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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Il Riformista Rassegna Stampa
09.05.2006 Dossier Iran
i trucchi propagandistici, il ricatto petrolifero, la minaccia missilistica

Testata:Il Foglio - Il Riformista
Autore: la redazione - Anna Momigliano
Titolo: «Grande Satana, ti scrivo - Teheran si sente invulnerabile, ma non per molto - Oltre l'atomica, quello che possono le armi degli ayatollah»

Il FOGLIO pubblica un editoriale sulla lettera scritta dal presidente iraniano Ahmadinajad a George W. Bush. Un'iniziativa propagandistica volta a guadagnare tempo e a completare i piani nucleari.
Ecco il testo:


C’è molto metodo nella folle e feroce lucidità del pasdaran presidente, Mahmoud Ahmadinejad. L’Iran è vicino al suo obiettivo storico: l’atomica. Per raggiungerlo ogni spregiudicatezza è ammessa, pur di prendere operoso tempo. Così Ahmadinejad compie un gesto simbolico, ma per Teheran inaudito: scrive al presidente Bush, il Grande Satana, per tentare di creare un dialogo diretto con Washington. Lo fa scegliendo bene i tempi. Proprio in queste ore si discute all’Onu la bozza di risoluzione con un ulteriore ultimatum all’Iran perché rispetti i vincoli di non proliferazione nucleare, con sanzioni in vista e la minaccia dell’uso della forza, da nessuno finora nemmeno ipotizzato, sullo sfondo. Proprio in queste ore cresce anche negli Stati Uniti la pressione di chi auspica un “Grand Bargain”, un’intesa fino a oggi inimmaginabile, un grande scambio, insomma una trattativa tra nemici. Ahmadinejad sa bene che tanto domani potrà smentire la lettera o il suo contenuto, tornare a minacciare Israele, ricominciare il gioco delle aperture diplomatiche alternate alle chiusure rabbiose, giusto per dare lo spazio al programma atomico di progredire celermente. Così ogni giorno che passa arricchisce la sua tattica di parole, ma ad arricchirsi intanto è soprattutto l’uranio. Ahmadinejad ha uno scopo preciso: dividere la comunità internazionale che finora si è mostrata compatta (pur tra le ambiguità russe) nel proclamare: “Mai la Bomba agli ayatollah”. Dunque, la comunità internazionale tutto deve fare tranne che dividersi o pensare: “Meglio che se la sbrighi l’America da sola”.
L’Amministrazione Bush ha intenzione ferma di gestire il dossier iraniano attraverso l’Onu. Ma le risoluzioni, gli ultimatum, le sanzioni, le pressioni possono sortire effetti soltanto se resta compatto il fronte dei paesi che considerano il jihad nucleare un rischio da non correre in alcun caso. Proprio perché finora il fronte è apparso compatto, Ahmadinejad è costretto al gesto eclatante, pur di isolare gli Stati Uniti. E’ il solito balletto sulle punte di missili Shahab. Pericolosissimo.

Anna Momigliano sul RIFORMISTA, riprendendo le tesi di un saggio di Thomas L. Friedman spiega le motivazioni della sicurezza con la quale l'Iran sfida la comunità internazionale.
Ecco il testo:

La prima legge della petropolitica illustra quanto segue: il prezzo del greggio e lo sviluppo della libertà si muovono sempre in direzioni opposte nei regimi ricchi di petrolio». Questa è la conclusione cui è giunto Thomas L. Friedman, il più noto analista americano di politica internazionale, dopo avere osservato con attenzione il comportamento di alcuni regimi autoritari la cui economia dipende strettamente dall’oro nero, il cui prezzo - non c’è certo bisogno di ricordarlo a chiunque possieda un mezzo a benzina - sta toccando livelli record in queste settimane. «Quando ho sentito Mahmoud Ahmadinejad dichiarare che l’Olocausto era un “mito”, non ho potuto fare in meno di domandarmi se il presidente iraniano avrebbe mai parlato nello stesso modo se il prezzo del petrolio fosse di 20 dollari al barile, anziché superare la sessantina». E poi: «Quando ho sentito Hugo Chàvez mandare letteralmente “all’inferno” Tony Blair e il Free Trade Area of America, non ho potuto evitare di chiedermi se il presidente del Venezuela avrebbe detto queste cose se il prezzo del greggio fosse a 20 dollari e il suo paese avesse dovuto guadagnarsi da vivere facendo prosperare delle imprese, anziché limitandosi a scavare pozzi». Entrambe le domande sono ovviamente retoriche. Il modello di Friedman è relativamente semplice. Quando i prezzi del greggio salgono alle stelle, le casse dei paesi produttori si riempiono da un giorno all’altro di petrodollari senza che le attività industriali registrino alcuna variazione. Per i paesi governati da istituzioni democratiche e con un’economia diversificata (per esempio gli Usa e la Norvegia), le conseguenze tendono a limitarsi al settore prettamente economico. Ma quando il flusso di petrodollari interessa regimi autoritari la cui economia ruota quasi esclusivamente intorno all’esportazione del greggio, gli effetti sulla società civile sono catastrofici. Con le casse piene, i regimi autoritari possono investire di più nella repressione interna dei gruppi dissidenti e, in alcuni casi come l’Iran e la Siria, nella costruzione di arsenali che mettono a repentaglio la stabilità della regione. Inoltre, l’accumulazione di risorse da parte di governi autoritari e centralizzati permette una distribuzione dall’alto della ricchezza ai ceti meno privilegiati, con l’effetto indesiderato di «diminuire la pressione sociale per la specializzazione occupazionale e l’educazione», rendendo di fatto la popolazione incapace di produrre in altri settori: è il caso, per esempio, dell’Arabia Saudita. Dulcis in fundo, i prezzi alti del greggio tendono a rendere regimi ricchi di petrolio, sicuri del proprio potere economico, relativamente "invulnerabili" alle pressioni esterne, il che spiega in larga misura i toni sprezzanti di Chàvez e Ahmadinejad. Ma veniamo al caso specifico dell’Iran. Il Cia World Factbook definisce l’economia di Teheran come «segnata da un esteso e inefficiente settore statele, e da un’eccessiva focalizzazione sul settore petrolifero». E ancora: «Gli elevati prezzi del petrolio negli ultimi anni hanno permesso all’Iran di accumulare circa 40 miliardi di dollari in valuta straniera, ma tutto questo non ha contribuito a fare scendere né l’inflazione né l’alto livello di disoccupazione». Sempre secondo la stessa fonte la Repubblica islamica sarebbe affetta da una mancanza di lavoratori specializzati. Certo l’Iran è noto anche per la produzione di caviale, e non tutti sapranno che è anche tra i principali produttori di mele del mondo. Ma fatto sta che il petrolio ammonta per l’80 per cento delle esportazioni della Repubblica islamica, e il boom dei prezzi non fa altro che dare man forte al regime teocratico. Non solo perché permette a Teheran di alzare i toni con l’Occidente, di tenere sotto scacco le potenze emergenti che, come India e Cina, dipendono dalle sue esportazioni di greggio. Il flusso di petrodollari nelle tasche dello Stato è la condizione su cui fa leva il programma populista di Mahmoud Ahmadinejad: un ambizioso programma nucleare e un altrettanto ambizioso programma di welfare, a cominciare da massicci investimenti nell’edilizia popolare, che confermano l’immagine di nazionalista e protettore dei diseredati su cui Ahmadinejad impostò la sua campagna elettorale. Difficile pensare, inoltre, che le recenti uscite del presidente iraniano nei confronti dell’Occidente non abbiano nulla a che vedere con il senso - più o meno giustificato - d’invulnerabilità percepito in Iran grazie al boom del greggio. Il che vale sia per le minacce dirette («Gli Stati Uniti hanno il potere di arrecarci danni e dolore, ma sono anche suscettibili a danni e dolore») a quelle più indirette, come il progetto di creare una Borsa internazionale del petrolio in euro, anziché in dollari. Difficile capire, del resto, se l’annuncio da parte del governo iraniano di avere inviato una lettera a Bush, che conterrebbe «nuove proposte per risolvere i problemi sul tavolo con mezzi pacifici», rappresenti una reale apertura, dopo una serie di provocazioni. Gli Stati Uniti, per ora, sostengono di «non avere ricevuto alcuna lettera». Un alto rappresentante dell’amministrazione Bush, in questi giorni in Italia, spiega infatti che trattare direttamente con l’esecutivo di Ahmadinejad dal punto di vista di Washington è impensabile, con buona pace di chi, come Madeleine Albright, sollecita contatti diretti: l’obiettivo è raggiungere al più presto una nuova risoluzione Onu, che minacci sanzioni economiche. E questa volta, lascia intendere l’official, esiste un relativo ottimismo riguardo a un’eventuale collaborazione da parte della Cina. A torto o a ragione, la leadership iraniana è però convinta che la comunità internazionale difficilmente troverà il coraggio non solo di un’azione militare, ma anche di imporre sanzioni economiche. Come spiega l’analista di Foreign Policy Christopher Dick, qualsiasi forma di sanzione che colpisca l’esportazione del greggio iraniano sarebbe un danno enorme per l’economia mondiale. E questo Ahmadinejad lo sa bene. Sempre secondo Christopher Dick, delle sanzioni contro Teheran porterebbero il greggio a «90 dollari al barile, se non di più». Come biasimare India e Cina se si dichiarano disposte a «chiudere un occhio» davanti all’atomica ayatollah, ma anche gli Stati Uniti e l’Europa, che avrebbero potuto fare molte più pressioni di quanto fatto sinora per una risoluzione che preveda sanzioni economiche. Eppure, il piano di Teheran ha un punto debole. I paesi dell’Opec, a cominciare dall’Arabia Saudita, prima o poi riusciranno a ridimensionare l’influenza iraniana aumentando la produzione - Riad ha già lanciato un programma per il raggiungimento dei 12.5 milioni di barile al giorno entro il 2009, rispetto agli 11 attuali. Insomma Teheran dovrebbe completare il proprio programma atomico «prima che lo “scudo” del petrolio s’indebolisca». Da questo punto di vista, come ricordava un ministro di Teheran, la politica europea del “fermare tutto e prendere tempo” potrebbe essere uno dei migliori ostacoli all’atomica iraniana.

Un altro articolo analizza la minaccia militare che già oggi l'Iran rappresenta.
Ecco il testo:

Se si accetta la chiave di lettura per cui l’Iran starebbe brandendo la minaccia nucleare come carta negoziale al “tavolo verde” del poker atomico e se si assume che questo gioco al rialzo avrebbe come obiettivo quello di garantirsi un ruolo di potenza regionale in Medio Oriente, allora bisogna contemplare tutti gli assi di cui Teheran dispone, cercando di valutarne l’effettiva pericolosità. Una prospettiva più ampia di quella legata solo all’arricchimento dell’uranio e alla costruzione di centrali atomiche. Perché, come riportato dall’ultimo numero dell’Economist, l’Iran è antipatico tanto agli Usa quanto agli altri regimi dell’area, che sono disposti ad ascoltare le richieste di Washington in cambio di una rendita geopolitica, ma non un’intrusione da parte di un vicino scomodo e controverso. Non è soltanto Israele, quindi, ad alzare la guardia contro una possibile aggressione iraniana, ma un po’ tutto l’arco geopolitico che con l’Iran confina. Non è un caso che nella ridefinizione delle alleanza seguite al crollo dell’Unione sovietica e all’indebolimento di un partner essenziale come Mosca, l’Iran abbia scelto la apparentemente illogica partnership con l’Armenia, un paese cristiano, cui fornisce elettricità ed energia. Di questa “strategica antipatia” la leadership iraniana è consapevole e non da oggi sta allargando il ventaglio delle proprie opzioni strategico-militari. Grazie soprattutto allo sviluppo di tecnologie missilistiche avanzate, create con il supporto, negli anni ’80, dei tecnici russi e nordcoreani. Proprio sul modello coreano del missile No-Dong, più volte sperimentato con successo da Pyongyang, si basa l’iraniano Shahab-3, un missile dalla gittata di 1.300-1.500 chilometri, in grado di colpire il territorio di Israele con un discreto livello di precisione ma non in grado di montare testate atomiche. Lo Shahab-3, che non è un vettore strategico, rappresenta il pivot dell’arsenale di Teheran, prodotto in serie proprio a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Negli anni del «progressista» e «riformatore» Khatami le attività di sviluppo missilistico si sono tutt’altro che arrestate. Il presidente e i principali mullah si mobilitarono festosi nel 2004 per annunciare il pieno sviluppo autoctono del missile Shahab-4, più potente e preciso, presentato però alla stampa internazionale come un vettore per la messa in orbita di satelliti. Fu proprio Rafsanjani, però, ad illustrare le caratteristico tecniche dello Shahab-4, un missile con una gittata massima di 2 mila chilometri, capace di montare una testata da mille chilogrammi, anche con capacità atomiche limitate. Lo Shahab-4, tecnicamente, rientra ancora nel novero dei missili a medio raggio, testate quindi che solo se adeguatamente dislocate possono raggiungere obiettivi lontani. In sostanza, lo Shahab-4 arriverebbe con un buon livello di precisione a colpire le coste Sudorientali dell’Europa, nell’area di confine tra la Grecia e i paesi dell’area danubiana. Ma in quella circostanza, Rafsanjani elogiò la perizia dei tecnici iraniani e sottolineò come, in tempi rapidi, l’Iran sarebbe stato in grado di produrre senza aiuto esterno missili a medio raggio (lo Shahab-5) e a lungo raggio (lo Shahab-6), capaci di coprire rispettivamente distanze variabili tra i 4 mila ed i 10 mila chilometri. Anche Roma e Madrid, in sostanza, sono avvisate. Queste due ultime tipologie di missili sono in grado di montare testate nucleari, chimiche o batteriologiche e non possono essere intercettate nel loro tracciato extra-atmosferico, nella cosiddetta fase di crociera. Tecnologie di allerta precoce o mezzi di risposta missilistica potrebbero intercettare questi vettori nella loro fase di lancio (boost phase) e in quella di avvicinamento al bersaglio. Le ambizioni (di annuncio) iraniane si sono però spinte anche oltre, arrivando ad ipotizzare la disponibilità nel giro di un quinquennio di un nuovo missile balistico intercontinentale, il Kosar, dalla gittata superiore ai 10.000 chilometri e capace di montare testate nucleari, un’arma di cui dispongono al momento solo Russia (che sviluppò negli anni della Guerra Fredda i micidiali SS-12), gli USA (con i suoi celeberrimi Minuteman e Peacekeeper) e la Cina (con i DF-41). La possibilità di colpire Israele, minaccia più volte paventata e ripresa da Mahmoud Ahmadinejad, rientra da tempo nelle potenzialità strategiche di Teheran. La leadership iraniana ha fatto dell’ampliamento e del potenziamento del ventaglio di opzioni strategiche una questione nazionale e di rango. Le frecce all’arco di Ahmadinejad non si esauriscono certo nell’arricchimento dell’uranio, ma sono anche costituite dal poderoso arsenale missilistico di cui l’Iran dispone e che, in un eventuale conflitto, non esiterebbe ad utilizzare. Ed in questa ipotesi non è certo solo Israele che deve preoccuparsi.

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