Il CORRIERE della SERA di mercoledì 1 febbraio 2006 pubblica apagina 12 unnarticolo di Lorenzo Cremonesi sull'aperta rottura da parte della Russia del fronte della fermezza verso Hamas. Ecco il etsto:
GAZA — È braccio di ferro tra Hamas e l'Europa. Dopo le caute aperture di due giorni fa, ieri la Ue ha parlato per voce del suo responsabile per la politica estera, Javier Solana, il quale ha chiarito che «sarà molto difficile» per i 25 continuare a finanziare l'Autorità palestinese. «Se Hamas non modifica la propria piattaforma politica come richiesto, per noi sarà impossibile cooperare con un'organizzazione che non rinuncia alla violenza e non è pronta a negoziare con la controparte», ha detto, riferendosi alla piattaforma ideologica stilata dai fondatori di Hamas nel 1988, dove si esaltano lotta armata e sostituzione di Israele con uno Stato islamico.
Il governo belga ha già sospeso con questa motivazione due progetti di cooperazione nei Territori: una centrale elettrica in Cisgiordania e un piano di aiuti economici a Gaza per 4 milioni di euro in totale. Ma tra i partner europei c'è anche chi sarebbe disposto a concedere tempo ai palestinesi.
Gli americani sono invece schierati con Israele. E Vladimir Putin ieri ha preso le distanze dagli altri partner nel Quartetto (Onu, Usa, Ue) sostenendo la necessità di non tagliare gli aiuti all'Anp. «La Russia non ha mai definito Hamas un'organizzazione terroristica, anche se non approva tutte le sue decisioni. Il rifiuto di aiutarla sarebbe un errore», ha detto il presidente russo. Nonostante i leader di punta del partito che ha vinto le elezioni del 25 gennaio abbiano ribadito ieri la loro intenzione a «non cedere al ricatto europeo e americano».
«L'aiuto internazionale al nostro popolo è un dovere umanitario. Vogliamo ricordare che Hamas è stata democraticamente eletta dalla maggioranza», ha detto da Gaza Ismayil Hanieh. La Siria fa appello al mondo arabo per raccogliere fondi alternativi a quelli occidentali. E proprio da Damasco un duro tra i capi di Hamas in esilio, Khaled Mashal, aggiunge in toni più aggressivi: «Non abbandoneremo i nostri principi per le pressioni straniere».
Il tentativo è quello di dimostrare ai palestinesi e al mondo islamico che Hamas non è l'Olp, e non accetterà di cambiare il proprio statuto, come fece invece l'organizzazione di Arafat alla fine degli anni Ottanta. «Hamas è diversa. Per noi la terra della Palestina, dal Giordano al Mediterraneo, resta Waqf, che è il termine musulmano per indicare che è terra sacra all'Islam. Non accetteremo compromessi. A Israele possiamo proporre una lunga hudna. Una tregua che possa durare nel tempo, magari più generazioni e possa venire rinnovata. Ma non ci interessa un trattato di pace»,
Ha scritto Carlo Panella(vedi Informazione Corretta del 27/01/2006):"Hamas può decidere una “hudna”, una tregua con Israele, può anche fingere di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele; la “taqiyya”, il nicodemismo, il diritto a un comportamento “irregolare” per preservare la comunità musulmana, è previsto e praticato nell’islam, ma soltanto a condizione che sia finalizzato al trionfo dell’islam; Hamas – non è un paradosso – può riconoscere Israele, ma soltanto per meglio distruggere Israele".
osserva l'Imam Abdul Fattah Dukhan da Nusseirat, uno dei maggiori campi profughi nella Striscia di Gaza. Un parere che conta il suo, perché Dukhan, oggi 70enne, è stato tra i sette fondatori di Hamas nel 1988 e viene considerato come il massimo ideologo dell'organizzazione dopo l'assassinio di Ahmed Yassin da parte di Israele due anni fa. «Noi non siamo antisemiti, non esiste una guerra di religione con gli ebrei.
Per valutare la credibilità di questa affermazione, è ancora utile rileggere quanto scritto da Carlo Panella il giorno dopo la vittoria elettorale di Hamas: "Hamas, nel suo statuto, ricorda che il cammino dell’uomo sulla terra, la salvezza dell’umanità, lo stesso Giudizio Universale sono legati, intersecati, con la lotta all’ultimo sangue dei musulmani contro gli ebrei (gli ebrei, non gli israeliani): “L’ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me vieni e uccidilo’; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei”. Questa orrida concezione del Giudizio Universale è un “Hadith”, una frase pronunciata da Maometto e riferita al Bukhari; è un “editto” che lega la più intima fede, l’essenza salvifica dell’islam, alla negazione, alla distruzione dello stato di Israele e addirittura degli ebrei non convertiti all’islam, che dovranno tutti essere uccisi perché l’umanità si salvi"
Però pretendiamo che vengano riconosciuti da Israele i nostri diritti fondamentali, cancellati sin dalla fine della nostra libertà nel 1948. E primo tra tutti va accettato il diritto del ritorno per i cinque milioni di palestinesi che oggi vivono sparsi all' estero», continua Dukhan.
Ma rassicura che non si cercherà di islamizzare la società palestinese: «Noi crediamo nelle libertà individuali. Hamas non imporrà mai il velo alle donne».
Scrive Panella sul FOGLIO del 1 febbraio: "Proprio questi due signori (Khaled Meshal e Khaled Abu Marzuq, leader di Hamas a Damasco, ndr), come ricorda il leader israeliano Natan Sharansky, due anni fa hanno mandato una donna palestinese che aveva tradito il marito – condannata a morte secondo la loro sharia – a farsi esplodere in un ristorante sul mare di Israele, pieno di arabi ed ebrei, sterminandoli tutti, compreso un bimbo di nove mesi". Gente che crede nelle "libertà individuali", come si vede.
A pagina 14 Charles Kupchan e Ray Takeyh ipotizzano la possibilità di un accordo tra Stati Uniti e Iran fondato sul comune interesse alla stabilizzazione dell'Iraq. Trscurano totalmente la minaccia contro Israele. Ma è tutto il loro ragionamento ad essere viziato. In realtà la minaccia iraniana, per le stesse caratteristiche ideologiche del regime, non potrebbe che rivolgersi, presto o tardi, anche agli stati occidentali che momentaneamente, sacrificando la sicurezza di Israele, potrebbero evitarla. Ecco il testo:
La crisi innescata dal programma nucleare iraniano si sta facendo sempre più delicata. Adottando una linea dura, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha risposto all'incombente minaccia di sanzioni con un'alzata di spalle, facendo sapere alle potenze occidentali che «chi usa un linguaggio duro nei nostri confronti ha bisogno dell'Iran dieci volte di più di quanto noi abbiamo bisogno di loro».
La belligeranza e i proclami antisemiti di Ahmadinejad potrebbero mettere in dubbio questo giudizio, ma la sua analisi dell'impasse sul nucleare fa quasi centro: è innegabile che l'Iran detenga un'incredibile serie di assi nella manica.
Quarto maggiore esportatore mondiale di greggio, l'Iran esercita un controllo strategico sui mercati petroliferi. In più, Teheran ha un'influenza decisiva sull'Iraq. I due Paesi condividono una frontiera estesa e porosa. Molti dei predicatori iracheni più influenti hanno vissuto o studiato in Iran, dando così a Teheran l'esclusiva possibilità di aprire le porte ai politici e predicatori destinati a dominare la politica dell'Iraq.
Se da un lato l'influenza iraniana in Iraq rafforza la sua intransigenza, dall'altro offre una potenziale soluzione all'attuale impasse
sul nucleare. Le ambizioni nucleari di Teheran non rispondono a un indomito desiderio di egemonia nella regione, ma all'ansiosa ricerca di un'adeguata forza dissuasiva diretta a quelle che sono percepite come minacce esterne. Da questa prospettiva, l'unica via per contenere il programma nucleare di Teheran risiede nell'affrontare la questione inquadrandola nella più vasta tematica della sicurezza nell'area del Golfo.
Paradossalmente, è in Iraq — dove gli interessi di Usa e Iran si incontrano — che i due Paesi potrebbero collaborare allo sviluppo della stabilità nella regione. I conseguenti miglioramenti nei rapporti Usa-Iran e nella sicurezza regionale potrebbero bastare a scongiurare la crisi nucleare favorendo la prospettiva di un Iraq stabile.
Gli iraniani si rallegrano che Saddam Hussein, fautore del conflitto tra Iran e Iraq, stia languendo in prigione. Ma adesso l'Iran stesso è nel mirino dell'America, con un vasto arsenale militare Usa parcheggiato appena al di fuori delle sue frontiere. Con tanti rischi in agguato, è improbabile che Teheran abbandoni le sue ambizioni nucleari per rispondere alla minaccia di sanzioni pecuniarie e incursioni militari. Anzi, sarebbero senz'altro bastonate controproducenti, salvo affiancarle a un'allettante carota: la prospettiva di alleviare le paure scaturite dai pericolosi vicini dell'Iran e dal suo annoso scontro con l'America. È qui che entra in gioco l'Iraq.
Gli Usa e l'Iran hanno una folta serie di interessi comuni in Iraq, il che offre loro un'opportunità unica di convergenza finalizzata alla normalizzazione. Come Washington, Teheran ha un profondo interesse nell'evitare una guerra civile e sostenere l'unità dell'Iraq. Le élites iraniane appoggiano l'idea di un Iraq democratico, pienamente consapevoli che gli accordi consensuali per la spartizione del potere tra sciiti, sunniti e curdi sono vitali ai fini della sopravvivenza della nazione irachena.
Washington e Teheran dovrebbero puntare sugli interessi comuni in Iraq per collaborare a un ampio spettro di progetti. L'Iran può contribuire al piano Usa per la ricostruzione economica mettendo a disposizione i propri contatti con i commercianti iracheni e la disponibilità ufficiale a sostenere Bagdad. Quanto alla stabilità politica, pur essendo gli Usa ben radicati nel territorio, il loro potenziale coercitivo necessita della sponda della potenza morbida dell'Iran. Gli educatori e i predicatori, politici e uomini d'affari iraniani hanno un'influenza strategica sia sulle élites di Bagdad che sui leader locali. L'interesse di Teheran a prevenire la frammentazione dell'Iraq costituisce una buona ragione perché esso spinga tutti i partiti sciiti, comprese le milizie indipendenti, a collaborare con il governo centrale e resistere alle tentazioni secessioniste.
Un dialogo tra iracheni, iraniani e americani potrebbe, in ultima analisi, portare alla creazione di una nuova architettura per la sicurezza nel Golfo. Un organo regionale potrebbe intraprendere misure atte a incrementare la fiducia reciproca e siglare accordi per il controllo delle armi e ancora avviarsi alla creazione di istituzioni per la sicurezza collettiva e il mercato comune.
Per mettere a frutto questo programma, Washington ha bisogno di un partner volonteroso a Teheran. Ahmadinejad non lo è. Ma si sta registrando una lotta di potere strisciante all'interno dello Stato teocratico, che vede da una parte i pragmatisti come Akbar Hashemi Rafsanjani e dall'altra il nuovo presidente e il suo entourage di agitatori.
Tenuto conto della retorica ripugnante del presidente iraniano e della sua intransigenza politica, non sembrerebbe affatto, questo, il momento giusto per consigliare a Washington di tendere la mano a Teheran. Ma è l'unico modo per tenere viva la speranza non soltanto di scoraggiare le ambizioni nucleari dell'Iran, ma anche di portare stabilità in Iraq.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera