Il GIORNALE di lunedì 27 marzo 2006 pubblica un'intervista di Luciano Gulli a Raanan Gissin, consigliere e portavoce politico di Sharon, sulle imminenti elezioni israeliane.
Ecco il testo:
«Queste non sono elezioni normali. Sono un referendum su un processo destinato a durare anni e ad attraversare varie campagne elettorali. Elezioni di svolta, le definisco io. Come quelle che inaugurarono il New Deal in America, dopo la crisi del 1929. Perché il punto, prima ancora che politico, è antropologico, se mi passa la parola. Sintetizzo: gli israeliani vogliono la pace, ma non ci credono. Sono stanchi di promesse e di cerimonie sul prato della Casa Bianca. Stanchi di accordi altisonanti che poi partoriscono topolini. Noi vogliamo solo una vita normale, serena. Vorremmo andare in vacanza in Toscana, portare i bambini a Disneyland. Vivere come la gente normale. Per ottenere questo dobbiamo proseguire sulla strada tracciata da Ariel Sharon. Alternative non ce ne sono». Ranaan Gissin, 57 anni, portavoce e consigliere politico della «Grande ombra» che giganteggia sullo sfondo delle elezioni di martedì si siede davanti a un bicchiere di vino rosso in un ristorante del centro. Oggi ha promesso di dedicarci tutto il tempo che vorremo. Fuori dall'uscio ci sono le telecamere di Al Jazeera e un cronista del Golfo che incrocia impaziente lasciando una scia di fumo come una torpediniera. «Aspetteranno» risponde lui allegro, giocherellando con il portacipria dorato, da vamp del video, che il vecchio soldato con la faccia da cane da presa si è portato appresso. «Un po' di make up... balorde esigenze televisive... che vuol farci...», si scusa facendo piroettare sul tavolo l'arnese dorato. Di Kadima, il partito fondato da Sharon, Gissin rappresenta una delle anime più profonde. Quando parla lui, è come se parlasse il grande assente, tuttora ricoverato in coma all'ospedale Hadassah. Ed è lì, dopo le interviste, che Gissin andrà, come fa spesso. La strada tracciata da Sharon prevede l'abbandono da parte di Israele di gran parte delle colonie. È questo che intende? «Esattamente. Si ricorda la guerra del Kippur, nel '73, quando Sharon con le sue truppe attraversò il canale di Suez distruggendo la Terza Armata egiziana? Allora, con quella mossa, salvò il Paese. Oggi è come se ci accingessimo a un secondo attraversamento. Dopo il ritiro da Gaza si è sciolto un nodo. Prima eravamo al bivio: ci teniamo tutto il territorio conquistato, inseguendo il sogno di Eretz Israel, del Grande Israele, o facciamo delle rinunce territoriali per guadagnarci un futuro di stabilità? Sharon, col suo istinto infallibile, ha capito che cosa voleva il popolo. E ha scelto. Le vecchie ideologie, gli schematismi di destra e sinistra avevano ingessato gli elettori. Lui ha capito che il sogno del Grande Israele era diventato irrealistico. Si è mosso da solo. Dietro non aveva né il partito né la Knesset. Ma ha visto giusto». Anche la demografia è contro di voi... «Ma soprattutto non abbiamo, in campo palestinese, un partner con cui trattare: qualcuno che voglia accettare il nostro diritto a stare dove siamo e dove eravamo mille anni prima che arrivassero gli arabi». In compenso, al potere ci sono ora quelli di Hamas... «Ed è come se fossimo tornati indietro di 60, 70 anni, quando nell'area di Nablus imperversava la banda del predone arabo Abu Jilda, e le mamme dicevano ai bambini: se non fai il bravo arrivano quelli di Abu Jilda. Oggi, al posto di quella vecchia gang ci sono le Brigate Al Aqsa, la Jihad, i Tanzim. E noi restiamo una democrazia sotto il fuoco. Solo negli ultimi giorni, le forze di sicurezza hanno avuto 76 segnali di allerta. Stanno puntando a un grosso attentato suicida in vista delle elezioni, è chiaro». I sondaggi danno sempre in testa Kadima. Ma il Labor di Amir Peretz e l'estrema destra di Liebermann rimontano. Con chi farete squadra? «Sharon diceva che se vuoi fare la pace o la guerra devi avere una grande maggioranza alle spalle. Noi puntiamo a quaranta seggi. Trentacinque è la soglia minima. Israele è come una tribù. E la tribù, proprio ora che il grande capo è assente, è in pericolo. Noi viviamo tutti i giorni come su un surf sulla cresta dell'onda di uno tsunami. O come Alice nel paese delle meraviglie, dove tocca correre per restare almeno dove sei. A queste elezioni ci serve il consenso più ampio possibile. E tutti quelli che condivideranno le linee guida di Kadima saranno ben accetti». E il Likud di Netanyahu? «È come nel big bang, che genera nuove stelle mentre le vecchie finiscono nei buchi neri. O cambiano, o scivoleranno nell'oblio». Ai palestinesi cosa direte? «Il presidente Abu Abbas ha gli strumenti per costringere Hamas ad accettare gli accordi siglati dall'Autorità palestinese con noi. Possiamo aspettare anche un anno. Poi procederemo unilateralmente. Una tregua di due anni, come quella in vigore, non ci basta più. I palestinesi dovranno scegliere. Se vogliono Hamas, con la sua politica di incitamento all'odio, vivranno nella terra di Abu Jilda, senza investimenti stranieri, senza tecnologia, legati alla greppia e al buon volere dei Paesi arabi». Altro tema centrale della campagna di Kadima è la minaccia iraniana. «Ma qui dobbiamo essere chiari. Israele non guiderà la battaglia contro un Paese che finanzia quaranta organizzazioni terroristiche e si sta confezionando l'atomica. È un problema che riguarda tutto il mondo libero. Si deve muovere l'Onu. Si cominci con le sanzioni; li si privi della tecnologia occidentale; si appoggi l'opposizione interna. Poi, se tutto questo non funzionerà, bisognerà accettare l'idea di un intervento militare guidato dagli Usa e appoggiato dalle Nazioni Unite che neutralizzi la minaccia». Un'ultima domanda. Il pericolo islamico si allunga anche sull'Europa. Come rintuzzarlo? «Mettendo sotto la lente d'ingrandimento le moschee, che sono come le serre dell'odio. È lì, in quelle incubatrici, che si insegna alle nuove generazioni a odiare i valori occidentali e il nostro stile di vita. Altro che integrazione».
Anche Il GIORNO pubblica, a pagina 15, un'intervista di Lorenzo Bianchi a Raanan Gissin.
Anche IL MATTINO pubblica apagina 6 un'intervista a di Vittorio Dell'Uva Gissin, il quale ha sì toccato la questione sicurezza dicendo che la barriera sarà completata, ma ha affrontato diverse questioni. Ma Il Mattino sembra ossessionato (di “Muro” si parla anche in una frase estrapolata dall’articolo e posta in evidenza nella pagina) unicamente da ciò che continua propagandisticamente a definire e ritrarre (perché non mostrare la parte di barriera – oltre il 90% dell’intero tracciato – che muro non è?) come “muro”. Anzi, come “Muro”. Con la maiuscola
L'UNITA' sceglie invece di pubblicare un'intervista di Umberto De Giovannangeli al leader laburista Amir Peretz.
Nella sua critica dell'unilateralismo Peretz non viene però meno al rifiuto di riconoscere come interlocutore Hamas, che considera Israele "un'entità illegale". Un aspetto della posizione del politico di sinistra assente dalla titolazione scelta dall'UNITA':" «I palestinesi nostri partner L’unilateralismo non ci aiuta» Amir Peretz, leader dei laburisti racconta la sua Israele: «Un Paese solidale sia con i cittadini ebrei che con quelli arabi»"
Ecco il testo:
UN PAESE PIÙ GIUSTO, solidale. Uno Stato che non viva la propria identità ebraica come ragione di discriminazione verso la minoranza araba. È l'Israele che Amir Peretz, 53 anni, sogna di realizzare alla guida del Partito laburista. In questa intervista a
l'Unità, la prima concessa a un giornale italiano, Peretz racconta se stesso, espone idee e programmi di una «sinistra orgogliosa di sé» e confida il suo ottimismo per il voto di domani, forte degli ultimi sondaggi che assegnano al Labour 21-22 seggi nella nuova Knesset (a fronte dei 18 della passata legislatura).
Chi è Amir Peretz? Con che credenziali si presenta come pretendente ad un incarico così impegnativo come quello di primo ministro di Israele?
«La mia famiglia è giunta in Israele dal Marocco quando io avevo 4 anni. Sono uno di quelli che hanno passato tutti gli stadi di formazione della società israeliana. Sono l'espressione della nuova Israele, il "prodotto" dell'incontro delle diverse popolazioni che vi si sono trovate riunite nei primi anni dopo la sua fondazione e che sono riuscite, con tutte le difficoltà interne ed esterne, a costruire una società forte. Una società in cui persone come me devono lottare per ottenere i risultati desiderati; ma di questo non mi lamento, perché quando si lotta per qualcosa, se ne ha anche più rispetto. Ed è quello che intendo fare nei riguardi degli incarichi che ricoprirò in futuro, come ho fatto d'altronde nel passato, quando sono stato sindaco della mia città (Sderot, nel sud di Israele, ndr.), e soprattutto nel mio incarico come presidente dell'Histadrut (la potente centrale sindacale israeliana, ndr.), una delle istituzioni di maggiore complessità e responsabilità del Paese. Da questa esperienza ho capito che la povertà non è solo mancanza di pane. È anche povertà di cultura, di istruzione. Povertà è anche un bambino che non può andare a teatro, è dipendere dal prossimo, è doversi prostrare per sopravvivere. Povertà è anche l'onore, la dignità che vanno a pezzi. Ed è contro questa povertà che continuo a battermi».
Anche se Lei è ancora poco conosciuto sulla scena internazionale, è arrivato giunto alla guida del Labour Partito laburista scalzando una figura come Shimon Peres e reclamando l'eredità di Rabin ...
«Io mi sono battuto per la guida del partito perché credo fermamente che il Labour debba ritornare a proporre agli israeliani i propri valori, la propria idealità. Deve presentarsi e operare come un vero partito social-democratico, e questo non avviene ormai da tempo, da quando i due maggiori partiti, sulle questioni sociali, si sono sostanzialmente appiattiti su posizioni quasi omogenee. Israele non è solo sicurezza nazionale ed è molto difficile convincere le persone che oggi è ancora possibile, anzi doveroso, riportare l'idealità nella politica. Tutti pensano oggi ad un leader come a chi deve occuparsi di risolvere i problemi scottanti del Paese e basta. Io intendo unire alla concretezza i valori, l'idealità, inserendo il mio operato in un contesto socialdemocratico. La sinistra deve riscoprire l'orgoglio delle proprie radici. Investire sul futuro non significa azzerare il proprio passato. Io sono orgoglioso di essere un uomo di sinistra, perché sinistra per me significa solidarietà, giustizia sociale, diritti, opportunità, valori che furono peraltro a fondamento del pionierismo sionista che dette vita allo Stato d'Israele».
In questa campagna elettorale, Lei ha cercato, con un certo successo, di cambiare l'agenda delle priorità, scompaginando l'ordine del giorno tradizionale, basato quasi esclusivamente sul tema della sicurezza nazionale, ponendo invece al centro le questioni sociali.
«Abbiamo cercato di sottolineare il fatto che la situazione sociale in Israele ha bisogno di una cambiamento radicale. Non c'è in me alcuna sottovalutazione dei pericoli per la nostra sicurezza nazionale, ma non molti, nel mondo politico, si rendono conto che la difficile situazione sociale rappresenta un pericolo strategico non meno grave per il futuro di Israele. Nelle differenze che separano oggi i partiti, soprattutto il Labour e Kadima, quelle maggiori vanno ricercate nell'ambito sociale. Per stare insieme (a Kadima) in un governo, ci dovrà essere il massimo della chiarezza sui quattro punti fondamentali che, dal nostro punto di vista, rappresentano dei paletti invalicabili».
Quali sono questi quattro punti non negoziabili?
«L'innalzamento del salario minimo a mensile a 1000 dollari, al quale si dovrà arrivare entro un anno e mezzo; la lotta al monopolio delle società che forniscono manodopera senza assicurare le giuste condizioni sociali; l'approvazione di una legge sul diritto alla pensione per ogni cittadino; l'ampliamento del pacchetto sanitario assicurato ad ogni cittadino. La nostra influenza nel governo del Paese nei prossimi anni dovrà farsi sentire anche e soprattutto nella lotta alle disuguaglianze sociali».
Il nuovo governo dovrà fare i conti con la «questione palestinese» e ricercare una soluzione ad un conflitto che sembra interminabile. Come intende agire su questo versante?
«Con tutte le difficoltà presenti, si deve cercare il partner fra i palestinesi evitando di continuare a comportarsi come i "patroni" dei palestinesi. Tutti da noi sembrano saper tutto; sia quello che è bene per noi, che quello che è bene per i palestinesi. Netanyahu (il leader del partito di destra Likud, ndr.) è convinto che comprendano solo il linguaggio della forza; Olmert (premier ad interim e leader del partito centrista Kadima, ndr.) non credendo più nella loro capacità di essere partner della pace, ha preso la strada dell'unilateralità. Pensa che se c'è un incendio in casa del vicino, chiudendo la porta, il fuoco non arriverà a noi. No, io penso che si debba fare di tutto per trovare un partner. La nostra sicurezza non può fondarsi solo sulla nostra forza militare. Questa è una illusione, una tragica illusione. Per arrivare alla vera soluzione della questione, si deve andare fino in fondo sulla strada politica, e ciò non può essere fatto senza un partner. Per quanto riguarda Hamas, è chiaro che fino a quando non riconoscerà Israele qualsiasi negoziato sarà improponibile, ma ciò non deve esimerci da ricercare interlocutori disposti al compromesso in campo palestinese, e questo significa, ad esempio, non porre in essere politiche che indeboliscano ulteriormente il presidente dell'Anp Abu Mazen».
E se il terrorismo dovesse continuare?
«Neppure il più accanito sostenitore della pace può permettersi di accettare di convivere con il terrorismo. Il terrorismo deve essere combattuto e dall'altra parte si devono evitare reazioni "esemplari" e tanto meno punizioni collettive. Questo non toglie nulla alla legittimità di Israele a combattere il terrorismo. È giunto il momento che Israele superi la situazione di avere un capo di Stato Maggiore che ha sopra di sé un ministro della Difesa che è un ex Capo di Stato Maggiore, che ha a sua volta sopra di sé un primo ministro che è un ex capo di Stato Maggiore. Penso che le circostanze in cui si muove Israele oggi richiedano che le decisioni non vengano prese filtrando tutto e sempre dalle lenti di "occhiali militari"».
E decisioni prese non da militari, dove dovrebbero portare?
«Innanzitutto, a dare una chance alla pace operando per rafforzare le forze moderate palestinesi. Certo, ciò non potrà avvenire se Abu Mazen non riuscirà a portare pulizia e trasparenza nel suo partito (Al Fatah) e a recuperare la fiducia dei palestinesi, e se noi soffocheremo l'Autonomia creando una crisi umanitaria che esaspererà ancora di più la popolazione e rafforzerà gli estremisti di Hamas».
E quando ci sarà un partner, su quale base territoriale dovrà vertere la trattativa?
«Il punto di riferimento per una trattativa dovranno essere le linee di frontiera del '67 con le modifiche di confine dettate dagli sviluppi demografici e urbani che sono avvenuti da allora. Non si può pensare di cancellare o evacuare città, ma si può e si deve trovare una giusta soluzione in termine di scambio di territori, e mi riferisco soprattutto a Gush Etzion e a Ma'ale Adumim (due tra i più grandi insediamenti in Cisgiordania, ndr.). La grandissima maggioranza degli insediamenti dovrà essere evacuata e solo una parte di essi rimarrebbe, accorpandosi in insediamenti più grandi che rientrerebbero nello scambio di territori di cui parlavo in precedenza».
In una parola, come definirebbe l'Israele di Amir Peretz?
«Un Paese fiero di sé, delle sue conquiste, ma anche consapevole delle storture da superare. Un Paese giusto, solidale al proprio interno e verso i propri vicini palestinesi. Un Paese che scommette sul futuro. Un futuro di giustizia e di pace».
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