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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.03.2006 Ma Israele non rifiuta il dialogo
come sostiene un editoriale scorretto

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Franco Venturini
Titolo: «Olmert è primo ma non sfonda Israele, maggioranza difficile»

Franco Venturini sulla prima pagina del CORRIERE della SERA di mercoledì 29 marzo 2006 critica il programma di Kadima: il ritiro unilaterale "lascia ai palestinesi una finzione di Stato che certamente alimenterà la loro rabbia e la loro miseria" , mentre il dialogo con Abu Mazen o con un'Hamas che potrebbe covertirsi al pragmatismo é  una possibilità da tenere comunque aperta.
Venturini non si é accorto che sono i dirigenti palestinesi , per endemica corruzione e per la  contiguità (o l'identificazione pura e semplice) con il terrorismo  ad essersi dimostrati incapaci di costruire uno Stato nei territori già ceduti al loro controllo.
E che Kadima é disponibile sia la dialogo con Abu Mazen, purché l'autorità del raìs  sia reale, sia a quello con Hamas, purché da essa vengano un riconoscimento del diritto all'esistenza di Israele e la rinuncia al terrorismo .
Ecco il testo:
 
 
Nessun israeliano deve essere riuscito a votare o ad astenersi, ieri, senza rivolgere almeno un pensiero a Ariel Sharon. Inchiodato da gennaio a un letto d'ospedale, ostaggio di un coma irreversibile, l'ex premier ha di certo svolto egualmente una azione aggregatrice a sostegno della sua creatura Kadima. Ma Sharon, con la sua assenza ormai permanente, ha provocato anche un cambiamento più profondo che riguarda tutti i partiti e tutti gli elettori israeliani: è sparita con lui la seconda generazione dei padri fondatori di Israele, le nuove parole d'ordine sono diventate più sociali e meno ideologiche, il laburista Amir Peretz — vincitore morale delle elezioni — è il primo sefardita a guidare un grande partito, gli equilibri politici figli del proporzionale restano instabili ma appaiono anche investiti da un nuovo generale disorientamento figlio della mancanza di un leader. Sarebbe difficile comprendere il responso delle urne israeliane senza ricordare questa doppia e contraddittoria influenza dell'ex premier infermo: da un lato punto di riferimento, dall'altro motivo di destabilizzazione. Ehud Olmert, lo sbiadito erede di Sharon, ha vinto meno bene del previsto e senza i manifesti dell'illustre predecessore forse non avrebbe vinto. Di Sharon, peraltro, Olmert ha adottato anche la filosofia: il modello del ritiro da Gaza si applicherà parzialmente alla Cisgiordania, e molti coloni dovranno ripiegare al di qua del «muro di protezione» per far sì che Israele possa avere confini permanenti e sicuri entro il 2010. Il tutto unilateralmente, proprio come Sharon fece a Gaza. E con le sue stesse motivazioni: davanti alle realtà demografiche nella regione il distacco unilaterale dai palestinesi è l'unica possibilità che resta a Israele per continuare a essere uno Stato democratico e ebreo. Se questa è la logica che Sharon è riuscito a trasferire a Olmert facendo comunque di Kadima il primo partito israeliano, sul rovescio della medaglia è il tramonto dello stesso Sharon, e la conseguente assenza di un leader carismatico, a far pesare non poche incognite sull'attuazione del «piano Cisgiordania». I laburisti, con i quali Olmert farà verosimilmente coalizione (ma come insegna la tradizione politica israeliana nessuno può escludere altre audaci soluzioni), sono d'accordo sul disimpegno. Ma ritengono che con i palestinesi (nella persona di Mahmoud Abbas) si debba negoziare, e che Olmert debba assumere impegni economici e sociali ai quali l'ex sindacalista Peretz di sicuro non rinuncerà. Senza contare che il Likud clamorosamente sconfitto e le altre formazioni di destra, a cominciare da quella di Avigdor Lieberman premiata dal voto di origine russa, non staranno a guardare. Aspettiamoci dunque un confronto al calor bianco sul programma di Olmert in Cisgiordania. E rileviamo anche che la dottrina della divisione fisica dai palestinesi, oltre a capovolgere le concezioni negoziali di Oslo, di Camp David e della Road Map, lascia ai palestinesi una finzione di Stato che certamente alimenterà la loro rabbia e la loro miseria. Nel breve termine, davanti alla vittoria elettorale di Hamas e al suo rifiuto di riconoscere lo Stato di Israele, si può capire che il futuro premier di Gerusalemme non abbia molte alternative. Ma esiste anche Abu Mazen, Hamas non è eterno e forse non sarà nemmeno immobile. La speranza è che Olmert, per un giorno che forse potrebbe arrivare, lasci la porta almeno socchiusa. E che attraverso quella breccia, oltre a uno Stato di Israele finalmente sicuro, si possano scorgere anche lo spazio e la volontà che servono alla nascita di uno Stato palestinese.

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