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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
08.05.2006 Cronache da Israele e Anp
crisi economica nei territori palestinesi, manovre di Hamas ( e possibili complicità europee), sgomberi israeliani

Testata: Corriere della Sera
Data: 08 maggio 2006
Pagina: 15
Autore: Davide Frattini - la redazione
Titolo: «Code a Nablus. Per vendere gli ori di casa - Hamas: «Incontrato un ministro dell'Ue» - Battaglia a Hebron tra coloni e poliziotti»

Il CORRIERE della SERA di lunedì 8 maggio 2006 pubblica una cronaca di Davide Frattini sulla crisi economica prodotta nei territori palestnesi dalla vittoria di Hamas e dalla posizione oltranzista scelta da questa organizzazione. Forse un' occasione per ripensare una scelta elettorale contraria alla pace, ed evidentemente anche agli interessi di chi l'ha compiuta.  
Ecco il testo:


NABLUS — Le gioiellerie di Nablus sono piene. Donne che entrano ed escono, i sacchetti della spesa riempiti di monili. Chiedono un prezzo, contrattano, verificano il peso sulla bilancia. Non comprano, vendono. Anelli, orecchini, collane. Ricordi. «Mio marito mi ha regalato questo bracciale trent'anni fa. Adesso sto cedendo tutto, un pezzo dopo l'altro», racconta Um Ali Awad, una matrona coperta da una
hijab nera. L'offerta del commerciante non la convince, se ne va e piglia la porta a fianco, una delle novantacinque oreficerie in questa città di oltre centomila abitanti. Un'altra sosta sul viale del disonore.
Dar via i gioielli di famiglia è una vergogna che nessuno vorrebbe affrontare: ogni marito quando si sposa porta in dote attorno ai 500 grammi di oro, i più ricchi arrivano fino a un chilo. Un patrimonio più da conservare che da indossare, il simbolo della solidità di una casa. La crisi economica ha costretto molti palestinesi a dissiparlo. Il governo di Hamas non ha ancora pagato gli stipendi ai 140 mila dipendenti pubblici, Stati Uniti ed Unione Europea hanno congelato gli aiuti fino a quando il movimento fondamentalista non accetterà di riconoscere Israele e dichiarerà di rinunciare alla violenza.
Nablus è la capitale della compravendita d'oro nei territori e qui arrivano dai villaggi nel nord della Cisgiordania. Donne soprattutto, che si privano anche solo di un piccolo anello per raccogliere i soldi necessari a fare la spesa. I commercianti dicono che è una sventura, che negli ultimi tre mesi, da quando Hamas è al potere, la svendita dei tesori di famiglia è cresciuta dell'80 per cento.
Dicono che è una sventura e comprano. Comprano e fanno affari. Loro e i trafficanti che contrabbandano l'oro verso la Giordania e da lì nel Dubai, per essere piazzato in tutto il mondo. Un gioiellerie — non vuol dare il suo nome — apre la cassaforte e tira fuori cinque lingotti, 11 chili che valgono oltre 264 mila dollari. «Sono la raccolta di un paio di settimane. Ho preso i bracciali, le collane, gli anelli e li ho fusi insieme, così sono più facili da trasportare. L'oro palestinese è molto pregiato in Medio Oriente perché l'Autorità ha sempre controllato la lavorazione, la qualità è ottima». Compra a 660 dollari l'oncia (circa 28 grammi) e rivende a un mercante di Ramallah per 671-672 dollari. «Vado là con i miei lingotti, ci sono le quotazioni in tempo reale, decido se vale la pena, altrimenti aspetto. Il mercante che acquista da me guadagna ancora molto: in questi giorni sui mercati internazionali siamo attorno ai 682 dollari l'oncia».
Chi non ci guadagna davvero sono i palestinesi costretti a vendere e l'Autorità che non recupera una sola tassa su tutti questi passaggi. «Non abbiamo nessun controllo — spiega Yacob Shain, che dirige l'ufficio governativo per i Metalli Preziosi —. Il contrabbando continua a crescere perché la richiesta all'estero è molto alta: ho sentito di un'operazione da 250 chili in una volta. Al confine di Rafah, a sud della Striscia di Gaza, passano con le borse piene d'oro e ritornano dall'Egitto carichi di soldi. L'oro è strategico per un Paese, dovrebbe restare qua, nelle banche».
L'Autorità vorrebbe fermare l'emorragia. Il problema rimpalla dal ministero delle Finanze a quello degli Interni e alla fine nessuno fa nulla. «Ho chiesto al Palestinian Monetary Fund di rastrellare l'oro, di impedire che sparisca. Non mi hanno neppure risposto — continua Shain —. La situazione può solo peggiorare: le incertezze per una possibile guerra contro l'Iran, il prezzo del petrolio, la sfiducia verso il dollaro spingono gli investitori a comprare oro e il valore per un'oncia potrebbe toccare gli 800 dollari.
Quel giorno tutte le famiglie si precipiteranno a vendere».
Una volta il «fiume giallo» scorreva nella direzione opposta.
L'oro veniva contrabbandato verso i territori, la richiesta sul mercato locale era arrivata anche a mezza tonnellata l'anno, una riserva che si è accumulata e ha cominciato a dilapidarsi con la seconda Intifada, scoppiata nel settembre del 2000.
«La gente prima ha usato i risparmi — commenta Abdel Fattah Abu Shokor, docente di Economia all'università An-Najah —, i soldi sono finiti e non restano che i gioielli. Il potere d'acquisto continua a declinare».
Il viaggio dell'oro palestinese punta verso il Dubai — spiega un analista — perché da lì raggiunge i Paesi del Golfo e perché l'emirato ha rapporti commerciali molto forti con l'India. «Dove la domanda è altissima: i gioielli fanno parte delle tradizioni, portati in dote alla moglie o regalati ai parenti». Come a Gaza e in Cisgiordania, prima della crisi. Ora i ricordi di Um Ali abbelliranno un altro polso.

Di seguito, un articolo su preoccupanti dichiarazioni di Mahmoud al Zahar, "ministro degli Esteri" di Hamas. Ecco il testo:

GERUSALEMME — Una stretta di mano. Che per Hamas ha il valore di un'apertura diplomatica. Mahmoud Zahar ha raccontato di aver incontrato un console e un ministro degli Esteri europei a una cerimonia, durante la sua missione di tre settimane nei Paesi del Golfo. «Non voglio fare i nomi dei Paesi per non suscitare pressioni superflue su quelle nazioni che si sono mostrate disponibili a intraprendere contatti con il nostro governo. Stiamo parlando con molti europei».
Il ministro degli Esteri è convinto che grazie all'aiuto dell'Europa sarà possibile aggirare la politica americana verso il governo guidato dal movimento fondamentalista: «E' un assedio concepito per affamare i palestinesi e costringerli a rivedere le loro posizioni di principio». Gli Stati Uniti e l'Unione Europea chiedono ad Hamas di riconoscere Israele, accettare gli accordi firmati in passato dall'Autorità palestinese e rinunciare alla violenza. Zahar ha escluso di voler aprire il dialogo: anche la cosiddetta «iniziativa di pace di Beirut» — una proposta che prevede la normalizzazione delle relazioni dell'intero mondo arabo con Israele a condizione che si ritiri da tutti i Territori, smantelli gli insediamenti e concordi una soluzione per i profughi palestinesi — resta inaccettabile per il governo guidato da Ismail Haniyeh. Con un'intervista alla tv
Al Arabiya, re Abdallah di Giordania ha voluto alzare la pressione su Hamas perché accetti il negoziato. «Restano solo due anni per raggiungere un accordo di pace. Altrimenti con le decisioni unilaterali israeliane, ai palestinesi resterà molto poco su cui trattare».
Haniyeh ieri ha continuato gli incontri per provare a chiudere lo scontro che si è aperto con il Fatah di Abu Mazen. La settimana scorsa Mohammed Dahlan, uomo forte del presidente nella Striscia di Gaza, aveva detto di temere per la sua vita. Ieri il Sunday Times ha rilanciato una ricostruzione fatta da Ben Caspit su Yedioth Ahronoth: l'intelligence dello Stato ebraico avrebbe avvertito Abu Mazen di un complotto di Hamas per ucciderlo, consigliandoli di rinunciare alla visita a Gaza che stava organizzando. «Si tratta di informazioni infondate — ha reagito Zahar —. Ma quando mai Hamas è ricorso alla eliminazione fisica di esponenti politici? Questa non è la nostra strada». Yedioth spiegava che il piano sarebbe stato quello di ammazzare il raìs e poi attribuire la colpa ad Al Qaeda, facendo circolare un volantino con la sigla di una delle cellule che sarebbero nate nei territori.

Infine, la cronaca dello sgombero di un gruppo di coloni da un edificio a Hebron:

HEBRON — Non è stato facile, ieri, per gli agenti di polizia e i soldati israeliani sgomberare da un edificio del centro di Hebron, in Cisgiordania, tre famiglie di coloni che secondo la Corte Suprema di Gerusalemme vi abitavano da un mese in forma illegale. Negli scontri con gli occupanti, le forze dell'ordine (700 tra agenti e militari) hanno avuto una ventina fra feriti e contusi.
Nei loro confronti sono stati lanciati oggetti contundenti e anche due bottiglie incendiarie. Ma i dirigenti del rione ebraico di Hebron si sono poi prodigati per calmare gli animi e tutto sommato, secondo la polizia, lo sgombero «è andato abbastanza liscio». Sette persone, tra cui alcune donne, sono state arrestate.
Le notizie sugli scontri a Hebron sono giunte a Gerusalemme mentre il governo Olmert era impegnato nella sua prima seduta. «Non avremo alcuna tolleranza verso i violenti o verso quanti cercano di creare fatti compiuti in maniera illegale, tanto più quando ciò avviene in zone molto delicate», ha detto il premier. Più duro ancora il ministro della Sicurezza Interna Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet (sicurezza interna). Dichter ha promesso che Israele ricorrerà «al pugno di ferro» verso quei coloni che «osino percuotere agenti o soldati».
Il braccio di ferro vincente contro i coloni estremisti di Hebron (città sacra tanto agli ebrei quanto a musulmani: vi sono custodite le tombe dei patriarchi) è stato per il primo ministro Ehud Olmert il primo, autentico test in vista dell'attuazione di uno dei punti-cardine del suo programma: la definizione di confini definitivi di Israele. Tutto ciò dopo l'attuazione del piano di abbandono degli insediamenti minori della Cisgiordania (qualche decina), cui fa da contraltare l'intenzione di mantenere e, anzi, ampliare le colonie principali, che saranno protette dalla controversa «barriera di sicurezza».

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