una pace che non è mai arrivata, nonostante le concessioni fatte.

 Il Quartetto: aiuti a Ramallah scavalcando il governo Hamas
Michele Giorgio Gerusalemme

Sorrideva ieri mattina Ismail Haniyeh ma allo stesso tempo il premier di Hamas ingoiava il boccone amaro del «meccanismo», deciso qualche ora prima dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Unione europea e Onu) per la ripresa degli aiuti ai palestinesi, che aggira il suo governo e rilancia, sebbene in piccola misura, il ruolo del presidente Abu Mazen. Il portavoce Ghazi Hamad in tarda mattinata ha descritto lo stato d'animo del premier. «Il governo - ha detto - apprezza gli sforzi compiuti dalle diverse parti internazionali per alleggerire la crisi economica del nostro popolo ma si rammarica profondamente per l'insistenza del Quartetto a porre delle condizioni all'esecutivo palestinese. Avremmo tuttavia desiderato una posizione più positiva del Quartetto riguardo alle relazioni con il governo palestinese che è stato nominato dopo elezioni libere e democratiche». Hamad si è anche detto «stupito della mancanza di serietà (del Quartetto) riguardo alla parte israeliana che continua ad occupare e controllare la Cisgiordania, a mantenere i blocchi delle colonie e completare la costruzione del muro di separazione razzista, che distrugge così ogni possibilità di accordo politico giusto». Certo il governo israeliano ieri mattina aveva molti motivi per essere soddisfatto del passo fatto dal Quartetto, su proposta dell'Ue, perché è in linea perfetta con la sua politica di Ehud Olmert nei confronti di Hamas, ma anche di un Abu Mazen destinato a diventare un semplice esecutore di decisioni prese a Washington e Bruxelles, oltre che a Tel Aviv. I ministri degli esteri di Usa, Ue, Russia e Onu, riuniti a New York, infatti hanno «espresso la volontà di avviare un meccanismo internazionale temporaneo, che sia limitato negli obiettivi e nel tempo, che operi con trasparenza totale e con possibilità di controllo, e garantisca qualsiasi tipo di aiuto al popolo palestinese». Per un periodo di tre mesi gli aiuti verranno versati ad un'istituzione internazionale (probabilmente la Banca mondiale) che a sua volta provvederà a distribuirli appoggiandosi all'ufficio della presidenza palestinese, ossia ad Abu Mazen. Quest'ultimo farà molto poco ma agli occhi dei palestinesi passerà come l'unico in grado di far arrivare le donazioni internazionali ai Territori occupati: un altro motivo di disappunto per Hamas, proprio nella fase più acuta della crisi tra il movimento islamico ed Al-Fatah, non attenuata dalla decisione presa congiuntamente martedì sera di dichiarare fuorilegge chiunque giri armato in strada. L'autorevole quotidiano palestinese Al-Quds Al-Arabi, pubblicato a Londra, ha riferito che durante gli incontri dei giorni scorsi tra Haniyeh e Abu Mazen, il premier ha alzato la voce in più di un'occasione per chiedere al presidente maggiore collaborazione nella soluzione della crisi. Il Commissario per le relazioni esterne dell'Ue, Benita Ferrero-Waldner, ha aggiunto che il tutto dovrebbe diventare operativo entro poche settimane, in modo da permettere di versare gli stipendi ai circa 165.000 funzionari pubblici palestinesi, che non sono stati pagati né a marzo né ad aprile. Una volta messo a punto il «meccanismo», Israele verserà ai palestinesi le somme accumulate in questi mesi con la raccolta di dazi doganali ed altre imposte (oltre 100 milioni di dollari soltanto in questi ultimi due mesi). Nel frattempo, in linea con i desideri di Usa, Ue e Israele (e di una parte di Al-Fatah) il tempo lavora contro Hamas. Un sondaggio diffuso ieri ha rivelato che una forte maggioranza della popolazione palestinese in Cisgiordania e Gaza, il 61,7%, ritiene che l'attuale governo non sia in grado di assicurare posti di lavoro ed il 39% che gli aiuti economici dagli Stati Uniti e dall'Ue siano fondamentali per il benessere dei palestinesi.

In prima pagina la disinformazione del quotidiano comunista é totale: invece di dare la notizia della formula trovata per far comunque arrivare gli aiuti ai palestinesi titola "
Israele ora taglia anche la benzina" ( in realtà a tagliare é stata la compagnia israeliana che fornisce la benzina, per l'insolvenza dell'Anp)

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