giovedi` 15 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






L'Unità - Il Messaggero - Il Giorno - Il Manifesto Rassegna Stampa
08.03.2006 Disinformazione su Hamas, sulle eliminazioni mirate e sull'Iran
quattro quotidiani a confronto

Testata:L'Unità - Il Messaggero - Il Giorno - Il Manifesto
Autore: Umberto De Giovannangeli - la redazione - Giampiero Pioli - Anna Guaita - Ennio Di Nolfo - Michele Giorgio - Marina Forti
Titolo: «Articoli su Hamas e Iran»

"Guerra di minacce " tra Israele e Hamas. così titola l'Unità di mercoledì 8 marzo 2006. Spiega il sottotitolo: "Il ministro della Difesa israeliano: nel nostro mirino anche il premier palestinese incaricato Il movimento integralista che ha vinto le elezioni risponde: pronti a rapire cittadini ebrei ". In realtà la minaccia di rapimenti, pronunciata da Mohammed al Zahar in un discorso davanti ai parenti dei terroristi di Hamas detenuti in Israele, non ha nulla a che vedere con le dichiarazioni di Mofaz circa la non immunità di Haniye nel caso che Hamas "scelga la via del terrorismo".  Inoltre, é chiaro che vi é un'assimetria tra le due "minacce".Quella di Israele é condizionata: diventerà concreta solo se Hamas avrà prima dato corso a un'aggressione terroristica. Quella di Hamas é il puro e semplice annuncio di azioni criminali che non avranno luogo, sostiene al Zahar,  solo se Israele rinuncerà da sé all'autodifesa liberando i terroristi detenuti . L'articolo di Umberto De Giovannangeli sottolinea lo status di Haniye, incaricato da Abu Mazen di formare il governo palestinese, lasciando in secondo piano la questione del terrorismo. Ecco il testo :  


IL PREMIER DESIGNATO entra nel mirino di Israele. L’aver vinto le elezioni politiche non lo mette al riparo da una «eliminazione mirata». Nessuna immunità per Ismail Haniyeh, il leader di Hamas incaricato dal presidente dell’Anp Abu Mazen di formare il nuovo
governo palestinese. «A partire dal momento in cui Hamas sceglierà la via del terrorismo, non faremo distinzioni tra dirigenza politica e non politica. Ci troveremo davanti a una dirigenza terroristica e perciò nessuno dei suoi membri beneficerà dell'immunità», dichiara alla radio militare il ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz. Nei giorni scorsi anche l’ex capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, Avi Dichter, aveva affermato che «se Haniyeh e suoi uomini continueranno la loro politica di terrorismo e di assassini quando saranno al potere, si ritroveranno in cella o raggiungeranno Ahmed Yassin», il leader spirituale e fondatore di Hamas, ucciso da Israele nel marzo 2004. Dichter, come Mofaz, è esponente di Kadima il partito fondato da Ariel Sharon lo scorso dicembre e indicato dai sondaggi come probabile vincitore delle elezioni politiche del 28 marzo prossimo. Ed è probabile che questa durezza di linguaggio sia anche legata alla campagna elettorale in corso in Israele.
La risposta di Hamas non si è fatta attendere. «Hamas - afferma il suo portavoce Sami Abu Zuhri - non si piega alle minacce e ai ricatti. Noi difenderemo gli interessi e i diritti del popolo palestinese quale che sia il costo». Le dichiarazioni di Mofaz, aggiunge, sono «terrorismo di Stato. Queste tattiche del ricatto e della minaccia non ci faranno chinare la testa». Contro i propositi israeliani si scaglia anche Mahmud al-Zahar. Il leader di Hamas nella Striscia di Gaza accusa Israele di aver intrapreso nei Territori una escalation a fini elettorali, in vista delle politiche del 28 marzo. «Usano il sangue dei palestinesi per vincere le elezioni», tuona al-Zahar riferendosi ai dirigenti israeliani. «Ma il sangue versato sarà vendicato», aggiunge. riferendosi stavolta all’uccisione di cinque palestinesi (fra cui due miliziani della Jihad islamica) colpiti l’altro ieri a Gaza da un razzo israeliano. Al-Zahar espone i suoi bellicosi propositi nel corso di un comizio tenuto a Gaza di fronte ai familiari di detenuti palestinesi. «Busseremo a tutte le porte - promette al-Zahar, secondo il sito internet “Palestinese-info”, legato a Hamas - ci muoveremo a tutti i livelli, useremo tutti i mezzi possibili incluso il rapimento di coloni o soldati israeliani per garantire la libertà incondizionata di novemila prigionieri reclusi nelle carcere di Israele».
Alla guerra delle dichiarazioni si aggiunge quella che Hamas ha dichiarato al luogo della «perdizione e del malcostume»: il Casino Oasis di Gerico. In una intervista ad «al-Quds al-Arabi» lo sceicco Nayef Rajub, uno degli uomini forti di Hamas in Cisgiordania e deputato in parlamento, non ha lasciato dubbio alcuno che il maestoso edificio concepito nella metà degli anni Novanta per divertire molte centinaia di turisti occidentali al giorno cambierà funzione e sarà messo al servizio degli interessi del popolo palestinese. «Era un luogo di disgrazia. La sua chiusura definitiva - prevede il religioso - sarà un giorno di festa per i palestinesi e per i musulmani». Presto o tardi Hamas provvederà a chiudere «altri centri di corruzione, che danneggiano il nostro popolo e non sono compatibili con la nostra religione». Per una circostanza ironica, proprio suo fratello, l’ex capo della sicurezza preventiva in Cisgiordania, colonnello Jibril Rajub, era stato identificato più di ogni altro con il Casino di Gerico, che nelle giornate buone vedeva un giro d’affari quotidiano di quasi un milione di dollari. Ma per Hamas quei soldi sono «impuri» perché provento di attività «empie». Non basta. Secondo documenti in possesso di Hamas, quel Casino è stato eretto su «terre del Waqf», che appartengono cioè ad associazioni islamiche. Nella «nuova Palestina» targata Hamas non ci saranno più «luoghi di perdizione», ribadisce il dirigente islamico. L’Oasis «della perdizione» ha i giorni contati.

La propaganda  che dipinge la politica di Israele verso Hamas come brutale e minacciosa  e l'organizzazione terroristica come disposta al dialogo,  é al centro di una cronaca pubblicata dall'edizione on-line del quotidiano, come al solito più esplicita di quella cartacea nella sua linea antisraeliana. Ecco il pezzo:

Hamas si rifiuta di riconoscere lo Stato di Israele ma potrebbe organizzare un referendum su questo e dare ai palestinesi la possibilità di pronunciarsi direttamente sul diritto di Israele a uno Stato in Palestina. A fare questa apertura è il neo presidente del parlamento di Ramallah Aziz Dweik, uno dei protagonisti della virata di Hamas all’interno delle istituzioni, le cui dichiarazioni sono riprese oggi dalla stampa palestinese. Dweik ha precisato che innanzi tutto Israele dovrà definire i suoi confini – una questione talmente intricata da non essere stata mai affrontata nei negoziati di pace né nel trattato di Oslo né nella Road Map - , altrimenti, continua Dweik, i palestinesi «non saprebbero che cosa riconoscere». Inoltre Israele dovrebbe compiere alcuni passi verso il riconoscimento dei diritti palestinesi, in particolare per quanto concerne il diritto del ritorno per milioni di profughi. Dweik ha aggiunto che a un referendum di tale importanza dovrebbero partecipare anche i palestinesi che vivono nella Diaspora, cioè quelli che dal 1948 in poi hanno dovuto abbandonare i loro villaggi e le loro terre in seguito all’occupazione militare israeliana. Se Israele «inizierà a riconoscere i diritti dei palestinesi», ha concluso il presidente del parlamento, i palestinesi a loro volta inizieranno a riconoscere Israele.

 

L’idea del referendum non sembra affatto una trovata per uscire dall’impasse con Tel Aviv ma appare invece in stretta connessione con la linea di Hamas. E dimostra inoltre quanto Hamas abbia imparato il gioco democratico.

Perciò suonano a dir poco stonate le minacce del ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz il quale è tornato a dire che se dovessero riprendere gli attentati kamikaze in Israele, le forze di sicurezza di Tel Aviv non esiterebbero a colpire il primo ministro incaricato Ismail Haniyeh. Le parole di Mofaz sono state giudicate «terroristiche», da Hamas. Ma altrettanto si dovrebbe dire di quelle pronunciate dal capogruppo parlamentare di Hamas, il “duro” Mahmud a-Zahar che qualcuno accredita come prossimo ministro degli esteri che in un infiammato comizio davanti ai familiari dei detenuti ha ipotizzato rapimenti di israeliani come estremo strumento di scambio con i detenuti palestinesi in attesa di giudizio che Israele si era impegnata a liberare.

Il leader dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, reduce da una visita a Mosca , ha messo in chiaro - da Damasco dove vive in esilio - che il movimento palestinese vincitore delle elezioni di gennaio non intende rinunciare «né alla resistenza né al potere». «Noi vogliamo una pace giusta che restituisca ai palestinesi i loro diritti - ha affermato - Hamas non vuole certo uno stato surrogato». «Lo abbiamo detto ai dirigenti russi - ha aggiunto - e lo ripetiamo al mondo intero: la soluzione non passa per il riconoscimento dello stato di Israele ma attraverso la fine dell'occupazione».

Intanto, dopo lo scongelamento dei fondi dell’Unione europea, oggi la Banca Mondiale ha destinato 42 milioni di dollari alle casse esangui dell'Autorità Nazionale Palestinese, dopo il blocco dei trasferimenti delle tasse doganali da parte di Israele. Un altro passo avanti sulla via del disgelo e dell’accettazione della vittoria elettorale di Hamas da parte di Israele è quella che viene poi dalla Russia. Appena finiti i colloqui con i dirigenti del Movimento dello sceicco Yassin e con l’Egitto, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov è volato a Washington per cercare di ammorbidire i principali alleati di Israele.

Dopo la cena di lavoro avuta ieri sera con il segretario di Stato americano Condoleezza Rice e con il consigliere per la Sicurezza nazionale Stephen Hadley, il ministro russo ha visto il presidente Bush. Il portavoce del dipartimento di Stato, Tom Casey, ha parlato di una discussione «franca e onesta», termini diplomatici per dire che tra Stati Uniti e Russia non tutto fila liscio.

Nel frattempo un’altra fonte di finanziamento per l’Anp viene a mancare. Hamas, che è un movimento con una forte impronta religiosa, salito al governo ha subito confermato la chiusura a lucchetto del Casinò di Gerico, l’unico esistente sia in Cisgiordania che a Gaza che in Israele. «È un luogo di corruzione che fa solo male al nostro popolo e alla nostra religione»: questo il giudizio di un dirigente di Hamas, lo sceicco Nayef Rajub, sul Casino Oasis di Gerico aperto all'inizio negli anni Novanta da suo fratello Jibril Rajub (un responsabile della sicurezza interna palestinese) assieme con imprenditori israeliani ed austriaci e recentemente ristrutturato. Fra gli investitori nel progetto figurava anche Mohammed Rashid, un consigliere finanziario del presidente Yasser Arafat. Il Casinò aveva un vasto pubblico ed era l’unico luogo in cui si incontravano in pubblico palestinesi e israeliani, finché non fu chiuso all’inizio dell’Intifada perché troppo pericoloso. Adesso quel luogo va chiuso del tutto, ha detto alla stampa palestinese lo sceicco Rajub. «Quel Casino rappresenta una vera disgrazia per il nostro popolo» ha rincarato.Rajub ha detto che sarà trasformato in qualcosa «che serva tutto il popolo». Probabilmente un grande albergo, sfruttando il fatto che Gerico è una fiorente meta turistica.

"Nucleare passo indietro di Mosca su Teheran" é il titolo dell'UNITA'  sul dossier del nucleare degli aytollah. Mosca in realtà non aveva mai fatto il "passo avanti", non avendo annunciato nessun accordo". Nel testo un passaggio presenta Condoleezza Rice "gelida come sempre" alla stregua di un cattivo da fumetti. Ecco il testo:  

WASHINGTON Gli Stati Uniti tengono duro: l'Iran non deve fare nessun passo verso la bomba atomica e non deve arricchire sul proprio territorio neppure piccole quantità di uranio. E la Russia dà l'impressione di fare un passo indietro: «Non c'è un compromesso russo in vista sui programmi nucleari iraniani», assicura il ministro degli esteri Serghiei Lavrov dopo un incontro con il segretario di Stato Condoleezza Rice, che -gelida come sempre- osserva che Mosca non aveva informato Washington dell'esistenza di una sua nuova proposta. Lavrov allinea la posizione russa su quella Usa: «Discuteremo la situazione sulla base del rapporto che l'Aiea», l'agenzia di Vienna per l'energia atomica, riunita in questi giorni, «presenterà al Consiglio di Sicurezza dell'Onu come convenuto a febbraio». Nonostante le minacce di Teheran di ritorsioni energetiche, il dossier nucleare iraniano continua la marcia d'avvicinamento all'Onu. L'Aiea, che esamina il dossier in vista di un deferimento di Teheran al Consiglio di sicurezza Onu, ha aggiornato a stamane i lavori della riunione del board dei governatori.

Anche IL MESSAGGERO disinforma sia su Hamas che sull'Iran. Nella cronaca  "Israele avverte: possiamo colpire il candidato premier di Hamas leggiamo:

Un dirigente di Hamas ha ventilato la possibilità  che venga indetto un referendum popolare per chiedere ai palestinesi se sono favorevoli a riconoscere Israele. Prima di tale decisione, però, lo Stato ebraico deve scelte precise , innanzitutto indicando i propri confini , in secondo luogo riconoscendo il diritto del ritorno per milioni di palestinesi profughi.

Da questo passo non si capisce che l'accettazione di questa seconda condizione segnerebbe la scomparsa di Israele come Stato degli ebrei,né che la definizione di "profughi palestinesi" include anche i discendenti dei profughi del 48, né che i profughi sono (evidentemente) rimasti tali per volontà politica: quella di chi vuole strumentalizzarli per delegittimare Israele.

L'articolo di Anna Guaita "Gli Usa: l'Iran va deferito all'Onu" non chiarisce che la prosecuzione dell'arricchimento dell'uranio in territorio iraniano e delle attività di ricerca destituirebbe l'ipotesi di "accordo" respinta dagli Usa di ogni effettivo valore nel garantire che l'Iran non si doti della bomba atomica. In compenso avanza un paragone facilmente interpretabile da lettori quotidianamente esposti a propaganda antiamericana e "pacifista" come una "condanna preventiva" della politica di Washington:

E' quasi un deja vu': ocme all'epoca di Saddanm Hussein, gli Satti uniti fanno la voce  grossa e minacciano anche interventi significativi, mentre gli ultimi tentativi internazionali di trovare un accordo con Teheran naufragano nel nulla.

Il 7 marzo l'editoriale di Ennio Di Nolfo  ribadiva con vari giri di parole il "diritto" dell' Iran a possedere missili nucleari, "dimenticandosi" di informare  che il suo presidente ha detto che Israele va' cancellato dal globo aggiungendo che l' Olocausto non sarebbe mai accaduto. Ecco il testo:

TROPPO spesso si tende a amalgamare i temi riguardanti l’elaborazione della politica interna e internazionale dei Paesi del Medio Oriente (inteso in senso lato) con quelli del terrorismo o del fondamentalismo islamico. Senza negare che spesso fra questi aspetti vi siano connessioni obiettive è però necessario tenere presente che i Paesi dei quali si discute sono anche realtà statali (o quasi-statali) che debbono porsi il problema di elaborare una loro propria linea di azione politica, che orienti la loro attività in modo sufficientemente stabile e efficace. Troppo spesso, in altri termini, situazioni diverse vengono confuse in un insieme dal quale emerge la sensazione di un caos ingovernabile o incontrollabile. Viceversa solo alcuni temi sono omogenei e per molti altri spiccano le diversità, poiché il modo in cui ciascuno dei Paesi mediorientali deve porsi il problema della propria sicurezza o del consenso ha caratteri diversi per ciascuno di tali Paesi.
Oggi i temi dominanti sono quelli legati al nucleare iraniano, alla formazione del governo palestinese e al futuro dell’Iraq. Sebbene da molte parti si tenda a considerarli come problemi analoghi, legati alla politica anti-occidentale di Al Qaeda, questa visione appartiene più alle speranze estremistiche che alla realtà pratica delle situazioni.
Il caso del nucleare iraniano appartiene sia alla elaborazione della politica interna sia al ruolo che il governo di Teheran vuole dare al proprio Paese sul piano internazionale. Dal punto di vista interno il potere dell’attuale gerarchia iraniana appare solido. In realtà esso è minato dalla necessità del successo sul piano economico e dalla divaricazione esistente fra i gruppi più o meno radicali in relazione alla necessità di elaborare una politica economica adeguata a far fronte alla crescita demografica e ai problemi dello sviluppo. Sul piano internazionale, l’Iran rappresenta, dopo tutto, una grande potenza intermedia (val forse la pena di ricordare che nemmeno i Romani riuscirono a sconfiggere i Persiani) e come tale non può accettare condizionamenti sul piano dello sviluppo energetico anche quando esso rasenta il rischio di apparire come un pericolo militare. A prescindere dall’osservazione che il problema energetico si pone, per uno dei principali produttori di petrolio, in modo ben diverso di come esso si ponga per altri Paesi, resta il fatto che lo sviluppo di centrali nucleari capaci di lavorare l’uranio arricchito sino a rasentare la possibilità di una sua utilizzazione militare rappresenta una sfida non trascurabile ma tale da dover essere circoscritta. Se non si contesta il fatto che tutti i Paesi che circondano l’Iran sono in possesso di armamenti nucleari propri oppure ospitano quelli delle potenze alleate, si deve correre il rischio di un negoziato, aspro sin che si vuole ma costruttivo, cioè tale da superare l’animosa propensione del presidente Ahmadinejad alle declamazioni estremistiche per ricondurlo a una linea politica più compatibile con la stessa sicurezza iraniana.
Per quanto riguarda l’Iraq, si può forse condividere la cautela del “Washington Post”, che presta credito ai generali americani di stanza nel Paese, secondo i quali il tentativo di innescare una vera e propria guerra civile, provocata dalla lotta dall’offensiva sunnita, è fallito nonostante l’incendio della sacra moschea di Samara e nonostante gli scontri dei due giorni successivi. Resta dunque forse possibile immaginare che si formi quel governo di coalizione che porti il Paese verso una sistemazione quasi-pacifica.
Infine vi è il problema palestinese di Hamas. La prima missione all’estero dei rappresentanti di Hamas si è svolta a Mosca in questi giorni e pare aver riconfermato il rifiuto di accettare quel riconoscimento di Israele che è divenuto la condizione preliminare perché si riprenda il cammino della pacificazione. Tuttavia il primo ministro israeliano Olmert, afferma di voler mantenere l’impegno a sgomberare diversi insediamenti in Cisgiordania e fa di questo punto uno dei temi forti della campagna elettorale del partito Kadima, da lui guidato dopo la malattia di Sharon. Il compromesso appare difficile ma inevitabile. Il problema è quello delle forme che tale compromesso assumerà.
Ma è proprio su questi punti delicati che si inserisce l’azione del mondo occidentale. Se gli Stati Uniti e l’Europa riescono a comporre un fronte unitario in vista della soluzione costruttiva di tutti questi problemi, allora si potrà immaginare un esito non infausto. Se viceversa le rivalità riprenderanno il sopravvento, nell’immaginazione che sia ancora possibile una politica di esportazione della democrazia o di un’azione unilaterale da parte di Paesi isolati, allora si lascerà che le delegazioni dei Paesi mediorientali vadano a Mosca, per discutere con chi, oggi, non può fare altro che da intermediario rispetto all’Occidente. In altri termini, si sceglie la strada del rinvio, per l’incapacità o la mancanza di volontà di affrontare con la necessaria coerenza problemi vicini e collegati ma diversi fra di loro.

Disinforma anche il Giorno. Nell'articolo su Hamas viene riferita soltanto la richiesta  relativa ai confini di Israele, non quella relativa ai profughi (che equivale a porre come condizione per il referendum sul diritto all'esistenza di Israele il suicidio di Israele ). Nello stesso articolo le spiegazioni fornite dai piloti israeliani circa la morte, in un raid contro dirigenti della Jihad islamica, di civili palestinesi innocenti vengono presentate con un sarcasmo volto a screditarle a priori.

Sull'Iran  IL GIORNO sostiene (nel titolo e nell'articolo di Giampaolo Pioli) che "Gli Usa frenano il negoziato russo". Il che é falso. la verità é che il negoziato non ha prodotto risultati apprezzabili.

Tra i disinformatori non poteva mancare Il MANIFESTO, che titola "Il premier palestinese nel mirino" e "Nucleare, il giorno dei falchi". Gli articoli, rispettivamente di Michele Giorgio e Marina Forti hanno un contenuto ben sintetizzato da queste due frasi.
Israele, secondo Giorgio,  minaccia il futuro premier palestinese, non il terrorista Haniye. Hamas del resto é un "movimento religioso-assistenziale (responsabile di decine di attacchi suicidi in Israele) ". Si notino la parentesi e la falsificazione dei dati: gli attentati organizzati da Hamas sono centinaia non decine. Le esecuzioni mirate di Israele, per contro, diventano "massacri di civili", intenzionali , si presume.
Per Marina Forti la "levata di scudi" della comunità internazionale ha reso "meno concilianti" anche i commenti iraniani. Di seguito, l'articolo di Giorgio:

Ismail Haniyeh non è ancora ufficialmente il nuovo primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese ma è già finito al centro del mirino d'Israele. Il ministro della difesa dello Stato ebraico, Shaul Mofaz, ieri ha lanciato un'esplicita minaccia di morte contro l'esponente di Hamas, il movimento islamista uscito trionfatore dalle elezioni del 25 gennaio. «Nel momento in cui Hamas scegliesse il terrorismo nessuno dei suoi membri sarebbe immune (dagli omicidi mirati), nemmeno Ismail Haniyeh», ha dichiarato Mofaz aprendo la campagna elettorale di Kadima, il partito fondato da Sharon in vista delle legislative del prossimo 28 marzo. «Continueremo a questo ritmo le nostre azioni di prevenzione mirata», ha detto Mofaz riferendosi a quelli che il quotidiano israeliano Ha'aretz ha definito senza mezzi termini «assassini». Il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuri, si è limitato a rispondere che «queste minacce non spaventano Hamas né il popolo palestinese».

I commenti del titolare della difesa se, da un lato, mirano a fronteggiare i partiti di destra sulla sicurezza, tema tradizionalmente dominante nelle elezioni per la Knesset, dall'altro sono apparsi particolarmente brutali, perché arrivati il giorno dopo l'ennesimo massacro di civili a Gaza. Nel corso di un raid aereo contro miliziani della jihad islamica, lunedì sera sono rimasti uccisi quattro civili: Raad al Batash, 8 anni, Mahmoud al Batash, 15 anni, Ahmed a Susi, 24 anni, e l'anziana nonna di uno dei due membri della jihad, stroncata da un infarto. I risultati preliminari dell'inchiesta dell'aviazione di Tel Aviv puntano però a scartare qualsiasi responsabilità dei piloti o degli alti gradi che hanno pianificato la disastrosa operazione, per la quale i servizi segreti già prevedono una sanguinosa rappresaglia.

Quando il gruppo di ragazzi che è rimasto vittima dell'attacco si è avvicinato agli obiettivi, sarebbe stato ormai troppo tardi per deviare la traiettoria dei missili sparati dall'elicottero Apache. La pre-indagine conclude dunque: nessun errore tecnico né responsabilità umana. E quindi, se il comandante dell'aviazione, il generale Eliezer Shakedi, afferma che «vengono fatti sforzi disumani per ridurre il numero di vittime civili dei raid aerei», Mofaz può tagliare corto: «Questa è la politica giusta e continuerà». E poco importa che il portavoce del ministero degli esteri francese, Jean Baptiste Mattei, ieri abbia espresso una dura condanna da parte del governo di Parigi alle esecuzioni mirate.

Il movimento religioso-assistenziale (responsabile di decine di attacchi suicidi in Israele), che dopo la vittoria nelle urne si sta trasformando in partito vero e proprio, dal canto suo punta ora sulla moderazione. Il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, dopo aver incontrato a Mosca gli esponenti di Hamas, ieri a Washington ha fatto sapere al segretario di stato Usa, Condoleezza Rice, che gli uomni di Haniyeh sarebbero pronti ad accettare la road map, il piano di pace tracciato dal Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia) e mai decollato. Il presidente del parlamento di Ramallah, Aziz Dweik, (Hamas) ha fatto sapere che il suo partito studierà la possibilità di riconoscere lo stato di Israele solo se gli sarà chiesto di compiere questo passo da un referendum popolare. Dweik ha precisato che innanzi tutto Israele dovrà chiarire quali saranno i suoi confini, altrimenti i palestinesi «non saprebbero che cosa riconoscere».

Ma la campagna elettorale orfana di Sharon (in coma dall'inizio di gennaio) avrà anche la «seconda fase del ritiro delle colonie» come protagonista, con Kadima e i laburisti che sostengono il piano e la destra che vi si oppone. Ieri il premier Ehud Olmert ha fatto capire quanto sia detrminato a proseguire su quella strada che - assieme al completamento del muro all'interno della Cisgiordania occupata e a possibili futuri scambi territoriali - mira ad ottenere per lo stato ebraico il maggior territorio possibile della Palestina storica, con il minor numero di arabi.

«Non è un segreto che nei prossimi anni non investiremo le somme di denaro spese in passato per le infrastrutture oltre la Linea verde», ha dichiarato Olmert nel corso di una conferenza a Tel Aviv. Olmert ha parlato di «miliardi» da sottrarre alle colonie.

E quello di Marina Forti:

Trapelano solo indiscrezioni, dalla riunione dei 35 paesi che compongono il direttivo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, a Vienna. E le indiscrezioni dicono, per il momento, che ci sono due «partiti»: quello che sta cercando una nuova formula negoziata per disinnescare il rischio di una crisi internazionale sul programma nucleare iraniano - e quello che invece vuole una sonora condanna dell'Iran da trasmettere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Con ordine. Il mese scorso il direttivo dell'Aiea ha deciso a maggioranza di «informare» il Consiglio di sicurezza dell'Onu sullo stato del programma nucleare iraniano e sui suoi dubbi circa la natura delle attività di Tehran. Ora il medesimo direttivo è riunito per considerare l'ultimissimo rapporto del direttore Mohammed el Baradei sulle ispezioni compiute in Iran: rapporto che non accusa l'Iran di aver violato il Trattato di non proliferazione, ma neppure lo «assolve» dai dubbi su attività non dichiarate.

L'indiscrezione circolata in modo più insistente, fin da lunedì sera, è che la Russia abbia fatto circolare un'ipotesi di compromesso: del tutto informale e solo verbale, la proposta sarebbe di permettere all'Iran di mantenere «limitate attività di ricerca» sull'arricchimento dell'uranio (su piccola scala, ricerca «pilota») se si asterrà dall'arricchimento su scala industriale (nell'impianto di Natanz) per almeno i prossimi 7 o 9 anni; la produzione su grande scala (cioè il combustibile per i reattori elettronucleari che l'Iran sta costruendo, con la cooperazione russa) avverrebbe invece in Russia, in joint venture. L'Iran dovrebbe anche impegnarsi a ratificare il protocollo aggiuntivo dell'Aiea che permette ispezioni a sorpresa (quello che ha già firmato e ha applicato fino allo scorso gennaio, anche senza ratifica) - questo dicono, a condizione di anonimità, diplomatici occidentali all'Aiea, citati dalle diverse agenzie di stampa.

Sembra che a caldeggiare un compromesso simile sia in primo luogo il direttore dell'Agenzia: lunedì el Baradei si è detto convinto che un accordo si potrà fare, e ha più volte sottolineato che l'alternativa - una rottura - rischia di innescare una crisi pericolosa, in cui a Tehran avrebbero il sopravvento le posizioni più radicali (magari coloro che vogliono uscire dal Tnp).

Di sicuro però l'ipotesi russa non è un compromesso che piace all'amministrazione Bush. Anzi: Washington ha opposto un tale sbarramento che Mosca non ha formalizzato affatto la sua proposta: ha addirittura negato che esista. «Non c'è nessuna proposta di compromesso», ha detto il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, ieri in visita a Washington, durante una conferenza stampa congiunta con la segretaria di stato Condoleezza Rice. Riferisce il New York Times che Rice ha addirittura telefonato al direttore dell'Aiea per dire che gli Usa «non possono sostenere» un simile compromesso. Parlando ai giornalisti, Rice ha detto che «i russi non ci hanno informato di nessuna ipotesi» di compromesso con l'Iran. Il sottosegretario di stato Nicholas Burns ha aggiunto, in un'intervista, che gli Stati uniti «non accetteranno mezze misure», respingeranno ogni soluzione che non chieda all'Iran di fermare ogni attività di arricchimento dell'uranio. E' sceso in campo anche il vicepresidente Dick Cheney: perlando al Aipac, la lobby filo-israeliana americana, ha detto che «la comunità è pronta a imporre [all'Iran] significative conseguenze» se non rinuncerà del tutto al suo programma nucleare. Il messaggio è chiarissimo.

Di fronte alla levata di scudi, anche da parte iraniana i commenti sono molto meno concilianti di quello che sembrava la vigilia. L'ambasciatore dell'Iran presso l'Aiea ha detto che il suo paese è disposto a una moratoria di due anni ma non di più, e che per «ricerca» intendono installare tremila centrifughe per l'arricchimento (al momento i test avviati nell'impianto sperimentare di Natanz riguardano una «cascata», o «catena» di 20 centrifughe).

Cliccare sui link sottostanti per inviare una e-mail alla redazione de L'Unità, Il Giorno, Il Messaggero  e Il Manifesto


lettere@unita.it
prioritaria@ilmessaggero.it
redazione@ilmanifesto.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT