In un articolo pubblicato dal MANIFESTO di giovedì 13 aprile 2006 Manlio Dinucci spiega che il "vero problema" non é la prospettiva che un regime totalitario votato al genocidio antisraeliano possa dotarsi di un arsenale, ma il fatto gli satti che già possiedono armi nucleari non se ne disfino.
Sarebbe questa mancanza a innescare la proliferazione nucleare. Se gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, l'india e Israele, per esempio, rinunciassero ai loro arsenali nucleari, l'Iran non sis sentirebbe minacciato e non avrebbe la necessità di costruirsene uno.
In realtà, é impossibile non vedere la natura aggressiva dei progetti di riarmo del regime iraniano, coerente con la sua ideologia di odio.
Chiudere gli occi di fronte a questa realtà equivale perciò a uan precisa scelta di campo a favore della tirannia dei mullah e dei suoi propositi criminali.
Ecco il testo:
L'annuncio, fatto martedì dal presidente Ahmadinejad, che l'Iran ha iniziato l'arricchimento dell'uranio ha suscitato una serie di reazioni. La segretaria di stato Condoleezza Rice ha dichiarato ieri che il Consiglio di sicurezza dell'Onu dovrà prendere «forti misure per essere certi di mantenere la credibilità della comunità internazionale su tale questione». Il segretario britannico agli esteri Jack Straw ha detto di essere «fortemente preoccupato» per tale annuncio. Di uguale tono le dichiarazioni dei governi tedesco e francese. Anche il governo cinese, per bocca dell'ambasciatore all'Onu, si è detto «preoccupato di come le cose si stanno sviluppando». Più prudenti le reazioni di Mosca: il portavoce del ministero degli esteri Mikhail Kaminyn lo ha definito «un passo errato», ma il ministro degli esteri Sergey Lavrov ha sottolineato che l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Iaea) «non ha individuato alcun rischio che Teheran possa violare il Trattato di non-proliferazione nucleare». Ha quindi avvertito che «non si può risolvere il problema iraniano da posizioni di forza» e che «se esistono piani in tal senso, essi non porteranno a una soluzione ma semplicemente creeranno una situazione altamente esplosiva in Medio Oriente». Chiaro il riferimento agli «Iran Plans» di cui parla Seymour Hersh sull'ultimo numero del New Yorker: dalla sua inchiesta risulta che il Pentagono abbia già presentato lo scorso inverno alla Casa bianca un piano dettagliato che prevede il bombardamento di Natanz e altri impianti nucleari iraniani anche con armi nucleari tattiche come la bomba penetrante B61-11, concepita per distruggere installazioni sotterranee. Anche se il segretario alla difesa Donald Rumsfeld ha definito tale notizia «fantasiosa», da questa e precedenti inchieste risulta che gli Usa e Israele hanno messo a punto piani di attacco degli impianti nucleari iraniani con armi convenzionali o nucleari. E Mosca ha voluto in tal modo far capire aWashington di esserne a conoscenza. Sulla questione interviene anche un esperto russo, Vladimir Yevseyev, che definisce l'annuncio iraniano «un bluff»: il fatto che gli iraniani siano riusciti a completare in laboratorio il ciclo dell'uranio - sostiene - non significa che siano in grado di produrre combustibile nucleare su scala industriale. Lo contraddice Muhammad Saeedi, vice-capo dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica, annunciando l'intenzione di installare migliaia di centrifughe nei prossimi anni. Cone stanno veramente le cose? Per ora sono entrate in funzione, a Natanz, 164 centrifughe in grado di arricchire l'uranio U238 in U235 al 3-4%, producendo così combustibile adatto a reattori termici. Per produrre armi nucleari occorre arricchirlo a oltre il 90%, anche se basta superare il 20% per costruire una rudimentale bomba nucleare. L'Iran appare però ancora lontano dall'acquisire tale capacità. Detto questo, va ricordato che secondo i dati della Iaea 130 dei 441 reattori nucleari, distribuiti in 31 paesi, funzionano con uranio arricchito adatto alla fabbricazione di armi nucleari. Va ricordato che gli impianti commerciali di ritrattamento del combustibile nucleare hanno prodotto oltre 200 tonnellate di plutonio adatto alla costruzione di armi nucleari, cui se ne aggiungono, solo nei paesi industrializzati dell'Ocse, circa 50 all'anno. Va ricordato che nella corsa agli armamenti nucleari sono state prodotte almeno 2.200 tonnellate di uranio altamente arricchito e 250 di plutonio per uso direttamente militare. Va ricordato che, oltre agli otto paesi che già posseggono armi nucleari (Stati uniti, Russia, Francia, Cina, Israele, Gran Bretagna, India, Pakistan) cui si aggiunge forse la Corea del nord, ve ne sono almeno altri 40 in grado di costruirle. Nel ciclo di sfruttamento dell'uranio, non esiste infatti una netta linea di demarcazione tra uso civile e uso militare del materiale fissile. La molla che spinge altri paesi sulla via del nucleare militare è il fatto che le attuali potenze nucleari - quelle che oggi esprimono preoccupazione perché un giorno anche l'Iran potrebbe costruire armi nucleari - lungi dal disarmare come prescrive il Trattato di non-proliferazione (che India, Pakistan e Israele non hanno mai sottoscritto), continuano a potenziare i propri arsenali sotto gli occhi della Iaea. I pericoli provengono non solo dalla proliferazione orizzontale, ossia dall'accesso di nuovi paesi agli armamenti nucleari, ma soprattutto dalla proliferazione verticale, ossia dallo sviluppo qualitativo di testate nucleari e vettori da parte dei paesi già dotati di armi nucleari. E' in corso una ricerca febbrile, trainata dagli Stati uniti, per realizzare armi nucleari di nuovo tipo che potrebbero essere utilizzate come armi da campo di battaglia in conflitti regionali. Si cancella così la fondamentale distinzione tra armi nucleari e armi convenzionali. Questa, e non semplicemente quella iraniana, è la vera questione esplosiva.
Su La STAMPA Farian Sabahi descrive una corale approvazione dei piani atomici del regime, motivata a suo dire negli iraniani dall'"orgoglio nazionale". Chiude l'articolo con la propaganda di una lobby dedicata a curare gli interessi dell'Iran negli Stati Uniti:
Nelle scuole sono state suonate le campanelle in segno di giubilo, e i Basiji, i volontari delle milizie islamiche, hanno distribuito dolci ai passanti nelle strade di Teheran. L’Iran si è impadronito della tecnologia di arricchimento dell’uranio ed è festa nazionale. Le autorità hanno organizzato le consuete manifestazioni di regime per celebrare, e il presidente Ahmadinejad, in visita nel nord-est del Paese, ha gridato a una folla entUsuasta che «ora i nemici si devono inchinare alla grandezza della nazione iraniana e scusarsi per averla insultata e per aver cercato di ostacolare i suoi progressi».
Come al solito, ad aderire ai cortei e alle parate sono gli esponenti della classe di militari e paramilitari cresciuta nel corso degli otto anni di guerra Iran-Iraq (1980-88) e di cui il presidente Ahmadinejad è l’espressione politica. Il progresso nucleare è comunque percepito come un evento importante anche dalla sinistra e, infatti, il giornale riformatore Sharq ha proposto al parlamento di inserirlo tra le commemorazioni annuali.
Tra la popolazione è diffusa l’opinione che l’ingresso nel club nucleare possa essere uno strumento per uscire dall’isolamento internazionale. Secondo la testata moderata Mardom-Salary, il completamento del ciclo di arricchimento aumenta «le possibilità di un compromesso in occasione dei prossimi negoziati e forse permetterà di riprendere il dialogo con l’America» dopo 27 anni di sanzioni. Della stessa opinione è il deputato Reza Talaie Nik, presidente del comitato alla difesa della Commissione parlamentare per la sicurezza nazionale, secondo cui l’Iran eserciterà un ruolo maggiore a livello regionale e internazionale quando saranno completate le prossime fasi.
«Un grande giorno» è la reazione, ovviamente positiva, della destra religiosa alla notizia dell’arricchimento dell’uranio. Il quotidiano conservatore Jam-e Jam titola «È finito l’apartheid nucleare», precisando che fin dall’inizio il programma iraniano ha avuto finalità soltanto civili. Anche Saeed Jalili, vice ministro degli Esteri incaricato dei rapporti euro-americani, ha ribadito che la Repubblica Islamica «non vuole costruire armi di distruzione di massa perché contrarie ai suoi valori religiosi».
Un editorialista sul giornale Resalat, anch’esso controllato dalla destra, ha scritto che «il progresso tecnologico è irreversibile, nessuno potrà far tornare indietro l’Iran nonostante i tentativi occidentali di impedirci di arrivare a questo punto». La palla passa ora alla diplomazia e, avverte la testata conservatrice Iran, bisognerà sfruttare la visita imminente di El Baradei per trovare una soluzione prima del possibile deferimento al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Dagli Stati Uniti, dove abita da oltre trent’anni, il professor Hooshang Amirahmadi, direttore del Center for Middle Eastern Studies all’Università del New Jersey, osserva che «l’Iran ha ovviamente fatto progressi, ma il regime esagera i risultati ottenuti in ambito nucleare per risvegliare l’orgoglio nazionale e cercare il sostegno dell’opinione pubblica contro un possibile attacco militare sulle installazioni nucleari della Repubblica Islamica».
«L’Iran vorrebbe essere trattato come la Corea del Nord, ma non è detto che le ultime dichiarazioni possano veramente cambiare la situazione», spiega Amirahmadi, secondo cui con Teheran sarebbe meglio «usare la diplomazia e il dialogo». Ma c’è anche il «rischio che la comunità internazionale diventi più sensibile alla questione del nucleare iraniano e si giunga allo scontro».
Se a Washington alcuni vorrebbero intervenire militarmente in Iran, altri credono sia venuto il tempo di trattare direttamente mettendo fine alle sanzioni perché controproducenti: «L’escalation nucleare e l’elezione del presidente ultraconservatore Ahmadinejad sono il risultato di politiche sbagliate, le sanzioni hanno radicalizzato l’Iran», conclude Amirahmadi, impegnato nel dialogo tra gli Stati Uniti e Teheran anche attraverso l'American Iranian Council la cui missione è proprio la collaborazione tra Washington e Teheran.
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